Il rispetto della persona umana nelle disposizioni in materia di consenso informato medico e di disposizioni anticipate di trattamentoFonte: L. 22 dicembre 2017 n. 219
24 Gennaio 2018
Una legge doverosa
Con l'approvazione parlamentare sul finire d'anno (ed allo scadere della XVII legislatura) delle “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, il Parlamento ha portato a definitivo compimento un processo legislativo iniziato oltre vent'anni or sono (d.d.l. Fortuna, 1984) e protratto senza esito per cinque legislature. In tal modo, anche il nostro Paese, come la maggior parte degli stati civili (la California, col Natural death act, sin dal 1976), si è dotato di una legislazione rispettosa dei diritti dei malati, non solo in materia di c.d. testamento biologico, ma anche di consenso informato in tema di trattamenti sanitari e sul c.d. fine vita. La legge n. 219 del 22 dicembre 2017 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2018 e pertanto in vigore a far data dal 31 gennaio 2018) è frutto di un lungo lavoro durato oltre un anno prevalentemente all'interno della Commissione Affari Sociali della Camera, di composizione, cesello e reductio ad unitatem di ben sedici proposte di legge in materia, che è stato reso possibile grazie all'equilibrata opera di mediazione dalla relatrice di maggioranza, on. Donata Lenzi. La neofita disciplina normativa, che secondo i conditores si colloca in una visione mite del diritto (si veda Per un diritto gentile in medicina, a cura di ZATTI), pone al centro dell'attenzione la persona malata, portatrice di plurime facoltà, poteri, diritti; in particolare, in materia di autodeterminazione medico-sanitaria, affinché al malato e solo a lui competa, a seguito di adeguata informazione medica, la scelta terapeutica, il diritto di rifiuto delle cure e dei trattamenti, di interruzione o di rinunzia, per quanto ciò possa condurre a morte. Anche in caso di rifiuto del trattamento medico, vige il divieto di abbandono terapeutico del paziente, dovendo la medicina porre in essere forme di preparazione dignitosa del morire, tramite le cure palliative, la terapia del dolore e la sedazione palliativa continuativa profonda. Collocando al centro dell'attenzione la persona malata, vengono così attuati taluni cruciali enunciati costituzionali, seppur in termini di opportuno bilanciamento, principi che sono quelli richiamati nell'articolo d'esordio della legge; in particolare, il diritto alla salute ed al rispetto della persona umana (art. 32 Cost.), quello al rispetto della libertà individuale che è “inviolabile” (art. 13) e quello al rispetto della “personalità” individuale (art. 2), che tutti gli altri principi vivifica ed informa. Il consenso informato
Nel testo normativo il legislatore ha trasfuso la materia del consenso informato sanitario, portando a compimento un'importante opera di ricomposizione unitaria della delicata materia, i cui principi (sin dal Codice di Norimberga del 1947) erano generalmente accettati, in quanto validati da una pluralità di fonte normative multilivello, sparse e frammentate (Cost. art. 32; Convenzione di Oviedo del 1997; l. n. 833 del 1978; l. n. 194/ 1978; l. n. 47 del 2017 art. 6; codice di deontologia medica, art. 35; pronunzie della Corte Costituzionale e della Corte di Legittimità, a partire della pronunzia c.d. Englaro). Questa pregressa situazione di disordine non facilitava nell'interprete l'individuazione del quadro normativo di riferimento, privo di organicità, in una materia così delicata. Senza pretesa di innovatività, la legge n. 219, testé approvata, esplicita e chiarisce i termini del principio di autodeterminazione in materia sanitaria come si era venuto evolvendo e consolidando nell'interpretazione accettata; un principio assai rilevante nella relazione di cura e fiducia medico-paziente, al punto che già la nomofilachia aveva ribadito che: «l'obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento medico, al di fuori del quale l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente» (Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748, c.d. Englaro; Cass. civ., 5 luglio 2017, n. 16503). L'art. 1 comma 3, della legge ribadisce il principio, più volte affermato nell'elaborazione cassazionale (v. Cass. civ., 15 gennaio 1997 n. 364, in Giust. Civ., 1997, I, 1586) della necessità che il consenso al trattamento sia informato ed esaustivo (secondo un orientamento minoritario il consenso informato andrebbe acquisto anche in ipotesi di eventi nefasti al limite dell'imprevedibilità; Cass. civ., 19 settembre 2014, n. 19731). In particolare, si precisato che il paziente «ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informato in modo completo, aggiornato a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia i medesimi». In forza del principio esposto al precedente § ed in attuazione al principio di autodeterminazione, la facoltà di scelta se e come curarsi compete non solo al paziente capace di autodeterminazione autonoma (art. 1), ma pure a quello incapace (minori, interdetti, inabilitati e persone sottoposte ad amministrazione di sostegno), che, laddove fisicamente o psichicamente impedite, possono esprimersi tramite i rispettivi legali rappresentanti (art. 3), previa valorizzazione delle relative volontà, capacità decisionali, valori, principi etici, morali ed esistenziali, secondo un trend interpretativo inaugurato dalla giurisprudenza di merito in materia di a.d.s. (Trib. Modena 28 giugno 2004, in personedanno). Tale facoltà compete infine pure a quanti siano divenuti incapaci di autodeterminazione e perciò siano “incapaci”, sempre che in precedenza «abbiano espresso le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» tramite «disposizioni anticipate di trattamento»(DAT) (art. 4). Ossia, mediante un atto di volontà considerato favorevolmente dall'ordinamento giuridico (arg. ex art. 1322, comma 2, c.c.). Introducendo la facoltà di redigere un proprio personale c.d. testamento biologico, la legge n. 219 evita ogni discriminazione tra il malato compos sui e quello che più non lo sia, per effetto di malattia psichiatrica o per altro motivo. Anche quest'ultimo diviene così ad ogni effetto titolare del diritto all'autodeterminazione medico-sanitaria, un diritto in precedenza riconosciuto solo in forza di una peculiare interpretazione giurisprudenziale del corpus normativo dettato in tema di amministrazione di sostegno (si v. Trib. Modena 16 settembre 2008, in Dir. Fam. Pers., 2008, 245). Nella scrittura privata contenente le DAT l'interessato esprime le proprie caratteristiche identitarie, i propri valori, opinioni, interessi, la propria filosofia di vita, la propria laicità o, a seconda, religiosità. Nelle DAT la persona può facoltativamente indicare un fiduciario che «lo rappresenti nelle relazioni col medico e la struttura sanitaria», che ne diviene fondamentale alter ego nelle relazioni medico-sanitarie. Tanto nel caso di paziente dotato di piena capacità di manifestazione del consenso sanitario, quanto nel caso di consenso espresso tramite DAT e de futuro, le disposizioni di trattamento medico sono vincolanti per «il medico che è tenuto al rispetto» di esse (art. 1, comma 6 e art. 4, comma 5). In tal modo, il sanitario va «esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6). Viceversa, le DAT non sono vincolanti per il medico (e «possono essere disattese...in accordo con il fiduciario») laddove le stesse appaiano «palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente», ovvero, laddove «sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita» (comma 5). Come appare evidente, è questo un profilo assai delicato della nuova legge che, se non correttamente inteso, potrebbe rischiare di restituire al medico il potere decisorio di cura, che invece compete al malato e, in caso di sopraggiunta incapacità di quest'ultimo, al fiduciario nominato. Per potere disattendere le DAT il medico deve acquisire “l'accordo” (ovvero il consenso) del fiduciario. Assai opportunamente, in presenza di “conflitto” (col fiduciario) insorto sull'applicabilità delle condizioni di esenzione delle DAT, ovvero, sulla corretta interpretazione delle disposizioni medesime, è previsto l'intervento dirimente del giudice tutelare (art. 4, comma 5, parte finale), su ricorso dei soggetti legittimati. La decisione è data con decreto motivato (art. 43 att. c.c.), decreto sempre reclamabile (art. 45 att. c.c.). Forma e revoca delle DAT
Similmente al testamento, che è l'atto col quale il de cuius «dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse» (art. 587 c.c.), tramite le DAT la persona, maggiorenne e capace di intendere e volere (al momento della confezione di esse), “esprime le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari», in previsione di un'eventuale futura incapacità (art. 4, comma 1). Come per l'atto di ultima volontà, anche la persona che “dispone” dei trattamenti sanitari che la possono concernere tramite DAT, deve farlo in modo formale (ovvero, atto pubblico o scrittura privata autenticata), per quanto il formalismo sia temperato da talune facilitazioni (possibilità di consegnare le DAT «personalmente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza», oppure, «presso le strutture sanitarie» che siano dotate dei necessarie supporti informativi a norma del comma 7), che mirano a rendere le DAT ampiamente accessibili. Tenendo poi conto dell'eventuale deterioramento delle condizioni fisiche del disponente (si pensi, ad es., all'assenza di mobilità negli arti e negli organi riscontrabile nei malati di s.l.a. o di distrofia muscolare in fase avanzata), la legge n. 219 ammette, flessibilmente, l'espressione delle DAT tramite “videoregistrazione”, o mediante l'utilizzo di altri «dispositivi che consentano alle persone con disabilità di comunicare» (art. 4, comma 6), ad es., valendosi del puntatore oculare utilizzato dai tetraplegici. In forza della tradizionale categoria civilistica del contrarius actus, le DAT sono sempre rivedibili, ponendo in essere un atto eguale e contrario, dotato della