Ambito applicativo del rito sommario di cognizione monocratico

02 Febbraio 2018

La novità probabilmente più rilevante introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009, è rappresentata dal procedimento sommario di cognizione, inserito dopo il capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile e composto dagli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater. A distanza di poco meno di un decennio dall'introduzione di tale nuovo rito è ancora in parte controversa in giurisprudenza l'individuazione dell'ambito applicativo dello stesso, in particolare in relazione alla compatibilità con le controversie assoggettate al rito del lavoro o locatizio e con i giudizi di natura oppositoria (opposizione a decreto ingiuntivo, opposizioni esecutive).
Il quadro normativo

Il procedimento in esame si addice ad ogni tipo di domanda, di accertamento, costitutiva e di condanna, atteso che l'art. 702-terc.p.c. non contiene alcuna limitazione circa la tipologia di azione esperibile. In tal senso anche la giurisprudenza di merito (Trib. Piacenza, 22 novembre 2010, in Guida dir., 2011, 3, 46), che ha ritenuto estremamente flessibile il procedimento in esame, ammettendolo per far valere azioni revocatorie (Trib. Mondovì, 10 novembre 2009, in Guida dir., 2009, 50, 50; Trib. Prato 10 novembre 2009 in Foro it., I, 2009, 3505), di risoluzione di un contratto per inadempimento (Trib. Nola, 16 maggio 2011; Trib. Varese, 18 dicembre 2009; Trib. Cagliari, 6 novembre 2009), di nullità di un ordine di investimento (Trib. Ferrara, 28 gennaio 2010; Trib. Ancona, 9 aprile 2010), di risarcimento del danno conseguente alla illegittima segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d'Italia (Trib. Bari, 19 maggio 2011), di condanna al pagamento di spettanze professionali (Trib. Tivoli, 12 luglio 2010), di rilascio di un immobile occupato sine titulo (Trib. Taranto, 2 marzo 2010), di accertamento dell'intervenuto acquisto per usucapione di un immobile (Trib. Ascoli Piceno, 14 dicembre 2011), di accertamento dell'avvenuto recesso di un socio dalla società (Trib. Torino, 11 febbraio 2010).

Non può, in proposito, condividersi la tesi contraria esposta, sia pure in un obiter dictum, da una (per il momento) isolata pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., 11 novembre 2011, n. 23691), secondo cui «tenuto conto che l'art. 702-ter c.p.c. parla di ordinanza (conclusiva del giudizio) suscettibile di costituire titolo esecutivo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione, appare ragionevole ritenere che il procedimento, di cui si dice, possa essere utilizzato per qualsiasi tipo di diritto ma rispetto alla domanda per ottenere una condanna».

In realtà, come sostenuto anche da autorevole dottrina (Balena, La nuova pretesa riforma della giustizia civile, § 23, in Il giusto processo civile, 2009), tenuto conto anche dell'opposta e più pregnante indicazione che può trarsi dall'esame dei lavori parlamentari, non sembra che la formulazione dell'art. 702-terc.p.c.offra un argomento risolutivo in tal senso, esattamente come l'art. 282 c.p.c., secondo cui «la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva», non potrebbe essere certamente invocato per escludere l'ammissibilità di domande che non siano di condanna. Appare, invece, evidente che il richiamo alla provvisoria esecutività dell'ordinanza conclusiva del giudizio ed alla idoneità della stessa a costituire titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale debba essere inteso nel senso che tali peculiarità siano sussistenti solo qualora si tratti di ordinanza di condanna. Si consideri, inoltre, che il riferimento allatrascrizione ha senso, prevalentemente, proprio rispetto alle sentenze di mero accertamento o costitutive.

Composizione organo giudicante

Per quanto attiene alla composizione dell'organo giudicante, l'ambito di applicazione del nuovo procedimento sommario risulta definito, in larghissima parte, dall'incipit dell'art. 702-bis c.p.c., a tenore del quale tale modello processuale può essere adottato, sostanzialmente in via alternativa con il procedimento ordinario, «nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica», mentre il comma 2 dell'art. 702-ter c.p.c. sanziona con l'inammissibilità la domanda che sia estranea a questo ambito. Restano salvi, tuttavia, i procedimenti speciali che il d.lgs. n. 150/11 ha assoggettato al rito sommario di cognizione, mantenendo la composizione collegiale dell'organo giudicante (ad es., procedimento per la liquidazione degli onorari di avvocato).

