La responsabilità degli organi di amministrazione e controllo nel T.U.: una mera vis expansiva del diritto societario?

31 Gennaio 2018

L'art. 12 del D.Lgs. 19 giugno 2016, n. 175 positivizza (per la prima volta) una disciplina (generale) della responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e controllo della società in mano pubblica per i danni arrecati mediante atti di mala gestio. Il Legislatore del T.U. opta per l'applicabilità dalle norme di diritto societario previste in tema di responsabilità degli organi sociali e rimette le relative azioni al giudice ordinario, con la sola esclusione delle sole società in house soggette alla giurisdizione contabile.
Premessa

Quello delle partecipate è – per usare le parole dell'ex Commissario straordinario alla spending review Cottarelli - un settore molto variegato, che comprende senza dubbio cose che deve fare assolutamente il settore pubblico perché il privato non le farebbe, e cose che non dovrebbe usare, perché il privato può farle meglio. In ogni caso, se le fa, il pubblico dovrebbe farle in modo efficiente. Spesso non è così”.

La creazione di società pubbliche negli anni più recenti ha rappresentato, dunque, uno strumento per “assicurare la riserva alla politica” che ha tentato di cumulare i vantaggi della struttura privata con quelli derivanti dell'applicabilità delle regole pubblicistiche. Infatti, le modalità di gestione di questi organismi societari hanno destato notevoli perplessità soprattutto con riguardo al reclutamento del personale (spesso operato senza il ricorso a procedure concorsuali) e al suo sovrabbondante numero di dipendenti, all'individuazione dei criteri per selezionare i componenti dei consigli di amministrazione (in troppi casi legati alla politica, destinatari di remunerazioni ritenute eccessive rispetto alle funzioni svolte e in numero anche superiore ai dipendenti) e alle dinamiche di gestione (non sempre trasparenti ed efficienti) delle risorse pubbliche affidate loro.

Pertanto, nelle società in mano pubblica convivono l'interesse pubblico e quello privato rendendo l'intreccio tra norme civili e speciali arduo da districare. Infatti, queste hanno innegabilmente natura di soggetto privato, dalla quale discende l'applicabilità delle disposizioni previste per le società dal codice civile, ma al contempo usufruiscono di risorse pubbliche derivanti dalla quota dell'ente socio, che possono alterarne la natura e il relativo statuto.

Le difficoltà relative all'individuazione delle normativa applicabile è emersa anche con riferimento al regime di responsabilità degli organi di governance di queste società, stante anche l'assenza, fino all'adozione del D.Lgs. n. 175/2016, di una disciplina esaustiva della materia.

In questa cornice normativa lacunosa una grande opera interpretativa è stata compiuta dalla giurisprudenza. La “natura camaleontica e anfibia” di queste società ha favorito, infatti, non univoche posizioni dalla giurisprudenza ordinaria e contabile, con conseguente diffusione di diverse tesi sull'applicabilità della responsabilità civile, di quella amministrativa ovvero della loro possibile cumulabilità.

Le incertezze emerse nel formante giurisprudenziale sono state acuite dalla perdurante inerzia del legislatore, che – fatta eccezione per un espressa disposizione in tema di società quotate (art. 16-bis D.L. n. 248/2007) - non ha mai preso posizione sul regime giuridico applicabile ai danni procurati alla società pubblica dagli amministratori e, conseguentemente, sull'individuazione del giudice munito di giurisdizione nella materia de qua.

La giurisprudenza antecedente al T.U.

L'assenza di precise indicazioni normative ha attribuito maggiore rilevanza alla ricostruzione interpretativa delle Sezioni unite della Cassazione che, a partire dalla sentenza 19 dicembre 2009, n. 26806, hanno ricondotto le società pubbliche al modello societario civilistico. L'orientamento inaugurato nel 2009 – sostanzialmente confermato dalla giurisprudenza successiva – ha, dunque, negato la giurisdizione contabile sull'azione di responsabilità degli amministratori delle società in mano pubblica per i danni a quest'ultima cagionati poiché“non è configurabile alcun rapporto di servizio tra l'ente pubblico partecipante e l'amministratore (o componente di un organo di controllo) della società partecipata, il cui patrimonio sia stato leso dall'atto di mala gestio, ma neppure sussiste in tale ipotesi un danno qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio dello Stato o di altro ente pubblico che della suindicata società sia socio”. Infatti,la distinzione tra la personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell'una rispetto agli altri non consentedi riferire al patrimonio del socio pubblico il danno al patrimonio dell'ente derivante dall'illegittimo comportamento degli organi sociali, in quanto il patrimonio “è e resta privato”.