stessa forma di quello che si intende modificare. Tuttavia, assai opportunamente, il comma 6 (dell'art. 4) si fa carico delle ipotesi in cui il malato sia affetto da patologie gravemente invalidanti che, per effetto dell'inesorabile decorso patologico, abbiano ridotto la capacità e l'abilità della persona, impedendole di procedere alla revoca formale delle iniziali disposizioni. In tal caso è consentito non rispettare il requisito formale nell'ottica di garantire la sostanza dell'atto, affinché lo stesso risulti rispondente alle determinazioni ultime, attuali ed effettive del paziente. Con ciò si ammette la modifica/revoca di esse «con dichiarazione verbale raccolta dal medico, con l'assistenza di due testimoni». Il medico sembra assumere un'inedita funzione notarile. Nonostante il silenzio normativo serbato sul punto, parrebbe ipotizzabile che, in calce alle determinazioni verbali espresse dal paziente e raccolte (per iscritto) dal medico, quest'ultimo ed i testimoni, per ovvi motivi di certezza, garanzia e responsabilità, debbano apporvi la sottoscrizione, unitamente alla data. Il fine vita
Nell'ambito del neofita corpus normativo contenuto nella legge n. 219 peculiare importanze, per l'estrema delicatezza del tema, assumono le disposizioni dettate per il fine vita, espressione di quel diritto mite o diritto gentile verso la persona cui si è in precedenza accennato. Se la legittimazione al trattamento medico sanitario trova unico fondamento nel consenso libero ed informato del paziente, espressione del diritto all'autodeterminazione in materia sanitaria (Cass. civ., 16 ottobre 2007, n. 21748), opportunamente, la legge disciplina pure il suo risvolto contrario, ovvero il dissenso ad alcune o tutti i trattamenti sanitari o a singoli atti di trattamento (art. 1, comma 5). Per ovvie ragioni di garanzia, tanto per il paziente, quanto per il medico (che va così esente da responsabilità: ex art. 1, comma 6), il dissenso (espresso «con le stesse forme di cui al comma 4) è documentato in forma scritta», con videoregistrazione o con dispositivi che consentano alla persona di comunicare. Il dissenso va ogni caso documentato «con inserzione nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». In presenza del rifiuto o della volontà interruttiva della terapia, diritto che la legge riconosce espressamente al paziente capace, tuttavia, la stessa impone al sanitario di «promuovere ogni azione di sostegno al paziente»; in ogni caso «prospettando le possibili alternative» terapeutiche. A fronte del rifiuto al trattamento medico (o alla sua interruzione), espressa da parte di paziente capace, consapevole ed informato, la legge considera disponibile (e perciò rifiutabile) la nutrizione e l'idratazione artificiale. Superando annose e mai sopite diatribe, la normativa chiarisce che nutrizione ed idratazione artificiale «sono considerati trattamenti sanitari», cosicché gli stessi vanno ora sussunti sotto l'egida dell'art. 32 Cost., come larga parte della dottrina e della giurisprudenza aveva sostenuto. Ad ulteriore esplicitazione della scelta ontologica compiuta sul punto dal legislatore, il comma 5 del medesimo art. 1 ribadisce il concetto, precisando che nutrizione ed idratazione artificiale consistono nella «somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici». Le disposizioni normative rendono lecito (ed anzi, esercizio di una facoltà garantita e tutelata dall'ordinamento) in capo al paziente (oltre che doveroso per il personale medico-sanitario) il rifiuto e l'interruzione dei trattamenti sanitari, senza con ciò legittimare alcuna scelta eutanasica. Oltre dieci anni or sono Umberto Veronesi aveva sottolineato i problemi etici e di dignità umana e personale che solleva la c.d. «medicalizzazione del processo di morte», affermando che, una volta entrati in un servizio di rianimazione, diventa difficile per il malato morire (VERONESI, Il diritto di morire, Milano, 2006). Legittimando la nuova legge il rifiuto del trattamento sanitario, soprattutto in presenza di patologie progressive ad esito infausto ed irreversibile, il malato può preferire che la malattia abbia il suo decorso naturale, senza che la migliore tecnica medica e di cura lo mantenga in vita forzatamente, tramite macchinari sofisticati, cateteri, sondini, farmaci, medici ed infermieri. In attuazione al diritto all'autodeterminazione medico-sanitaria, il paziente può decidere di lasciarsi morire, secondo una precisa decisione esistenziale e conformemente ai valori di fondo ed identitari che hanno presieduto alle proprie scelte di vita e valoriali, permettendogli di essere accompagnato alla fase terminale della vita grazie agli strumenti che la medicina palliativa pone a disposizione (cui la nuova disciplina dedica ampio spazio e su cui infra il prossimo §). Senza che tale convincimento del paziente renda lecita la scelta eutanasica, di cui la nuova normativa non si occupa, perché anzi vieta di esigere trattamenti sanitari «contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche assistenziali» (art. 1, comma 6, parte finale). A fronte del rifiuto della terapia o all'interruzione della stessa, l'art. 1, comma 6, precisa che «il medico è tenuto al rispetto della volontà espressa dal paziente», andando con ciò esente da ogni responsabilità; al contempo, dispone che «ogni struttura sanitaria, pubblica o privata, garantisce con le proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge» (art. 1, comma 9). Con riferimento alla posizione del medico rispetto al rifiuto del trattamento, si è criticamente osservato che la previsione normativa degraderebbe «l'attività del medico a mero esecutore della volontà altrui, quasi fosse un notaio» (così l'on. Calabrò, relatore di minoranza, nella discussione generale del testo tenutasi alla Camera nella seduta del 13 marzo 2017). All'obiezione potrebbe replicarsi evidenziando che dominus del corpo malato (noli me tangere) è il paziente e non il medico tenuto a curarlo in presenza del consenso dell'interessato. Criticamente va però osservato che il nuovo testo non ha garantito al medico il diritto all'obiezione di coscienza, senza prevederne l'esonero dal compimento degli atti correlati, come dispone, ad es., l'art. 9 l. 22 maggio 1978 n. 194, in tema di interruzione volontaria di gravidanza. A fronte di questo vacuum normativo, può ipotizzarsi che il medico possa invocare l'obiezione di coscienza prevista dall'art. 22 del Codice deontologico. Medicina del dolore e cure palliative
Sempre secondo la prospettazione di fondo di un diritto mite o gentile nel quale la nuova disciplina si iscrive, l'art. 2 della legge esclude che il paziente che rifiuti o interrompa i trattamenti sanitari subisca alcuna forma di abbandono terapeutico. A tutela della dignità ed autonomia del malato, con scelta assai opportuna, la legge n. 219 esplicita, che in tali casi, al paziente viene sempre garantito «un'appropriata terapia del dolore», oltre che «l'erogazione delle cure palliative di cui alla l. 15 marzo 2010, n. 38» (similmente a quanto dispone il Codice di deontologia medica all'art. 38). Proprio quest'ultima civilissima legge assicura in regime di hospice residenziale ovvero mediante assistenza domiciliare, le cure palliative e gli interventi di terapia del dolore a beneficio dei malati terminali. In tal modo garantendo che la fasi terminali della malattia e della vita del paziente incurabile possano essere vissute dallo stesso e dai suoi familiari in modo dignitoso e senza inutili sofferenze, secondo una doverosa scelta di civiltà; e così «trasformando una morte straziante in un misericordioso spegnersi» (secondo le parole di VERONESI, op. cit., 23). Diventa un diritto del morente quello di non soffrire inutilmente. Sempre in questo ambito, «nei casi di pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte» (comma 2), l'art. 2 pone il divieto di accanimento terapeutico, mediante «somministrazione di trattamenti inutili o sproporzionati» (secondo quanto già prevede il Codice deontologico medico all'art. 16: che vieta al«medico di intraprendere o insistere in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita»). Assai innovativamente la parte conclusiva del comma 2 dell'art. 2 richiama la facoltà per il medico di ricorrere, col consenso informato del paziente, alla «sedazione palliativa profonda continua», associata alla terapia del dolore. Per sedazione palliativa profonda continua si intende la somministrazione di farmaci che riducono, fino ad annullarla, la coscienza del paziente, allo scopo di alleviare il dolore e il sintomo fisico o psichico refrattario e intollerabile per il paziente. Approssimandosi la morte, la sedazione viene somministrata al paziente terminale quando in assenza di terapie il dolore diviene straziante. In tali casi rappresenta scelta di civiltà ammettere il paziente terminale alla sedazione profonda, garantendo che il tempo della morte arrivi dignitosamente. In tal modo, è quasi scontato, la norma si iscrive nel progetto di dignità fissato in materia di trattamenti medici dall'art. 32 Cost., che, al comma 2, vieta di «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
In conclusione
In conclusione, la legge n. 219 colma un vuoto normativo in materia di cure e trattamenti medici, cura e tutela del malato, anche terminale, così portando a definitivo compimento quella parabola riformatrice, di tutela della persona fragile e malata iniziata con l'approvazione, un po' a sorpresa, della legge sull'amministrazione di sostegno sul finire del 2003.
Il testo normativo si caratterizza poi per semplicità e chiarezza, essendo accessibile anche ai non addetti ai lavori. Come segnalavano a seguito dell'adozione di un testo base da parte della Commissione Affari Sociali della Camera (MASONI, L'habeas corpus nel d.d.l. sulle disposizioni anticipate di trattamento, in personaedanno, 9 gennaio 2017), lo stesso rappresenta un salto di qualità, non solo a livello lessicale, ma anche contenutistico, rispetto ad analoghe iniziative legislative.
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