L'espressa statuizione normativa induce, così, ad escluderne l'applicazione per tutte le controversie da trattarsi innanzi al giudice di pace (Cass. civ., 11 novembre 2011, n. 23691, secondo cui l'art. 702-bis c.p.c. non crea deroghe al sistema normativo della competenza, ma inserisce il procedimento sommario all'interno del sistema della competenza, subordinandolo all'accertamento preliminare della competenza del tribunale, nel singolo caso concreto) e per quelle collegiali contenute nell'elenco di cui all'art. 50-bis c.p.c., sicchè anche alle controversie societarie ivi descritte nel n. 5 (impugnazione di delibere sociali e responsabilità degli organi societari) sarà preclusa l'applicazione del procedimento ex art. 702-ter c.p.c., nonostante la contestuale avvenuta abrogazione del rito introdotto dal d.lgs. n. 5/2003. Vanno poi incluse, tra le controversie collegiali, anche quelle inerenti alle materie rientranti nella competenza delle sezioni specializzate: tali materie, ampliate in virtù del d.lgs. n. 168/2003, del d.lgs. n. 30/2005 e del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv. in l. 24 marzo 2012, n. 27 ed istitutivo del tribunale delle imprese, sono quelle di diritto industriale (marchi, brevetti, modelli, concorrenza sleale interferente), di diritto d'autore, in materia di antitrust, di società capitali, di cooperative, di contratti pubblici di appalto di lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria dei quali sia parte una società dei tipi suddetti.

Per quanto riguarda, poi, le azioni collettive, è opportuno evidenziare che si tratta di azioni regolate, quanto al rito, da una legge speciale (cfr. artt. 139 e 140 d.lgs. n. 206/2005) che configura un procedimento a cognizione piena con eventuale incidente cautelare endoprocessuale e che, per tali caratteristiche, esse non sembrano prima facie compatibili con l'adozione del rito sommario, nonostante l'esclusione della riserva di collegialità.

L'inammissibilità del rito sommario per devoluzione a giudice collegiale può essere rilevata d'ufficio lungo tutto il corso del procedimento. Se è stato disposto il mutamento del rito da sommario in ordinario, l'erronea scelta è sanata, ferma la necessità della composizione collegiale dell'organo deliberante ex art. 281-octies c.p.c.. Altrimenti la sentenza è nulla e la nullità va fatta valere come motivo d'impugnazione, secondo la regola generale della conversione delle nullità in motivi di gravame; in tal caso, non potrà comunque esserci rimessione al primo giudice, considerata la tassatività delle ipotesi previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., ma il giudice del gravame dovrà emettere una pronuncia sostitutiva nel merito.

Compatibilità col rito del lavoro

Per quanto riguarda la compatibilità con le controversie assoggettate al rito del lavoro, è maggioritaria, allo stato, la soluzione negativa (Balena, op. cit.; Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it; Arieta, Il rito “semplificato” di cognizione in www.judicium.it p. 3, 4; Menchini, L'ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione. Favorevoli all'estensione dell'applicabilità del procedimento sommario, Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione in www.judicium.it,e Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009 n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corr. Giur., 2009).

L'esclusione si fonda, in primo luogo, sulla lettera dell'art. 702-ter, comma 3, c.p.c., nella parte in cui si afferma che il giudice, una volta verificata la complessità della causa e l'inapplicabilità del procedimento sommario, «fissa l'udienza ex art. 183. In tal caso si applicano le disposizioni del libro II»: questo duplice indice normativo relativo al procedimento ordinario ha indotto a ritenere esclusa la compatibilità del procedimento sommario con ogni procedimento a cognizione piena non regolato dal libro II, ovvero non assoggettabile al rito cd. ordinario (Trib. Modena, 18 gennaio 2010; Trib. Catanzaro, 16 novembre 2009, in Giur. merito, 2010, p. 2455).

Autorevole dottrina (Arieta, op. cit.), peraltro, ha individuato nell'art. 54 della l. n. 69/2009 - che ha delegato il Governo ad adottare, entro ventiquattro mesi, uno o più decreti legislativi «in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nella giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla legge speciale» (delega attuata con il già citato d.lgs. n. 150/11) - una ragione ulteriore, e di carattere sistematico, a sostegno dell'inapplicabilità del procedimento sommario alle controversie assoggettabili al rito del lavoro: in buona sostanza, muovendosi dall'assunto che l'esigenza legislativa di porre fine alla proliferazione di riti si realizza tipizzando esclusivamente i tre modelli processuali ivi descritti, all'interno dei quali far confluire i diversi procedimenti di cui sono costellate le leggi speciali, si sostiene che tali modelli non ammettano reciproche interferenze, nel senso che le controversie riconducibili ad un certo modello (come quello laburistico) non possono essere assoggettate ad altri riti (per quel che qui interessa, al procedimento sommario).

