Verso un diritto del lavoro della crisi d’impresa sempre più comunitario

Alessandro Corrado
02 Febbraio 2018

Fin dai lavori preparatori della Legge delega, le indicazioni fornite a chi dovrà attuare i principi generali della riforma fallimentare appaiono molto chiare: le nuove norme riguardanti le procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza del datore di lavoro non potranno prescindere dal quadro legislativo e giurisprudenziale comunitario a tutela dei crediti retributivi (Carta sociale europea di Strasburgo e Direttiva 2008/94/CE) e del mantenimento dei diritti in caso di trasferimento d'azienda (Direttiva 2001/23/CE).
Premessa

Tra i principi generali ai quali dovrà ispirarsi la riforma delle norme fallimentari, la Legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 ha riservato una particolare attenzione alla disciplina concernente la tutela dei crediti retributivi in caso di insolvenza del datore di lavoro, nonché il mantenimento dei diritti nelle operazioni di trasferimento d'azienda o di suoi rami.

Indipendentemente dall'esito dell'attuazione, che pare per ora tramontata, lo scopo, dichiarato esplicitamente, è l'armonizzazione delle procedure concorsuali (che emergeranno dai decreti delegati) con i relativi provvedimenti legislativi comunitari. A tal fine, se con riguardo al primo aspetto sarà necessario conoscere i contenuti della Carta sociale europea di Strasburgo del 3 maggio 1996 (ratificata con legge del 9 febbraio 1997, n. 30) e della direttiva 2008/94/CE dedicata proprio alla “tutela dei lavoratori subordinati in caso d'insolvenza del datore di lavoro”, il secondo profilo imporrà di prendere in esame la direttiva 2001/23/CE.

Relativamente a tale aspetto, la legge delega si premura inoltre di specificare la necessità di tenere nella debita considerazione i principi interpretativi formulati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, dimostrandosi così consapevole di tutte le traversie affrontate dalla relativa legislazione italiana in materia, culminate nella sentenza di condanna 11 giugno 2009, C-561/07 che ha giudicato l'art. 47, Legge n. 428/90 non conforme alla direttiva 2001/23/CE.

Le norme italiane a tutela dei crediti retributivi e quelle che tutelano il mantenimento dei diritti nei trasferimenti d'azienda

Per certi versi appare singolare aver previsto che la legge fallimentare che verrà debba regolamentare situazioni che trovano tutela in provvedimenti normativi oggi estranei al Regio Decreto n. 267/1942.

La protezione dei crediti retributivi in caso di insolvenza del datore di lavoro trova infatti la propria disciplina nella Legge 29 maggio 1982, n. 297 (istitutiva del Fondo di garanzia per il pagamento del TFR), nonché nel decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80, entrambi attuativi della direttiva 80/987/CEE, sostituita poi dalla 2008/94/CE per esigenze di “razionalità e chiarezza” (cfr. considerando n. 1). La logica imporrebbe forse il contrario, ovvero che fossero le norme della legge n. 297/1982 e del d.lgs. n. 80/1992 ad essere coordinate con l'apparato che scaturirà dall'esercizio della delega, a partire dalle questioni meramente nominalistiche (e quindi in primis “liquidazione giudiziale” o “insolvenza”, anziché “fallimento”), per arrivare a quelle di sostanza.

In ogni caso, il sistema protettivo, che garantisce la copertura dei crediti relativi a trattamento di fine rapporto ed ultime tre mensilità, sembra funzionare in modo efficiente, come dimostrano alcune pronunce intervenute proprio a tutela dei crediti vantati dai lavoratori in tali situazioni.

Esemplificativa sul punto è, ad esempio, la pronuncia con cui la Cassazione (26/05/2015, n. 10824) ha condannato l'Inps a riconoscere le prestazioni garantite dall'apposito Fondo di garanzia per la corresponsione del trattamento di fine rapporto ad un lavoratore che, seppure rimasto inerte a seguito del fallimento della propria datrice di lavoro, aveva poi agito verso la società tornata in bonis ottenendo un titolo che aveva tentato di eseguire, senza alcun esito. Preteso il pagamento da parte del Fondo di garanzia ed ottenuto un riscontro negativo da parte dell'Istituto, aveva agito in giudizio contro quest'ultimo. Nell'accogliere le pretese del lavoratore, la Suprema Corte ha affermato che “il diritto del lavoratore di ottenere dall'INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del trattamento di fine rapporto ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale, ed è perciò distinto ed autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro e, pertanto, la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia è quella ordinaria, ovvero decennale”.

Allo stesso modo, le norme sul mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle operazioni di trasferimento d'azienda in crisi e/o insolventi sono contenute nell'art. 47, comma 4 bis (inserito dall'articolo 19-quater, comma 1, lettera a), d.l. 25 settembre 2009, n. 135 proprio per conformare il diritto italiano a quello comunitario dopo la citata sentenza di condanna della Corte di giustizia) e comma 5, legge 428/90.

È tuttavia vero che l'attuale legge fallimentare prevede, seppure in modo disorganico, previsioni normative che regolamentano proprio alcuni aspetti riguardanti la cessione dei complessi aziendali in ambito fallimentare. L'art. 105, comma 3, l.fall. richiama ad esempio – seppure senza il medesimo dettaglio – la procedura che dev'essere attivata (“nell'ambito delle consultazioni sindacali relative al trasferimento d'azienda …”) al fine di attivare la deroga all'art. 2112 c.c. tipica dell'art. 47 (“… il curatore, l'acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell'acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti”).

