Licenziamento per scarso rendimento: i criteri di articolazione dell'onere probatorio

Mario Gatti
26 Gennaio 2018

In caso di licenziamento per scarso rendimento spetta al datore di lavoro fornire la prova rigorosa del comportamento colpevole e negligente del lavoratore, e la dimostrazione della sussistenza della sproporzione tra gli obbiettivi fissati e quanto effettivamente realizzato nei periodi di riferimento dal dipendente, ponendo a confronto i risultati globali dello stesso, con la media dell'attività dei lavoratori addetti alle medesime mansioni.
Massima

Ai fini della legittimità del licenziamento per scarso rendimento occorre che il datore di lavoro provi rigorosamente il comportamento negligente del lavoratore e che l'inadeguatezza della prestazione resa non sia imputabile all'organizzazione del lavoro da parte dell'imprenditore ed a fattori socio-ambientali.

La fattispecie del licenziamento per scarso rendimento non è configurabile qualora parte datoriale non dimostri che il mancato raggiungimento dell'auspicato risultato produttivo derivi da un inadempimento degli obblighi contrattuali (a fronte di una condotta negligente del lavoratore) e che sussiste una enorme sproporzione tra gli obbiettivi fissati al dipendente e quanto effettivamente realizzato nei periodi di riferimento, in confronto al risultato globale della media delle prestazioni di tutti i dipendenti adibiti al medesimo incarico.

Il caso

Tizio, dipendente della compagnia automobilistica Z, era stato adibito quale responsabile di un nuovo settore commerciale relativo alla “vendita di flotte aziendali di autovetture”.

La Società aveva prefissato un quantitativo d'affari minimo (vendite) per tale reparto innovativo, il quale tuttavia non era stato conseguito dal dipendente.

La compagnia automobilistica provvedeva pertanto a contestare al lavoratore il mancato raggiungimento di tali standard quantitativi per mezzo di due provvedimenti disciplinari (contenenti sanzioni conservative) che sfociavano, poi, in un licenziamento per scarso rendimento.

Il lavoratore impugnava il licenziamento deducendone l'illegittimità, nonché il diritto alla reintegra ex art. 18 L. n. 300/1970 ed il risarcimento del danno biologico sofferto.

Il Tribunale di prime cure e la Corte d'Appello confermavano l'infondatezza di tutte le contestazioni, con conseguente illegittimità delle relative sanzioni conservative e della estromissione dall'azienda, condannando la Società alla reintegra del lavoratore, nonché al ristoro del danno biologico.

L'assunto sulla cui base i giudici di entrambi i gradi di giudizio fondavano il proprio convincimento si fondava sull'insussistenza della negligente condotta del dipendente (nello svolgimento delle attività assegnate), che rendeva non legittimo il licenziamento per scarso rendimento.

Il mancato assolvimento dell'onere probatorio - gravante sulla datrice di lavoro – in merito a:

  • una asserita negligenza del lavoratore e conseguente inadempimento dei suoi obblighi contrattuali (elemento costitutivo del licenziamento per giustificato motivo soggettivo);
  • la non imputabilità dell'asserito scarso rendimento all'organizzazione aziendale ed a fattori socio-ambientali (quale ad esempio l'andamento del mercato di riferimento) non permetteva di configurare i presupposti per un licenziamento per scarso rendimento.

I giudici ritenevano invece sussistere un nesso causale fra l'atto espulsivo e l'asserita lesione dell'integrità psico-fisica del lavoratore, così da legittimare il ristoro del danno biologico sofferto.

Avverso tale sentenza la Società proponeva ricorso per cassazione, insistendo per la legittimità del licenziamento e per l'insussistenza di qualsivoglia nesso eziologico fra il licenziamento ed il rivendicato danno biologico.

La questione

A seguito delle decisioni conformi dei giudici di merito interessati dall'impugnativa del licenziamento proposto dal lavoratore, il giudice di legittimità viene ad essere investito della controversia:

a) precisando i criteri di articolazione dell'onere probatorio del licenziamento per scarso rendimento;

b) definendo il proprio ambito di sindacabilità.

a) In relazione al primo profilo, come detto, la Società impugnava il provvedimento che aveva condannato la medesima alla reintegra ed al risarcimento del danno biologico patito dal lavoratore.

La prima questione attiene pertanto alla qualifica del licenziamento per scarso rendimento ai cui fini, a parere della Corte d'Appello e della consolidata giurisprudenza in materia, non risulta sufficiente in capo all'azienda fornire prova dell'inadempimento (per negligenza) del lavoratore, né, tantomeno, il mancato raggiungimento dei risultati prefissati. È, al contrario, necessaria la sussistenza di altri e più stringenti parametri (di cui infra).

b) Con riferimento al secondo profilo, la Società impugnava il provvedimento chiedendo di riesaminare la controversia nel merito e, nello specifico, le prove esperite.