La giurisprudenza successiva ha recepito in maniera pressoché univoca questo orientamento. La posizione di equilibrio in materia sembrava essere stata raggiunta nel 2013. Infatti, la sentenza delle Sezioni Unite 25 novembre 2013, n. 26283 – ribadendo l'opzione interpretativa fatta propria sin dal 2009 - ha precisato che “la società si configura come un soggetto di diritto pienamente autonomo e distinto, sia rispetto a coloro che, di volta in volta, ne impersonano gli organi sia rispetto ai soci, ed è titolare di un proprio patrimonio, riferibile ad essa sola e non a chi ne detenga le azioni o le quote di partecipazione. Pertanto, non solo risulta impossibile imputare personalmente agli amministratori o ad altri soggetti investiti di cariche sociali la titolarità del rapporto di servizio intercorrente tra l'ente pubblico e la società cui sia stato affidato l'espletamento di compiti riguardanti un pubblico servizio, ma soprattutto non può dirsi arrecato alla pubblica amministrazione il danno che gli atti di mala gestio, posti in essere dagli organi sociali, abbiano inferto al patrimonio della società”.

Il ragionamento delle Sezioni Unite prosegue evidenziando che la responsabilità nei confronti della società, dei soci, dei creditori e dei terzi in genere che grava sugli organi sociali, è regolata dalle medesime norme sia quando i membri degli organi di governance sono designati dai soci secondo le regole del codice civile, sia quando eventualmente designati dal socio pubblico in forza dei particolari poteri a lui spettanti (art. 2449 comma 2 c.c.). Il regime di responsabilità, anche in presenza di compagini societarie pubbliche,opera nei termini stabiliti dagli artt. 2393 c.c. ss., non diversamente dalle altre società private. Da ciò consegue che “il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che nel sistema del codice civile può dar vita all'azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, non è idoneo a configurare anche un'ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei Conti: perchè non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci - pubblici o privati - i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nel patrimonio sociale medesimo.”

La disciplina applicabile alle società in house e a quelle di diritto speciale

In questo quadro ermeneutico tendenzialmente volto a valorizzare la prevalente impostazione di matrice civilistica, la giurisprudenza delle Sezioni unite ha previsto deroghe specifiche per le società in house e per quelle c.d. di diritto speciale.

Più nel dettaglio, in relazione alle prime la scelta di rimeditare le consolidate coordinate interpretative cristallizzatesi a partire dal 2009 è stata indotta anche dalla necessità di rendere la soluzione compatibile sia con il diritto nazionale, che con quello sovranazionale, i quali inquadrano le società in house in una derivazione operativa dell'ente stesso, formalmente strutturata come soggetto privato, ma sostanzialmente dipendente per le scelte gestorie dai soggetti pubblici che ne detengono il capitale.

Partendo da detti presupposti, dunque, le Sezioni unite della Cassazione - con la già richiamata sentenza del 25 novembre 2013, n. 26283 - prendono atto dei connotati qualificanti la società in house,ovvero la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione a un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici (che implica per l'ente pubblico il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house). Le caratteristiche che contraddistinguono queste tipologie di società “bastano a rendere evidente l'anomalia del fenomeno dell'in house nel panorama del diritto societario”. Infatti, ciò che risulta “difficile conciliare con la configurazione della società di capitali, intesa quale persona giuridica autonoma e distinta dai soggetti che in essa agiscono e per il cui tramite essa stessa agisce, è la totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell'ente pubblico titolare della partecipazione sociale”.