La conclusione non appare del tutto convincente secondo altri commentatori, almeno per due motivi: a) non v'è ragione per assimilare i procedimenti assoggettati al procedimento sommario secondo i criteri della delega contenuta nell'art. 54, l. n. 69/09, e quello oggi previsto dal codice (artt. 702-bis - 702-quater c.p.c.), caratterizzato, contrariamente ai primi, proprio dalla possibilità di cambiare il rito secondo la scelta del giudice (Acierno); b) il richiamo all'art. 183 c.p.c. ed al libro secondo non ha un significato selettivo dell'utilizzabilità del rito sommario, ma indica solo un modello di prosecuzione del giudizio del tutto compatibile con il rito del lavoro, attese le forti analogie contenutistiche rinvenibili dal modello dell'atto introduttivo (ricorso) dei due giudizi e la non disagevole adattabilità del diverso regime delle decadenze istruttorie (Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione, in Guida dir., 2009, 28, 37 e ss.). Ciò non senza considerare che alcune tipologie di controversie lavoristiche (o previdenziali) e locatizie (occupazioni divenute senza titolo, risoluzioni di contratti di comodato) presenterebbero proprio quei caratteri di semplificazione dell'istruzione, della trattazione e della decisione caratteristici del procedimento sommario, mentre non sempre sarebbe possibile, per queste specifiche tipologie di controversie, l'accesso alla tutela d'urgenza, potendo mancare il periculum in mora.

In giurisprudenza, tra le pronunce favorevoli all'interpretazione estensiva, si segnala Trib. Napoli 25 maggio 2010, secondo cui il procedimento sommario di cognizione è applicabile anche alle controversie in materia di locazione di cui all'art. 447-bis c.p.c., specie nell'ipotesi in cui queste siano connesse ad altre non soggette al rito locatizio, atteso che in tale ultima ipotesi, ai sensi dell'art. 40, comma 3, c.p.c., dovrebbe applicarsi per tutte il rito ordinario, il quale può essere sostituito dal procedimento ex art. 702-bis c.p.c.. Nella medesima pronuncia si ritiene, inoltre, che non sia vincolante il richiamo al dato letterale del rinvio all'udienza ex art. 183 c.p.c., dovendo lo stesso essere interpretato come rinvio a qualsiasi udienza che apre al procedimento ordinario, e quindi anche all'udienza di discussione ex art. 420 c.p.c.. Favorevoli all'ammissibilità del rito sommario anche Trib. Lamezia Terme, ord., 12 marzo 2010 e Trib. Latina 3 marzo 2011 (in Giust. civ., 2011, 2721), quest'ultimo in relazione ad una controversia avente ad oggetto un contratto di affitto di azienda; nonché Trib. Sulmona 6 ottobre 2010 (in Giur. merito, 2011, 5, 1246).

Si ritiene, tuttavia, preferibile la tesi, fino ad oggi prevalente, che esclude la compatibilità tra rito del lavoro e procedimento sommario di cognizione, e ciò non solo alla luce dei riferimenti normativi già valorizzati dai sostenitori di tale opinione, ma essenzialmente in ragione del fatto che la sostanziale sovrapposizione di disciplina processuale tra i due procedimenti, richiamata dai fautori della tesi opposta, rende inutile il ricorso al rito sommario in esame: la specialità del rito del lavoro è già di per sé idonea a garantire quelle esigenze di semplificazione ed accelerazione delle controversie, sottese alla ratio della riforma introdotta dalla l. n. 69/09.

Com'è noto, il rito del lavoro è caratterizzato dalla concentrazione delle udienze, tutte di discussione ex art. 420 c.p.c., e dall'anticipazione dei termini decadenziali per l'indicazione dei mezzi istruttori, questi ultimi da articolare già negli atti introduttivi: in altri termini, il potere del giudice di procedere fin dalla prima udienza non solo all'ammissione dei mezzi di prova, ma anche all'espletamento degli stessi, consente di raggiungere ugualmente quegli obiettivi di semplificazione che caratterizzano il rito sommario. In particolare, la previsione dell'ultimo comma dell'art. 420, secondo cui «le udienze di mero rinvio sono vietate», imporrebbe al giudice di concludere il giudizio in un'unica udienza. É pur vero che nella prassi giudiziaria, per l'elevato numero di cause fissate per ciascuna udienza, assai difficilmente si riesce a concludere in tempi così brevi la controversia assoggettata al rito del lavoro, ma è altresì vero che, sempre a causa del notevole carico di ruolo gravante su ciascun magistrato in molti uffici giudiziari, anche il procedimento sommario, che non è fondato su ragioni di urgenza (e che, quindi, almeno in linea di principio, non avrebbe diritto ad una corsia preferenziale), subisce a volte rinvii non brevi prima di pervenire alla fase decisoria.