Le soluzioni giuridiche

a) La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione resa in appello, ribadisce che a presidio del licenziamento per scarso rendimento devono essere dedotte dalla parte datoriale:

  • la rigorosa dimostrazione del mancato raggiungimento dei risultati attesi in rapporto alla normale capacità produttiva resa dalla maggioranza dei lavoratori;
  • l'effettiva riconducibilità dello scarso rendimento al negligente espletamento della prestazione lavorativa.

Escludono, invece, il configurarsi dello scarso rendimento ragioni imputabili all'organizzazione del lavoro da parte dell'imprenditore e fattori socio-ambientali.

La pronuncia della Suprema Corte, pur condividendo integralmente la decisione della Corte d'Appello e della consolidata giurisprudenza in materia, si pone in un'ottica maggiormente garantista dal lato del prestatore di lavoro, mettendo in luce una certa “resistenza” nel dare rilevanza al “rendimento” ed agli obbiettivi di performance del dipendente.

Il presupposto di tale rigidità, anche in considerazione della nozione tradizionale di rapporto di lavoro, si rinviene nella costruzione stessa di tale istituto, in cui il dipendente non si obbliga al raggiungimento di un determinato risultato (locatio operis), ma alla messa a disposizione delle proprie energie nell'interesse del datore di lavoro (locatio operarum).

Ciò implica che per legittimare il licenziamento per scarso rendimento, il datore di lavoro – a cui spetta l'onere della prova - non possa limitarsi a dimostrare esclusivamente il mancato raggiungimento del risultato atteso, bensì in primis che il mancato raggiungimento dell'auspicato risultato produttivo derivi da colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del dipendente nell'espletamento della sua normale attività lavorativa (Cfr. Cass. sez. lav., 19 settembre 2016, n. 18317).

Non solo. Ad avviso dei giudici di legittimità la violazione del dovere di diligenza deve essere direttamente collegata alla sussistenza di un'”enorme sproporzione” tra gli obbiettivi fissati per il dipendente e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultati globali riferiti all'attività ed ai risultati medi conseguiti dai lavoratori che operano in quel settore (c.d. “indice sintomatico”) ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cfr. Cass. sez. lav., 4 settembre 2014, n. 18678).

In altri termini, è necessario dimostrare che il lavoratore abbia conseguito un risultato inferiore alla media delle prestazioni rese dai colleghi con la medesima mansione e che lo scostamento registrato sia notevole, dando luogo ad una “enorme sproporzione” tra i risultati dei vari dipendenti così confrontati (Cfr. Cass. sez. lav., 22 gennaio 2009, n. 1632).

Per stabilire se tale indice dimostri che vi è stato inadempimento, è necessario altresì valutare la condotta complessiva del lavoratore in un apprezzabile periodo di tempo (cfr. Cass. sez. lav., 3 maggio 2003, n. 6747).

La Corte di Cassazione recepisce l'orientamento assolutamente consolidato in virtù del quale, ai fini del riconoscimento del licenziamento per scarso rendimento, occorre che il datore di lavoro dimostri in ultima che l'inadeguatezza del risultato del dipendente non sia imputabile all'organizzazione del lavoro da parte dell'imprenditore o a fattori socio-ambientali.

Nel caso di specie, il dipendente era stato licenziato sul presupposto di un quantitativo di vendite assolutamente insufficiente rispetto alle capacità aziendali.

Invero, in ordine a tale profilo il dipendente non poteva considerarsi negligente, in quanto, dai report lavorativi emergeva come il lavoratore non fosse mai stato inattivo ma si fosse dedicato in maniera prevalente ad una mission e ad un business del tutto nuovi ed inesplorati.

In sostanza il dipendente era stato adibito ex novo ad un settore (c.d. “vendita di flotte aziendali”) che costituiva certamente una novità finalizzata ad una rinnovata “strategia commerciale di attacco” intrapresa dalla società, che aveva peraltro comportato una riorganizzazione del settore vendite. Tuttavia, mancavano totalmente statistiche di vendita, procedure interne e strategie per questo nuovo settore, di talché si rendeva impossibile effettuare una congrua comparazione dei risultati del dipendente (successivamente licenziato) rispetto alle prestazioni complessivamente realizzate dalla forza lavoro.

Non era nemmeno possibile prendere a riferimento gli standard utilizzati per i venditori adibiti alle altre aree commerciali, essendo questi ultimi addetti ad aree e reparti del tutto diversi rispetto a quello del lavoratore licenziato, essendo tale eventuale comparazione ingiustificata, trattandosi di settori non omogenei.

Anche in ordine alla valutazione delle problematiche organizzative aziendali ed ai c.d. fattori socio ambientali, si deve ritenere come nel caso in esame fossero state operate da parte della Società rilevanti modifiche interne, essendo stato adibito il dipendente (che precedentemente aveva sempre ricoperto il ruolo di venditore generico) ad un nuovo settore di attività (decisione peraltro indipendente dalla sua volontà).