Dunque, attesi gli elementi costitutivi della società in house, quest'ultima assurge a una mera articolazione interna della P.A.: una longa manus dei soggetti pubblici controllanti. Da ciò all'evidenza, “consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo essi preposti ad una struttura corrispondente ad un'articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio. (…) Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di vigilanza imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all'ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l'attribuzione alla Corte dei Conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità”.

La seconda deroga a cui si è fatto cenno è quella relativa alle società soggette a “regole legali sui generis” per le quali le Sezioni unite hanno ripetutamente affermato – nei casi RAI s.p.a., ENAV s.p.a., Expo Trieste, ANAS s.p.a. e, da ultimo, nel caso SCR Piemonte s.p.a. – che “l'insieme e l'intrinseca reciproca connessione delle (…) peculiarità legali (…)” che le contraddistinguono non possono essere assimilate a società azionarie di diritto privato, avendo “conservato connotati essenziali di un ente pubblico, a fronte dei quali risulta non decisiva l'adozione del modello organizzativo corrispondente a quello di una società azionaria per gli aspetti non altrimenti disciplinati in chiave pubblicistica” (in questi esatti termini Cass. Sez. un. 9 luglio 2014, n. 15594; in senso conforme Cass. Sez. un. 22 dicembre 2009, n. 27092; Cass. Sez. un. 3 marzo 2010, n. 5032; Cass. Sez. un. 5 dicembre 2016, n. 24737). Pertanto, è indubbio che i danni subiti dall'ente a causa della mala gestio dei suoi organi sociali rientrano nella giurisdizione della Corte dei Conti.

L'art. 12 del D.Lgs. n. 175/2016

Nel panorama giurisprudenziale di cui si è dato sinteticamente atto si inserisce la L. 7 agosto 2015, n. 124 (legge delega c.d. Madia) che nel procedere ad una “profonda riforma della pubblica amministrazione” invita il Governo ad adottare undecreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, al fine di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza. Tra i principi e criteri direttivi si segnala, per quanto qui interessa, all'art. 18 comma 1 lettera c) L. 124/2015, la necessità di provvedere alla “precisa definizione del regime delle responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti nonché dei dipendenti e degli organi di gestione e di controllo delle società partecipate”.

La delega relativa al regime giuridico di responsabilità degli organi di governance delle società pubbliche è stata attuata mediante l'art. 12 del D.Lgs. 19 giugno 2016, n. 175 (T.U. società a partecipazione pubblica) rubricato “responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate” – come risultante a seguito del parere del Consiglio di Stato reso il 16 marzo 2016 -prevede al primo comma due distinti piani di responsabilità per i membri degli organi di governance societaria, rispettivamente, per le società pubbliche non in house e per quelle in house.

Infatti, in via generale, nella prima parte del comma in analisi si prevede che “i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali”. Mentre, nella seconda parte del medesimo comma viene fatta “salva la giurisdizione della Corte dei Conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house”.

Il tenore letterale il primo comma dell'art. 12 conferma l'orientamento delle Sezioni unite consolidatosi dal 2009 che ha introdotto il principio della generale soggezione dei membri degli organi di amministrazione e controllo delle società pubbliche alle ordinarie azioni di responsabilità previste agli artt. 2393-2395 c.c. Il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, valorizzando la natura di ente privato della società ha, dunque, comportato un arretramento della disciplina pubblicistica dando prevalenza al regime civilistico di responsabilità.

Viene, altresì, recepita, nella versione definitiva dell'art. 12 T.U., la deroga prevista dalle Sezioni unite nel 2013 per le società in house, per le quali la natura sostanzialmente pubblica impone di qualificarle come“un modello di organizzazione meramente interno” da cui scaturisce un rapporto di “delegazione intraorganica” (Consiglio di Stato, Ad. Pl, 3 marzo 2008, n.1). Il T.U., infatti, in continuità con gli approdi più recenti della giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione, ha circoscritto l'area della giurisdizione contabile ai casi di responsabilità degli organi sociali per danni cagionati al patrimonio della società in house che integra un “patrimonio (separato ma pur sempre) riconducibile all'ente pubblico”.

