Incostituzionalità di norma incidente sul trattamento sanzionatorio e poteri del giudice dell'esecuzione di dichiarare la prescrizione
25 Gennaio 2018
Massima
Rientra nei poteri del giudice dell'esecuzione, adito per la rideterminazione della pena a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art.181, comma 1-bis, d.lgs. 42 del 2004, dichiarare l'estinzione per prescrizione del reato, riqualificato come contravvenzione ai sensi dell'art. 181, comma 1, d.lgs. 42 del 2004, oggetto della sentenza definitiva di condanna, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti. Il caso
Nella pronuncia in commento, la Corte Suprema ha affrontato la questione relativa ai poteri del giudice dell'esecuzione chiamato a rideterminare la pena irrogata con decisione divenuta irrevocabile, a seguito della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale della norma dell'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42 del 2004, introdotta dalla legge 15 dicembre 2004, n. 308, pronunciata dalla Corte costituzionale con sentenza n.56 del 2016. Più nel dettaglio, con l'impugnata ordinanza, la Corte d'appello di Salerno, in funzione di giudice della esecuzione, in parziale accoglimento dell'istanza proposta dal ricorrente, il quale, con sentenza emessa da quella medesima autorità giudiziaria del 16 novembre 2015 (irrevocabile), era stato condannato in relazione al delitto p. e p. dall'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. 42 del 2004, censurato dal giudice delle leggi, rideterminava la pena, non soltanto riconducendola, sotto il profilo quantitativo, entro la cornice edittale delineata dal comma 1, dell'art. 181, ma imprimendole, sul piano qualitativo, la differente connotazione tipologica connessa alla natura contravvenzionale della violazione. Peraltro, rigettava la contestuale richiesta diretta a provocare la dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato, maturata già in costanza del giudizio di cognizione, in conseguenza del più ridotto parametro temporale previsto dall'art. 157 c.p. per le fattispecie contravvenzionali. Ai fini di una migliore comprensione della problematica sottesa alla pronuncia in esame, mette conto richiamare in estrema sintesi il contenuto della sentenza della Corte costituzionale, n. 56 del 2016, che ha dato adito all'iniziativa in executivis del ricorrente. Premesso che, con legge 308 del 2004, il Legislatore ha introdotto al comma 1-bis dell'art. 181 d.lgs. 42/2004, delle ipotesi delittuose correlate a ben precisi presupposti fattuali, sanzionandole più severamente, la Consulta ha statuito la difformità dal dettato costituzionale di quella nuova disposizione, nella parte in cui estendeva la diversa qualificazione giuridica ed il più rigido regime punitivo agli interventi edificatori che: «a) ricadano su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili o aree tutelati per legge, ai sensi dell'art. 142, lasciando indenne dalla sanzione di illegittimità il rimanente periodo che collegava e, tuttora collega, l'inasprimento al superamento di specifici limiti volumetrici. Secondo il nuovo assetto della complessiva architettura incriminatrice ridefinita dall'intervento manipolativo della consulta, comportante l'assorbimento nella fattispecie contravvenzionale di cui al comma 1 dell'art. 181, delle condotte astrattamente qualificabili a norma del comma 1-bis, in quanto rispondenti all'archetipo descrittivo della lettera a), o dell'inciso iniziale della lettera b), interessati dalla declaratoria di illegittimità, la sentenza di condanna del ricorrente emessa in relazione proprio ad una ipotesi di attività edificatoria abusiva sanzionata dalla disposizione dichiarata incostituzionale e divenuta irrevocabile antecedentemente alla pronuncia del giudice delle leggi, necessitava degli apporti correttivi dell'organo della fase esecutiva, prontamente sollecitati dal condannato, non soltanto con riguardo alla rideterminazione della pena inflitta, quanto ad entità e natura, ma anche ai fini dell'accertamento dell'estinzione del reato, per la prescrizione maturata ancor prima della definizione del giudizio di merito. A fronte dell'accoglimento della istanza di mitigazione del trattamento sanzionatorio con conseguente applicazione del regime proprio dei reati contravvenzionali, la Corte territoriale si è attestata su una decisione di diniego, quanto alla invocata dichiarazione di prescrizione, argomentando dai limiti dettati dalla previsione dell'art. 676 c.p.p. che attribuisce rilevanza, in sede esecutiva, esclusivamente agli eventi estintivi successivi al giudicato. La questione
