Impugnabilità del lodo per errori di diritto: le possibili ripercussioni della “riscritta” disciplina transitoria
31 Gennaio 2018
Massima
In forza della disposizione transitoria di cui all'art. 27 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, l'art. 829, comma 3, c.p.c., disciplinante l'impugnazione del lodo per errori di diritto attinenti al merito della controversia, come riformulato dall'art. 24 del citato decreto, si applica nei giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella, ancorché fondati su convenzioni arbitrali antecedenti. La legge cui lo stesso comma 3 rinvia, per stabilire se sia ammessa l'impugnazione per errores in iudicando, è però quella (diversa dal art. 829, comma 3, c.p.c.) vigente al momento della stipulazione della convenzione d'arbitrato. Ne consegue che, nel caso di arbitrato azionato dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina ma in forza di convenzione anteriore ad essa, nel silenzio delle parti, è applicabile l'art. 829, comma 2, c.p.c. antecedente alla sua riformulazione, che ammetteva l'impugnazione dei lodi, per gli indicati motivi di diritto, nel silenzio delle parti e salvo che le stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile. Il caso
Con domanda notificata il 28 marzo 2006 e per la risoluzione di un contratto d'appalto, una società promuove giudizio arbitrale (rituale, secondo diritto, “libero” e non “amministrato”) in forza di una convenzione d'arbitrato, stipulata il 21 luglio 2003, silente circa la volontà delle parti di prevedere l'impugnabilità del lodo per errores in iudicando. La domanda è accolta con lodo impugnato anche per errori di diritto afferenti al merito della controversia ed avverso la relativa sentenza della Corte d'appello è proposto ricorso per cassazione. Con esso si sindaca, anche la violazione dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nella formulazione successiva alla novella dell'arbitrato, attuata con d.lgs. n. 40/2006, trattandosi di giudizio arbitrale azionato successivamente alla sua entrata in vigore, ancorché in forza di una convenzione antecedente ad essa. La questione
Trattasi, in particolare, della questione relativa all'applicabilità dell'art. 829, comma 3, c.p.c., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 40/2006, ai procedimenti arbitrali promossi successivamente all'entrata in vigore della novella (2 marzo 2006) ma fondanti su convenzione arbitrale anteriore a tale data. Ciò rileva in quanto l'attuale formulazione della norma, differentemente dalla previgente, ammette l'impugnazione del lodo, per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, solo se espressamente disposta dalle parti o dalla legge. Per converso, antecedentemente, valeva la regola, stabilita dall'art. 829, comma 2, c.p.c., dell'ammissibilità dell'impugnazione del lodo, per violazione di norme di diritto, a condizione che le parti non avessero autorizzato gli arbitri a pronunciare secondo equità e non avessero dichiarato il lodo non impugnabile. Le soluzioni giuridiche
In ordine alla questione in esame, nel corso del 2015 era sorto un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità risolto dalle sentenze gemelle Cass. civ. Sez. Un., n. 9284/2016, e Cass. civ., Sez. Un., n. 9285/2016, del cui principio di diritto, massimato nei termini di cui innanzi, fa pedissequa applicazione la sentenza oggetto di attuale commento. Nel caso di arbitrato da clausola compromissoria statutaria (cd. arbitrato societario), chiarito da Cass. civ. n. 9285/2016, la legge cui rinvia l'art. 829, comma 3, c.p.c. è l'art. 36 del d.lgs. n. 5/2003, il quale espressamente ammette l'impugnazione dei lodi, per gli indicati motivi di diritto, quando gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari. Osservazioni
Come innanzi evidenziato, la sentenza in commento fa esplicita applicazione del principio sancito dalle citate Sezioni Unite, nulla aggiungendo in termini di motivazione e, quindi, sostanzialmente, mutuandone le relative possibili critiche, se non necessariamente in merito alla soluzione data, perlomeno con riferimento all'iter logico-giuridico seguito, pur dovendosi apprezzare, nella specie, il rispetto del principio dello stare decisis, trattandosi di interpretazione di norme aventi anche valenza processuale e coinvolgenti disciplina transitoria (per una lettura critica del percorso motivazionale seguito dalla Sezioni Unite si veda, F. Antezza). La sentenza in commento è però investita anche della questione inerente l'applicabilità dell'orientamento di cui innanzi con riferimento ad altra norma, l'art. 820 c.p.c., anch'esso modificato con d.lgs. n. 40/2006 e ricadente sotto l'ambito applicativo della medesima disposizione transitoria innanzi citata (l'art. 27 del detto decreto). La Suprema Corte, nella specie, non ha preso posizione in merito, ritenendo che, comunque, pur volendo ritenere applicabile il previgente art. 820 c.p.c. (come prospettato dal ricorrente) le