A tal proposito, si segnala che nella prima versione dell'art. 12 predisposta dal Governo era assente il riferimento a queste peculiari società, di talchè si poneva il dubbio (risolto nel testo definitivo) circa la sussistenza “di un regime unitario” che comprendesse anche il fenomeno l'in house providing.

Il predetto duplice binario di responsabilità - sollecitato anche nel parere del Consiglio di Stato- è, altresì, coerente con il disposto dell'art. 2395 c.c. che nel disciplinare l'azione individuale del socio richiede l'incidenza diretta del pregiudizio sul patrimonio di quest'ultimo, e non come mero riflesso del danno sociale. In altre parole, l'art. 2395 c.c. riconosce al socio la legittimazione a proporre azione di risarcimento del danno nei confronti degli amministratori solo nel caso in cui esso dimostri che sia stato “direttamente” danneggiato da atti colposi o dolosi degli amministratori stessi.

L'opzione legislativa, infatti, oltre a essere conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità, è in linea – come precisato dalla Commissione speciale insediata presso il Consiglio di Stato – con “i principi generali in materia di responsabilità civile che escludono che il socio possa agire nei confronti degli amministratori per danni da esso subiti. E' stata, infatti, superata la concezione che costituiva la posizione del socio nei confronti della società «come un diritto di credito eventuale su una quota del patrimonio sociale e degli utili conseguiti». Si è definitivamente chiarito che con la nascita dell'ente sociale «questo non è immediatamente tenuto ad alcuna prestazione nei confronti dei soci, la quale possa fare assimilare la loro posizione giuridica nei suoi confronti a un diritto di credito», aggiungendosi che «i soci divengono immediatamente titolari di un insieme di facoltà e poteri, esercitabili all'interno della struttura societaria, strumentali al suo funzionamento e al perseguimento dello scopo sociale costituito dal conseguimento di utili e, in caso di scioglimento della società, della quota di liquidazione» (…). Il danno che i soci subiscono è dunque un danno riflesso e indiretto e, in quanto tale, non risarcibile. Soltanto nel caso in cui riescono a dimostrare la lesione diretta e immediata della loro sfera giuridica è astrattamente configurabile la responsabilità degli amministratori (…). E' bene aggiungere che queste conclusioni evitano, inoltre, non consentite duplicazioni di danni e di azioni di responsabilità proposte nei confronti del danneggiante dalla società per il pregiudizio al proprio patrimonio e dal socio per la perdita di valore della partecipazione (...)”. Partendo da detti presupposti il Consiglio di Stato invitava, dunque, il Governo ad “aggiungere prima della parola «subìto» l'espressione «direttamente»”, per evitare che potesse “sorgere il dubbio che sussista, invece, la giurisdizione della Corte dei Conti” anche nel caso di danno diretto al socio. L'esecutivo, tuttavia, ha ritenuto opportuno non recepire la predetta sollecitazione.

Ciò nonostante, dal tenore letterale dell'art. 12 T.U. si può agevolmente dedurre che resta al di fuori dalla giurisdizione della Corte dei Conti il danno “diretto” subito delle società partecipate, azionabile esclusivamente attraverso le azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. In via di estrema sintesi, in presenza di una società a partecipazione pubblica non in house, il procuratore contabile non può esercitare l'azione di responsabilità nei confronti dei membri degli organi di governance perché il pregiudizio “diretto” subito dalla società non rientra nell'alveo del “danno erariale subito dagli enti partecipanti”

È, inoltre, devoluta, a seguito delle sollecitazioni delle Commissioni parlamentari, “alla Corte dei Conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2”.In sostanza, la giurisdizione contabile, attesa la sua funzione di tutela del patrimonio pubblico, è circoscritta al valore della quota di partecipazione al capitale sociale dell'ente socio, poiché il danno erariale può perpetrarsi nei limiti della perdita di valore assunto dalla partecipazione. Il limite della quota, introdotto in extremis dall'esecutivo, ha destato notevoli perplessità tra i primi commentatori del T.U., poiché rende macchinoso il calcolo del pregiudizio complessivo che deve, poi, essere ridotto in percentuale rispetto alla quota detenuta dall'ente pubblico.