L'armonizzazione delle procedure di gestione della crisi e dell'insolvenza con i principi della Direttiva 2001/23/CE come interpretata dalla Corte di giustizia

Il riferimento agli orientamenti giurisprudenziali della Corte lussemburghesi costituisce un chiaro indice circa la consapevolezza delle vicende che nel 2009 hanno riguardato il quinto comma dell'art. 47, Legge n. 428/90 in tema di trasferimento d'azienda, quando (con sentenza 11 giugno 2009, C-561/07, in Riv. it. dir. lav., 2010, 1, con nota di CESTER, Due recenti pronunzie della Corte di giustizia europea in tema di trasferimento d'azienda. Sulla nozione di ramo d'azienda ai fini dell'applicazione della direttiva e sull'inadempimento della stessa da parte dello Stato italiano nelle ipotesi di deroga per crisi aziendale) la Corte di giustizia dell'Unione Europea ha condannato lo stato italiano: in estrema sintesi, il giudizio negativo ha riguardato la non conformità del diritto interno per via della possibilità di derogare alla Direttiva 2001/23/CE in modo incisivo (soprattutto per quanto riguarda la possibilità di trasferire al cessionario solo parzialmente i rapporti di lavoro in capo al cedente) ed in egual modo sia nel caso di insolvenza liquidatoria (ipotesi consentita), sia nel caso di crisi aziendale (che consentirebbe unicamente “modifiche delle condizioni di lavoro”).

Alla condanna è seguito il fulmineo “spacchettamento” dell'art. 47, Legge n. 428/90 che, stando ad autorevole dottrina, non consente purtroppo di fugare completamente i dubbi di non conformità, per via del fatto che il “mantenimento anche parziale dell'occupazione” è un'opzione ancora possibile nei casi di crisi aziendale nonché nei casi di procedure concorsuali con finalità di risanamento (cfr. comma 4 bis).

In tale contesto, chi meglio sembra aver recepito il diktat della Corte di Giustizia è la nostra giurisprudenza di merito, la quale si è pronunciata statuendo che “la “ deroga” all'art. 2112 c.c. consentita dall'art. 47, comma 4-bis, lett. b-bis), L. 428/1990 (secondo cui “l'art. 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende:… per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo”) può riguardare ed incidere esclusivamente sulle modalità del rapporto di lavoro (come ad esempio mansioni, qualifica, orario lavoro), risultando invece necessario l'accordo stipulato con il singolo lavoratore interessato per incidere sui diritti allo stesso assicurati dai commi 1 e 2 dell'art. 2112 c.c. (Trib. Padova 27 marzo 2014, in Dir. fall. 2015, nn. 3 e 4; cfr. inoltre Trib. Milano, 25 luglio 2017, est. Mariani, inedita).

Diritto del lavoro e della crisi d'impresa: l'armonizzazione è possibile?

Più che l'armonizzazione del diritto del lavoro della crisi d'impresa interno con quello comunitario, necessario, se non indispensabile (come dimostra la vicenda dell'art. 47, legge n. 428/1990), la vera sfida appare quella di trovare il giusto equilibrio nel permanente conflitto tra tutela dei diritti dei lavoratori ed interessi dei creditori, motivato principalmente dal fatto che per i secondi è prioritario mantenere per quanto possibile inalterata l'integrità del patrimonio del debitore sul quale dovranno soddisfarsi, minacciato invece dall'obiettivo dei primi che mira in modo preminente alla prosecuzione del rapporto ed al pagamento delle relative retribuzioni.

Tale situazione è ben rappresentata sul piano normativo dall'art. 104 bis, ult. comma, l.fall. dedicato alla retrocessione dell'azienda al fallimento, in merito al quale l'attuale l'interpretazione della giurisprudenza di merito (Trib. Monza 19 novembre 2013 e Trib. Milano, 05 maggio 2015), seppure con soluzioni diverse, impone in ogni caso un sacrificio ai diritti dei lavoratori c.d. retrocessi finalizzato al mantenimento dei valori attivi a favore dei creditori. C'è da chiedersi se tale innovativo approdo avrà ancora una sua validità, soprattutto dopo che la Cassazione, con la sentenza 9 ottobre 2017, n. 23581 ha stabilito che “in mancanza della deroga contenuta nell'art. 104-bis l.fall. per l'ipotesi di affitto di azienda stipulato dal curatore, la retrocessione al fallimento di aziende o rami di aziende comporta la responsabilità della procedura per i debiti maturati sino alla retrocessione”.

Sul piano processuale, spiccano pronunce quale la recente Cassazione a Sezioni Unite (5 maggio 2017, n. 10944), che – contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di merito e da una parte stessa del Supremo Collegio – non ravvisa disparità di trattamento nell'inapplicabilità della sospensione feriale dei termini alle controversie riguardanti l'ammissione allo stato passivo del fallimento di crediti nascenti dal rapporto di lavoro.

In conclusione

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nel 2001, la Suprema Corte (con la sentenza 21 marzo 2001, n. 4073) aveva affermato che la contrarietà alla disciplina comunitaria del quinto comma dell'art. 47 (…) non ne impedisce l'applicazione, in considerazione dell'inefficacia diretta della disposizione comunitaria nell'ordinamento nazionale per quanto riguarda i rapporti tra privati. Probabilmente, all'epoca, e in assenza di una sentenza di condanna diretta della Corte di Giustizia, tale affermazione aveva poche ragioni per essere smentita. Oggi tuttavia, alla luce della pronuncia con cui i Giudici lussemburghesi nel 2009 hanno dichiarato non conforme il comma 5 dell'art. 47, legge 428/90, delle citate sentenze di merito e soprattutto di un legislatore della crisi d'impresa sempre più orientato in senso comunitario, le parole della Cassazione appaiono preistoria.

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