I giudici della S.C. si sono trovati a scrutinare l'annosa tematica dei poteri attribuiti al giudice della esecuzione, in dipendenza della espunzione di una norma penale dall'ordinamento giuridico per effetto della dichiarata illegittimità, con riferimento a una sentenza irrevocabile che, nel dare applicazione a quella disposizione prima della statuizione della Consulta, abbia condannato l'imputato, ovvero, determinato nel quantum e nella specie, la risposta punitiva. Nel caso che ne occupa, lo snodo critico affrontato dal giudice di legittimità attiene precipuamente alla possibilità per il giudice dell'esecuzione di rilevare a posteriori e sulla scorta della differente sussunzione categoriale, da delitto a contravvenzione, della fattispecie oggetto della sentenza di merito, dovuta ad un intervento manipolativo della Corte costituzionale, la causa di estinzione del reato per decorso del termine prescrizionale in epoca antecedente alla definizione del giudizio di merito. Le soluzioni giuridiche
In dissenso alla prospettata decisione negativa contenuta nell'ordinanza impugnata, il Supremo Collegio ha per converso accolto l'istanza del ricorrente, dispiegando un ampio ventaglio argomentativo che, seppur con apprezzabile concisione, ha ripercorso il complesso e articolato itinerario giurisprudenziale e dottrinario culminato nel radicale capovolgimento dei presupposti prospettici che, in un passato ancor recente, hanno fortemente condizionato il riconoscimento al giudice della esecuzione degli strumenti indispensabili a ricondurre gli effetti delle statuizioni dei giudici di merito in una dimensione di piena compatibilità con i valori della Carta costituzionale. Non è casuale il corposo richiamo operato nella pronuncia in esame ad ampi segmenti espositivi della sentenza delle Sezioni unite, n. 42858 del 29 maggio 2014 (imp. Gatto), in quanto epocale punto di approdo di un processo evolutivo minuziosamente ricostruito in termini storici e critici, segnato dalla sempre più avvertita necessità di imprimere alle disposizioni vigenti, ancorché emanate in epoche piuttosto risalenti, riflessi interpretativi conformi al nuovo assetto costituzionale, in larga parte contrassegnato dalla centralità dei diritti e delle libertà della persona e, quanto allo specifico tema della sanzione penale, dai fini di rieducazione e reinserimento del condannato. La lettura della citata sentenza n. 42858/2014 rende evidente come le inveterate resistenze a riconoscere al giudice della esecuzione molte delle facoltà che, grazie ai più recenti arresti della Suprema Corte (e delle Corte costituzionale), costituiscono oramai un dato acquisito, nascessero da incrostazioni ideologiche legate ad una visione statalista dell'ordinamento penale e, per altro verso, dalla difettosa comprensione della radicale diversità di presupposti ed implicazioni del fenomeno della successione delle leggi nel tempo, rispetto alla declaratoria di incostituzionalità di una norma penale. Sotto il primo aspetto, la Corte evoca il dogma della intangibilità del giudicato che, soltanto a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, ha iniziato a conoscere un processo di progressiva ed inarrestabile erosione, inaugurato dalla graduale apertura della giurisprudenza di legittimità all'applicazione del regime di favore dell'art. 81 c.p., come modificato dall'art. 8 del d.l. 11 aprile 1974, n. 99 (convertito dalla legge 7 giugno 1974, n. 220), non solo per l'ipotesi in cui il reato più grave fosse quello giudicato con la sentenza irrevocabile ma anche nella opposta prospettiva in cui la fattispecie più grave fosse quella oggetto del giudizio in corso (Cass. pen., Sez. unite, 21 giugno 1986, n. 7682). La pronuncia della Corte costituzionale n. 115 del 1987, di poco successiva alla decisione delle Sezioni unite, contribuiva a chiarire come l'annosa contrapposizione fra l'esigenza di stabilità e inattaccabilità del giudicato e quella di salvaguardia di diritti primari della persona e delle “buone ragioni del cittadino”, in presenza del pericolo di disparità di trattamento determinate da eventi del tutto casuali, come la contestualità o meno dei giudizi su plurimi reati avvinti dalla unicità del disegno criminoso, dovesse essere superata circoscrivendo il canone della immodificabilità del giudicato