Questa integrazione ribadisce la dicotomia di fondo (di cui si è dato atto) tra danno arrecato “direttamente” alla società sottoposto alla disciplina civilistica e alla giurisdizione del giudice ordinario e il regime del danno erariale devoluto al giudice contabile.

La nozione di danno erariale viene positivizzata al comma secondo dell'art. 12 T.U. qualificandolo come il pregiudizio “patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell'esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione”.

La definizione di danno erariale riprende quella già emersa nella giurisprudenza delle Sezioni unite, le quali, a più riprese, hanno precisato che è prospettabile l'azione del procuratore contabile nei confronti del “rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio ed abbia per ciò pregiudicato il valore della partecipazione” (in questi esatti termini Cass., Sez. un., 15 gennaio 2010, n. 159; in senso conforme Cass., Sez. un., 15 gennaio 25 novembre 2013, n. 26283).

In conclusione

Alla luce della sintetica analisi dell'art. 12 T.U. sulle società partecipate, è evidente che quest'ultimo traspone in un testo legislativo gli approdi della consolidata giurisprudenza volta ad assoggettare gli esponenti aziendali alle ordinarie azioni di responsabilità previste dal diritto societario.

Come acutamente osservato dalla Corte dei Conti nell'audizione sullo schema di decreto legislativo in materia di società pubbliche “la collocazione sistematica delle società a partecipazione pubblica nell'alveo della disciplina privatistica, chiara sin dalla redazione del codice civile e via via ribadita dalla legislazione successiva (…) ”è ribadita dall'art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 175/2016, il quale dispone che, in assenza di precise deroghe contenute nel T.U., si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme ordinarie contenute nel codice civile ovvero nelle leggi speciali.

Lo spostamento del baricentro della responsabilità verso il diritto civile si inserisce, inoltre, nel solco scavato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea (CGUE sentenza 6 dicembre 2007 nelle cause riunite C-463/04 e sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07), la quale ha affermato il c.d. principio di neutralità delle forme giuridiche, sancito all'art. 345 TFUE, in virtù del quale “i trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri” rendendo ininfluente la proprietà pubblica o privata del capitale sociale.

Sempre in ossequio alla giurisprudenza delle Sezioni unite si prevede una deroga all'applicazione della disciplina del Codice civile per le società in house. Tuttavia, rispetto alla già richiamata sentenza delle Sezioni unite del 2013, il T.U. sembrerebbe avere un ambito di applicazione soggettiva più ampio. Si pensi, alla possibile presenza di capitali privati ammessa dall'art. 16 T.U. ovvero alla più ampia nozione di controllo analogo che supera quella, avallata dalla Cassazione, sostanzialmente “gerarchica”.

Alcune perplessità permangono, invece, con riferimento alle società a statuto speciale (non in house) che il T.U. “dimentica” di prendere in considerazione. Alla luce dell'orientamento giurisprudenziale consolidatori prima del 2016, però, sembra che si possa ritenere sussistente una ulteriore deroga, rispetto al fenomeno dell'in house, circa l'applicabilità delle norme societarie ordinarie, poiché anche in questo caso siamo in presenza di realtà riconducibili, nonostante la veste societaria, nell'alveo degli enti pubblici.

Nonostante la permanenza di alcuni profili critici nel testo dell'art. 12 del T.U., lo stesso è rimasto indenne dalla “correzione” apportata dal D.Lgs. 16 giugno 2017, n. 100 (c.d. decreto correttivo) pur essendo stata considerata - dalla Commissione speciale insediata presso il Consiglio di Stato nel parere dell'8 marzo 2017 reso sul correttivo-“una di quelle che hanno suscitato, sinora il più ampio dibattito dottrinario, in relazione ai dubbi interpretativi che ne emergono”.

L'esecutivo, infatti, pur avendo l'opportunità di incidere sulla disposizione relativa alla responsabilità degli organi di governance delle società pubbliche ha deciso non intervenire lasciando insoluti i nodi problematici dell'art. 12 T.U. Viene, dunque, nuovamente affidato alla giurisprudenza il compito di chiarire i contorni del regime di responsabilità degli organi di governance societaria.

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