La posizione del dirigente pubblico successivamente alla riforma del pubblico impiego
22 Gennaio 2018
Massima
La posizione di diritto soggettivo di cui è titolare il dirigente immesso nel ruolo in epoca anteriore all'entrata in vigore della riforma del pubblico impiego (D.Lgs n. 29 del 1993), non può permanere dopo l'entrata in vigore della predetta riforma, per evidente incompatibilità con la disciplina della dirigenza contenuta in tale riforma, caratterizzata dalla temporaneità degli incarichi e dalla esclusione della configurabilità di diritti soggettivi a conservare determinate tipologie di incarico dirigenziale. Il datore di lavoro pubblico deve attivarsi per “armonizzare” la posizione soggettiva del dirigente - degradata, a seguito della riforma del pubblico impiego (D.Lgs n. 29 del 1993), da diritto soggettivo a conservare determinate tipologie di incarico ad interesse legittimo all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo – con il nuovo assetto organizzativo del settore, predisponendo un contratto individuale contenente il nuovo inquadramento del dirigente e la relativa tempistica con la conseguenza che, se ciò non avviene, la revoca implicita dell'incarico dirigenziale configura un inadempimento contrattuale della PA medesima, produttivo di un danno risarcibile, perché non rispettoso dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost. Il caso
Il sig. G.F., a seguito del superamento di un concorso per la copertura di un posto di direttore sanitario, a partire dal giugno 1991, ha iniziato a svolgere attività di direttore medico del Presidio ospedaliero di Caserta con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, finché la Pubblica Amministrazione, con provvedimento dell'ottobre 2003 gli ha revocato l'incarico dirigenziale attribuendogli le funzioni di “product manager”, diverse ed inferiori rispetto a quelle da sempre svolte. Ritenendo illegittimo il comportamento dell'Amministrazione, G.F. chiama in giudizio l'Azienda Ospedaliera prima innanzi al Tribunale, poi alla Corte di Appello di Napoli che, in parziale accoglimento delle sue pretese, condanna l'Amministrazione al risarcimento del danno. Avverso tale sentenza, G.F. propone ricorso in Cassazione affidandolo a tre motivi. Con il primo, G.F. denuncia l'inapplicabilità della normativa sulla temporaneità degli incarichi dirigenziali ossia del D.Lgs n. 29 del 1993 e del D.Lgs n. 502 del 1992 (quest'ultimo specificamente dedicato alla disciplina sanitaria), evidenziando di aver vinto un concorso pubblico come direttore sanitario molto prima dell'entrata in vigore di tali norme e di essere dunque titolare del diritto soggettivo pieno alla qualifica e alle funzioni di direttore sanitario riconosciutogli dalle disposizioni vigenti all'epoca della sua immissione nel ruolo, aggiungendo che, peraltro, l'Azienda non aveva mai modificato i termini del suo rapporto di lavoro, perciò, ai sensi dell'art. 21 D.Lgs n. 165/2001 e della relativa giurisprudenza, la revoca implicita dell'incarico dirigenziale doveva ritenersi illegittima con conseguente diritto alla riassegnazione all'incarico illegittimamente revocato. Con il secondo motivo, G.F. denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 15 D.Lgs n. 502/1992, relativo alla dirigenza medica, ritenendo che l'ipotetica applicabilità di tale norma avrebbe dovuto portare l'Amministrazione a comunicare i termini e la tempistica del nuovo inquadramento. Da