proroghe del termine per il deposito del lodo fossero legittime, con conseguente non nullità dello stesso. La risoluzione dell'ulteriore quesito di cui innanzi appare però rilevante e potrebbe risentire del ragionamento seguito dal Giudice delle leggi in merito all'ambito di applicabilità del nuovo art. 829, comma 3, c.p.c., salvo poi verificare se le dette ripercussioni siano tali da investire l'intero art. 820 c.p.c. ovvero solo i primi due commi, ove si dispone che, salvo il caso in cui le parti non abbiano stabilito un diverso termine, il lodo deve essere pronunciato nel termine di duecentoquaranta giorni dall'accettazione della nomina degli arbitri. Come già si è avuto modo di rilevare, difatti, il percorso motivazionale seguito dalle Sezioni Unite nell'interpretazione del combinato disposto degli artt. 27 del d.lgs. n. 40/2006 e dell'attuale art. 829, comma 3, c.p.c., potrebbe essere mutuato con riferimento ad altre norme introdotte o modificate con la riforma del 2006 che, al pari di quella di cui al riformato art. 829, comma 3, c.p.c., pur se procedimentali hanno quale necessario presupposto la volontà espressa delle parti nella convenzione di arbitrato (sul punto si vedano: F. Antezza e, antecedentemente all'intervento delle Sezioni Unite, C. Petrillo, 1088 e ss. ed in particolare 1090 e ss.). Trattasi, in particolare, perlomeno, dell'art. 816-quater c.p.c., in materia di arbitrato con pluralità di parti, e dell'art. 820 c.p.c., in merito al termine per la pronuncia del lodo, per le quali opera la medesima disposizione transitoria di cui all'art. 27, comma 4, del d.lgs. n. 40/2006 (di riforma dell'arbitrato). Il detto articolo, difatti, distingue le norme introdotte dall'art. 20 del medesimo decreto, relative alla convenzione di arbitrato, da quelle di cui agli artt. 21, 22, 23, 24 e 25, inerenti il giudizio arbitrale ed in particolare anche i novellati artt. 829, 820 e 816-quater c.p.c.. Le norme appartenenti al primo gruppo, ai sensi del detto art. 27, comma 3, in particolare, si applicano alle convenzioni di arbitrato stipulate dopo l'entrata in vigore della riforma della disciplina dell'arbitrato del 2006, mente le norme appartenenti al secondo gruppo si applicano, come recita al quarto comma il medesimo articolo, «ai procedimenti arbitrali nei quali la domanda di arbitrato è stata promossa successivamente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 40/2006».
L'art. 816-quater c.p.c., novità della riforma del 2006, introduce l'arbitrato con pluralità di parti, in precedenza previsto solo per il cd. arbitrato societario dall'art. 34 d.lgs. n. 5/2003. La detta norma prevede che si possa dar luogo ad un arbitrato multiparti solo ove la convenzione arbitrale devolva ad un terzo la nomina degli arbitri, ovvero se gli arbitri siano nominati con l'accordo di tutte le parti o se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l'arbitro o gli arbitri, nominino d'accordo un ugual numero di arbitri o ne affidino ad un terzo la nomina. La detta disposizione prevede, per il caso in cui non ricorra taluna delle dette ipotesi, la scissione dell'unico procedimento in più procedimenti bilaterali e, nel caso di litisconsorzio necessario, l'improcedibilità dell'arbitrato. Sicché, potrebbe porsi il problema dell'individuazione delle conseguenze di una convenzione arbitrale stipulata antecedentemente alla riforma, quindi soggetta al regime previgente ex art. 27, comma 3, d.lgs. n. 40/2006, che non preveda modalità di nomina conformi a quelle specificatamente indicate dall'introdotto art. 816-quater c.p.c.. Con particolare riferimento al termine per la decisione degli arbitri, il riformato art. 820 c.p.c. prevede, salva diversa disposizione delle parti, che gli arbitri debbano pronunciare il lodo entro il termine di duecentoquaranta giorni dall'accettazione della nomina, in luogo dei centottanta giorni invece contemplati dal previgente art. 820 c.p.c., salva diversa previsione nella convenzione d'arbitrato. Nel caso in esame, quindi, applicare la detta norma a procedimenti arbitrali instaurati successivamente all'entrata in vigore della riforma del 2006 ma fondati su convenzioni arbitrali anteriori a tale data implicherebbe, perlomeno secondo la tesi del “vecchio regime” (fatta propria, per gli errores in iudicando, dalle Sezioni Unite oltre che dalla sentenza in commento), incidere retroattivamente sull'autonomia privata delle parti che, non convenendo un diverso termine di pronuncia del lodo rispetto a quello normativamente previsto, avevano inteso riferirsi proprio al termine di centottanta giorni di cui al previgente art. 820 c.p.c.. Tale ultima questione rileva anche in ragione della circostanza per la quale il mancato rispetto del detto termine è causa di impugnazione del lodo per error in procedendo, ex art. 829, comma 1, n. 6, c.p.c., salvo che ricorrano le condizioni di cui all'art. 821 c.p.c..
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