In conclusione, a conferma dei precedenti gradi di giudizio, è stato riconosciuto il diritto del lavoratore alla reintegra nel posto di lavoro e, per l'effettivo nocumento subito a fronte dei illegittimi provvedimenti disciplinari (conservativi ed espulsivi), il diritto al ristoro del danno biologico.

b) Precisati tali aspetti, la Suprema Corte ha aggiunto che la valutazione della prova della negligenza del lavoratore è una valutazione che compete al giudice di merito, la cui decisione è sindacabile in Cassazione esclusivamente per il vizio di omessa e insufficiente motivazione (ex art. 360, n. 5, c.p.c.).

In sede di legittimità non spetta infatti al Giudice il potere di riesaminare nel merito la controversia e le prove così fornite, ma esclusivamente quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione effettuata in sede di merito.

Osservazioni

A seguito di una generale panoramica sugli insegnamenti giurisprudenziali consolidatisi in materia, nonché da una lettura sommessamente critica degli stessi, è inevitabile non recepire i lineamenti marcatamente restrittivi che afferiscono la nozione di “rendimento” in ambito lavoristico.

A tale scenario rigido e conservativo - con l'evolversi del mercato del lavoro e con l'affermarsi di un'interpretazione assolutamente più flessibile del concetto di subordinazione (da intendersi come obbligazione in capo al prestatore di lavoro di fornire un'attività utile e coordinata con l'organizzazione imprenditoriale) - si accompagna tuttavia un più recente orientamento di segno contrario.

Attualmente, il rendimento rappresenta un importante elemento di giudizio dell'esatto adempimento della prestazione lavorativa, che si inserisce nel generale dovere del prestatore di lavoro di collaborare fattivamente con l'impresa, alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore, con la conseguenza che lo scarso rendimento derivante da una condotta manchevole del dipendente può costituire fonte di responsabilità e legittimare un'ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro per giustificato motivo soggettivo (Cfr. P. Ichino, Sullo scarso rendimento come fattispecie anfibia, suscettibile di costituire al tempo stesso giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2003.).

Rispetto ad un filone giurisprudenziale ormai assolutamente consolidato (nell'ambito del quale si colloca anche la pronuncia in esame), si innesta un (nuovo) filone interpretativo che riconosce, seppur a stringenti condizioni, come legittime talune ipotesi di licenziamento per scarso rendimento.

Sussistono peraltro ipotesi di scarso rendimento anche nel caso di assenze reiterate del lavoratore. Queste ultime, a parere di una parte della giurisprudenza di legittimità e di merito, possono integrare la fattispecie dello scarso rendimento qualora rendano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione e sulle esigenze organizzative e funzionali d'impresa (Cass. sez. lav., 4 settembre 2014, n. 18678; Cass. sez. lav., 22 gennaio 2009, n. 1632; Tribunale di Milano, sez. lav., 19 gennaio 2015, n. 1345; Tribunale di Milano, sez. lav., 19 settembre 2015 n. 26212).

Sebbene tali pronunce riconducano di fatto il licenziamento per scarso rendimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si può riscontrare come la sanzione espulsiva comminata al lavoratore sia più ragionevolmente dettata dalle modalità delle assenze effettuate dal dipendente (quasi sempre comunicate all'ultimo momento e in grandissima maggioranza ravvicinate a giornate festive) e dunque in una prospettiva di esecuzione non corretta e leale del rapporto di lavoro (in dottrina molti autori ritengono, anche in questo caso, maggiormente condivisibile la riconduzione di tale tipologia di licenziamento, al licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Cfr. G. Santoro Passarelli, Sulle categorie del diritto del lavoro "riformate", WP C.S.D.L.E. "Massimo D'Antona".IT – 288/2016; P. Ichino, Sullo scarso rendimento come fattispecie anfibia, suscettibile di costituire altempo stesso giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento, in Riv. it. dir. lav.,2003, II; così come in giurisprudenza, Cass. sez. lav., 9 luglio 2015 n. 14310 continua a ricondurre questo tipo di licenziamento al giustificato motivo soggettivo).

Sempre in linea con tale nuovo filone interpretativo, di recente la Suprema Corte ha rilevato come la performance del lavoratore per poter integrare lo “scarso rendimento”, debba risultare semplicemente “inferiore alla media esigibile” delle prestazioni rese da altri dipendenti (Cass. sez. lav., 23 marzo 2017, n. 7522).

In questo contesto, per procedere disciplinarmente, non sarebbe neppure necessaria la sussistenza di una “notevole sproporzione” fra prestazione resa e media esigibile, essendo sufficiente una qualunque inadeguatezza del lavoratore rispetto ai parametri medi di performance relativi al resto della forza lavoro adibita a quelle stesse attività.