ultimo, denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. e dell'art. 15 del D.Lgs n. 502/1992, ritenendo erronea la quantificazione del danno risarcibile effettuata dalla Corte di Appello e lamentando che il diritto al risarcimento gli doveva essere riconosciuto per tutto il periodo in cui era stato distolto dall'incarico dirigenziale e quindi dal provvedimento di revoca fino alla effettiva reintegrazione o quanto meno fino alla ipotetica durata temporanea. La Corte rigetta il primo motivo e accoglie gli altri due, conseguentemente cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione. Le questioni
La pronuncia in esame affronta due questioni:
Le soluzioni giuridiche
La Suprema risolve la prima questione operando una ricostruzione del quadro normativo di riferimento e della giurisprudenza formatasi in tema di diritti quesiti e concludendo che il diritto soggettivo riconosciuto al ricorrente dalla normativa vigente all'epoca della sua immissione nel ruolo come dirigente sanitario non possa permanere in quanto tale dopo l'entrata in vigore della riforma del pubblico impiego di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993 espressamente richiamato dall'art. 15 del D.Lgs n. 502 del 1992 sulla dirigenza sanitaria. In base alle nuove norme il dirigente ha un mero interesse legittimo alla assegnazione degli incarichi, soggetto com'è alla potestà discrezionale della Pubblica Amministrazione che può decidere di avvalersi o meno di un determinato dipendente in possesso della qualifica dirigenziale. Nella fattispecie, precisa la Corte, non può neppure ritenersi applicabile la disciplina transitoria specificamente dettata per la dirigenza medica (art. 26 del D.Lgs n. 29 del 1993) secondo cui “Le posizioni funzionali corrispondenti al decimo e undicesimo livello retributivo dei ruoli professionale, tecnico ed amministrativo delle amministrazioni, delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale sono conservate ad personam fino all'adozione dei provvedimenti di attribuzione della qualifica di dirigente…” perché essa è stata abolita a partire dal 13 gennaio 1994 per effetto dell'art. 14 del D.Lgs n. 546 del 1993. La Corte sottolinea, del resto, che il nuovo assetto normativo conseguente alla privatizzazione risponde anche alle finalità ulteriori, di rilievo pubblicistico, come quella di “accrescere l'efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi della Comunità europea” e “razionalizzare il costo del lavoro pubblico” (Corte Cost. nn. 359 del 1993 e 150 del 2015). Il diritto in esame non può neppure configurarsi come diritto quesito sottratto alle disposizioni sopraggiunte ben potendo le stesse, come di fatto è avvenuto, modificare o sopprimere diritti riconosciuti da disposizioni previgenti, in modo espresso o tacito. Sul punto, la Corte si conforma alla propria giurisprudenza (Cass. 29 agosto 1963, n. 2372; Cass. SU 1 marzo 1988, n. 2166; Cass. 16 giugno 2014, n. 13960). Vale la pena ricordare che alle stesse conclusioni è giunta la giurisprudenza costituzionale nel rimarcare la differenza tra disposizioni sopravvenute propriamente retroattive, per le quali può porsi un problema di tutela dell'affidamento, e disposizioni non retroattive - come quelle in esame - che hanno semplicemente immediata applicazione e non farebbero sorgere l' esigenza di tutela delle posizioni sorte nel vigore di norme precedenti (Corte Cost. 22 novembre 2000, n. 525; Corte Cost. 12 novembre 2002, n. 446.