all'accertamento del fatto ed alla sua attribuzione al condannato, e ammettendo, per contro, ampi margini di modifica, anche in sede esecutiva, dell'impianto sanzionatorio. Da qui l'ulteriore riflessione riguardante, appunto, la sostanziale differenza del fenomeno della abrogazione di una norma a opera del Legislatore, ovvero della successione di leggi, dalla dichiarazione di incostituzionalità. Due situazioni affatto diversificate per presupposti giuridici, effetti e competenze. Mentre la modifica del quadro normativo risponde ad una dinamica fisiologica in forza della quale, a seguito di rinnovate valutazioni di opportunità e convenienza, il legislatore immette nell'ordinamento una nuova regolamentazione, determinando un meccanismo abrogativo che circoscrive lo spazio temporale di efficacia della norma previgente e introducendo una diversa disciplina destinata a valere per il futuro e, per quanto concerne l'ordinamento penale, a incontrare il limite invalicabile di applicazione, in ipotesi di previsione di maggior favore, nella sentenza irrevocabile (art. 2, comma 4, c.p.), la dichiarazione di illegittimità costituzionale materializza un evento patologico che comporta la radicale e originaria espunzione della norma censurata dall'ordinamento e che, nel caso di norma penale, produce effetti invalidanti destinati a ripercuotersi in senso risolutivo sulla condanna passata in giudicato. Va da sé che, con stretto riferimento alle disposizioni penali, tenuto conto della particolare gravità delle loro ricadute sulla libertà personale, la applicazione retroattiva della sentenza dichiarativa della incostituzionalità (beninteso, di norma di maggior sfavore) debba trovare la massima estensione, incontrando un unico, invalicabile limite, quando gli effetti del giudicato siano divenuti irretrattabili, ovvero, quando il rapporto esecutivo scaturente dalla sentenza di condanna si sia esaurito, ossia abbia avuto completa e definitiva esecuzione. Se, tali considerazioni sono confortate, sul piano normativo, dal sicuro riscontro della disposizione dell'art. 673 c.p.p., che, nell'introdurre un inequivocabile vulnus al tradizionale principio di intangibilità del giudicato, attribuisce al giudice della esecuzione un potere di revoca della sentenza definitiva basata sull'applicazione della legge inficiata di acclarata incostituzionalità, altro dibattito giurisprudenziale e dottrinario di non poco momento ha gravitato attorno alla questione delle ricadute della sentenza della Corte costituzionale quando la dichiarazione di illegittimità abbia riguardato, non già la norma incriminatrice tout court, ossia una disposizione introduttiva di un titolo di reato, comprensivo di precetto e sanzione, bensì, altro tipo di norma penale sostanziale applicata dal giudice del merito, non ai fini dell'affermazione di responsabilità, ma per la determinazione della tipologia e dell'entità del trattamento sanzionatorio. Tale problematica ha rappresentato il punto nodale di molteplici, contrapposti pronunciamenti della S.C., chiamata più volte come non mai a dirimere la questione inerente la possibilità del giudice della esecuzione di procedere a una rideterminazione della pena, in conseguenza della dichiarata illegittimità di una norma che ha inciso sul trattamento sanzionatorio irrogato con la sentenza passata in giudicato, antecedentemente all'intervento della Consulta. Negli ultimi anni il dibattito si è rinnovato a più riprese, rinfocolato dalla sopravvenuta espunzione dall'ordinamento penale di disposizioni i cui effetti si sono riversati, anche solo per una frazione, sul quantum delle risposte sanzionatorie elaborate dai giudici del merito. Si allude alla circostanza aggravante prevista dall'art. 61 n. 11-bis c.p., dichiarato incostituzionale con sentenza n. 249 del 2010; alla norma dell'art. 99, comma 4, c.p., dichiarata illegittima dalla sentenza Corte costituzionale n. 251 del 2012, nella parte in cui poneva il divieto, nel giudizio di bilanciamento, di una eventuale soccombenza della recidiva stessa in favore della circostanza attenuante del comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/1990. E ancora, non possono sottacersi le conseguenze, sotto il profilo della esecuzione della pena, della dichiarazione di illegittimità degli artt. 4-bis e 4-vicies ter della legge 49 del 2006, con conseguente ripristino, quoad poenam, del discrimine fra droghe leggere e droghe pesanti. Ebbene, queste ripetute