Risolta la prima questione, la Corte passa alla seconda: posto che a partire dalla entrata in vigore della riforma del pubblico impiego (21 febbraio 1993), il diritto soggettivo del ricorrente alla conservazione dell'incarico dirigenziale si è degradato ad interesse legittimo, l'Amministrazione aveva l'obbligo giuridico di “armonizzare” la sua posizione soggettiva con il nuovo assetto organizzativo, predisponendo, previo confronto con l'interessato, un contratto individuale che gli assicurasse la corrispondenza delle funzioni a parità di struttura organizzativa. In proposito, la Corte si richiama ad un principio consolidato secondo cui i comportamenti dell'amministrazione successivi all'approvazione della graduatoria di un concorso pubblico – nella specie, gli atti di conferimento e revoca di incarichi dirigenziali - vanno ricondotti nell'ambito privatistico, essendo espressione del potere negoziale della Pubblica Amministrazione nella veste di datrice di lavoro, da valutarsi alla stregua dei principi civilistici in ordine all'inadempimento delle obbligazioni (art. 1218 c.c.) secondo i parametri della correttezza e della buona fede (si v. tra le molte, Cass., S.U., 6 luglio 2006, n. 15342) come tali soggetti al sindacato del giudice ordinario (per tutte, Cass. SSUU 26 giugno 2002, n. 9332, in www.iusexplorer.it). Nella fattispecie, l'Amministrazione ha rimosso, senza preavviso e implicitamente, il ricorrente dall'incarico da sempre ricoperto, assegnandolo ad altre funzioni e ciò senza aver mai evidenziato la natura temporanea dell'incarico che gli aveva conferito dopo l'entrata in vigore della riforma. Tale interruzione ingiustificata del rapporto di ufficio del dirigente intervenuta prima dello spirare del termine stabilito, deve dunque ritenersi illegittima (in questi termini v. Cass. 9 gennaio 2017, n. 217; Cass. 4 aprile 2017, n. 8717 che riprendono un costante orientamento della giurisprudenza costituzionale). In particolare, la revoca implicita configura un inadempimento contrattuale suscettibile di produrre un danno risarcibile. Per la quantificazione di tale danno la Suprema Corte afferma che debba tenersi conto del termine massimo di durata di sette anni previsto dall'art. 15 del D.Lgs n. 502 del 1992, correggendo sul punto la motivazione della Corte territoriale che pur muovendo dall'esatta premessa di dover fare riferimento a suddetto termine poi non lo aveva ritenuto applicabile sulla base di circostanze di fatto giuridicamente irrilevanti.
Osservazioni
Un ragionamento analogo a quello seguito nella pronuncia in commento in merito alla incidenza dello jus superveniens sulla posizione soggettiva del vincitore di un concorso, lo si ritrova nella giurisprudenza di legittimità relativa ai casi in cui, successivamente alla emanazione del bando di concorso e prima della conclusione delle operazioni concorsuali, sia cambiato il quadro normativo nel cui ambito il bando stesso era intervenuto. In quelle fattispecie, la Corte aveva ritenuto che il datore di lavoro pubblico fosse obbligato a predisporre il diverso inquadramento nascente dalla contrattazione collettiva sopravvenuta (Cass. 4 luglio 2007, n. 15039, in particolare nel caso in cui, a seguito di riorganizzazione interna e prima del formale provvedimento di nomina, fosse stata soppressa la qualifica funzionale per cui il vincitore aveva partecipato al concorso (si v. Cass. 1 ottobre 2010, n. 20544; Cass. 4 ottobre 2010 nn. 20568 e 20569; Cass. 7 maggio 2006, n. 8192; Cass. 7 maggio 2005, n. 7219. Anche in quei casi, la Corte si era richiamata al principio desumibile dall'art. 97 Cost. per il quale la Pubblica Amministrazione, nell'organizzare i suoi uffici, è tenuta a conformare la sua azione ai principi di imparzialità e legalità, evidenziando che “tale obbligo, nel caso di jus superveniens, impone all'Amministrazione (…) di adottare il provvedimento di inquadramento del vincitore del concorso sulla base della norma (di natura legislativa o collettiva) vigente al momento dell'adozione dell'atto. Concludendo, analogamente a quanto è stato fatto nel caso in esame “può, dunque, ritenersi che il diritto del candidato vincitore ad assumere l'inquadramento previsto dal bando di concorso espletato dalla Pubblica Amministrazione in regime di pubblico impiego privatizzato per il reclutamento dei propri dipendenti, è subordinato alla permanenza, al momento dell'adozione del provvedimento di nomina, dell'assetto organizzativo degli uffici in forza del quale il bando era stato emesso”, assetto che viene, naturalmente, alterato dalla sopravvenienza di una nuova disciplina (Cass. SU, 2 ottobre 2012, n. 16728. |