e ravvicinate sollecitazioni hanno consentito al Supremo Collegio, talvolta nella composizione apicale (v. anche Cass. pen., Sez. unite,20 dicembre 2005, n. 4687, Catanzaro; Cass. pen., Sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, Ercolano), di consolidare gli approdi prevalenti che già si erano manifestati nelle singole sezioni della Corte stessa, deponenti per il riconoscimento al giudice dell'esecuzione di pregnanti poteri di incidenza sulla esecuzione della sentenza irrevocabile, ossia sul titolo esecutivo, diversi ed ulteriori rispetto a quello di revoca tout court del giudicato in caso di dichiarata incostituzionalità della norma incriminatrice ex art. 673 c.p.p., ravvisando più specificamente, nella disposizione dell'art. 30, comma 4, legge 87 del 1953, lo strumento giuridico, tuttora vigente ed operante, con il quale paralizzare l'esecuzione della pena o di quella frazione derivante dall'applicazione della norma dichiarata incostituzionale. La progressiva estensione dell'intervento del giudice della esecuzione, accreditato anche della facoltà di concedere la sospensione condizionale della pena, previa esecuzione delle valutazioni prognostiche previste dall'art. 164 c.p., ogni qualvolta revochi ex art. 673 c.p.p., una sentenza di condanna risultata ostativa al riconoscimento del beneficio, all'atto della emissione di una successiva condanna divenuta irrevocabile (v. Cass. pen., Sez. unite, 26 febbraio 2005, n. 37107, Marcon), refluisce sulle valutazioni espresse dal S.C. nella sentenza oggetto della presente nota. Del resto, il perimetro prescrittivo della norma dell'art. 30, comma 4, succitata, nelle sue implicazioni semantiche, autorizza certamente la sua elezione a strumento processuale per tutte le ipotesi per le quali, a differenza della peculiare fattispecie di declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice contemplata dall'art. 673 c.p.p., si tratti di intervenire sull'entità e la natura della pena, nonché sugli eventuali effetti accessori ad essa collegati, senza minimamente intaccare l'efficacia del giudicato attinente al giudizio di fatto ed all'accertamento della responsabilità del condannato, quando ciò si renda necessario per riallineare il trattamento punitivo in senso più favorevole all'interessato, con i valori costituzionali lesi dalla norma applicata per la determinazione della sanzione medesima. Osservazione
Quanto allo specifico profilo affrontato dalla sentenza in commento, è appena il caso di osservare che l'approdo del S.C. si presenta in totale sintonia con le linee evolutive della giurisprudenza di legittimità richiamata e, anzi, costituisca uno sbocco quasi obbligato dei presupposti argomentativi che informano quelle precedenti pronunce. Se, infatti, l'argomento ritenuto dirimente dal giudice della esecuzione nel rigettare l'istanza di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, trova esplicito ancoraggio normativo nella previsione dell'art. 676 c.p.p., è agevole intravedere in quel ragionamento la sottovalutazione delle ricadute che la sostanziale illegalità della pena, derivante dalla illegittimità costituzionale delle disposizioni applicate per la sua determinazione, anche solo parziale, non può non produrre in un sistema di valori incentrato sulla preminenza dei diritti fondamentali della persona, rispetto alle esigenze organizzative e di stabilità sottese alla intangibilità del giudicato e contrassegnato dalla funzione risocializzante e rieducativa della sanzione penale, difficilmente perseguibile in concreto quando e se, la risposta punitiva non risponda al principio di legalità, né sia avvertita come legittima dal condannato. Invero, una volta appurata l'illegalità della pena perché fondata su una norma dichiarata incostituzionale e rideterminata la sua entità e la sua specie in conformità alla differente natura contravvenzionale della violazione, il riconoscimento ora per allora”della causa estintiva intervenuta già in pendenza del giudizio di merito, rappresenta riflesso pressoché obbligato della efficacia invalidante ex tunc della sentenza della Corte costituzionale, tanto più non obliterabile in sede esecutiva, in quanto fondato su un sostanziale automatismo involgente una mera operazione di calcolo, diretta a verificare l'effettivo compimento del termine indicato dall'art. 157 c.p., senza rischi, neppure minimali, di improprie invasioni nel campo delle valutazioni proprie del giudice della cognizione. |