Non è un caso, allora, se il legislatore, nel disciplinare il passaggio dal procedimento sommario a quello ordinario, nelle ipotesi di cui all'art. 702-ter c.p.c., abbia richiamato l'art. 183 c.p.c. e non anche l'art. 420 c.p.c.: ciò è sintomatico del fatto che l'alternatività del rito sommario è operante rispetto al rito ordinario, caratterizzato ancora - nonostante le ultime riforme, tra cui quella di cui alla l. n. 80/05, con cui, ad esempio, sono state accorpate l'udienza di prima comparizione e la prima udienza di trattazione - da una certa “macchinosità” procedimentale, che mal si concilia con le cause aventi un'istruttoria non complessa e suscettibili, quindi, di pervenire ad una più sollecita definizione. Mentre, la medesima esigenza di semplificazione non è ravvisabile nelle controversie soggette al rito del lavoro, considerate le peculiarità che, in un'ottica di concentrazione ed officiosità dell'attività istruttoria, già caratterizzano tali controversie.

In altri termini, non è affatto scontato che le forme del procedimento sommario, specialmente quelle della fase introduttiva, siano in grado di assicurare una tutela più celere rispetto a quella conseguibile con il rito speciale del lavoro (necessitante, piuttosto, di adeguati interventi di sostegno per essere posto in condizione di funzionare adeguatamente sul piano della ragionevole durata). Peraltro, i processi del lavoro, previdenza ed assistenza, nonché quello locatizio, trovano applicazione esclusivamente in materie specifiche, individuate tassativamente dal legislatore, il quale impone un processo a rito speciale, mentre nel sommario di cognizione la scelta del rito è rimessa all'attore e sottoposta alla valutazione discrezionale del giudice, il quale deve stabilire se sia sufficiente o meno un'istruzione sommaria. Il rito del lavoro, insomma, è già “speciale”, e non è quindi compatibile con altri riti “speciali”, come quello sommario. A ciò si aggiunga una ulteriore rilevante differenza tra i due riti, attinente al regime delle preclusioni, soprattutto istruttorie, atteso che, mentre nel rito applicabile alle controversie locatizie e laburistiche vige una rigida scansione di preclusioni all'introduzione nel giudizio di nuovi temi decisionali e di ulteriore materiale probatorio (in quanto, ad es., le parti devono prendere una definitiva posizione ed indicare i mezzi di prova ed i documenti di cui intendono avvalersi fin dai loro atti introduttivi), al contrario l'art. 702-bis tace sull'esistenza di eventuali preclusioni all'introduzione di elementi fattuali ulteriori e di nuovi mezzi probatori, sicchè ammettere che una controversia già sottoposta al rito speciale locatizio o laburistico sia trattata secondo il nuovo rito sommario, consentirebbe alle parti di sottrarsi al meccanismo delle preclusioni cui sarebbero altrimenti sottoposte.

Segue. Con l'opposizione a decreto ingiuntivo

Circa le opposizioni a decreto ingiuntivo assoggettate al rito ordinario di cognizione del giudice monocratico, se, astrattamente, non sembrano ravvisarsi ostacoli all'applicazione ad esse del procedimento in esame, in concreto, però, una siffatta estensione ha destato qualche perplessità (per la tesi dell'incompatibilità, Viola, Il nuovo procedimento sommario di cognizione: quando si può instaurare?, in www.filodiritto.it) .

In primo luogo, si è rilevato che l'opponente può avere interesse ad accelerare i tempi del giudizio, promuovendo opposizione con procedimento sommario, solo in caso di decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo ai sensi dell'art. 642 c.p.c.. Tuttavia, l'opposizione a decreto ingiuntivo è già strutturata dal legislatore come giudizio a cognizione piena che si salda alla fase monitoria a cognizione sommaria, sì da formare un unico processo: il ricorso originario contiene la domanda attrice, insuscettibile di essere mutata nella successiva fase, permanendo peraltro in capo al ricorrente la veste di attore in senso sostanziale. Diversamente opinando si attribuirebbe all'ingiunto (che resta convenuto in senso sostanziale, ancorché attore in senso formale) la scelta di un rito, quale quello sommario di cognizione, che compete di norma esclusivamente a chi assume l'iniziativa del processo.

Inoltre, l'introduzione dell'opposizione con il ricorso sommario ex art. 702-bis c.p.c. postula che il rispetto del termine perentorio stabilito nell'art. 645 c.p.c. si determini (applicando per analogia la giurisprudenza di legittimità formatasi in ordine all'opposizione in materia di crediti di lavoro o di canoni locatizi: Cass.civ., n. 21671/17, n. 27343/16, n. 797/13, n. 8014/09) sulla base del suo deposito in cancelleria, essendo la notificazione del ricorso e del decreto rimessa alla discrezione temporale del giudice.

Potrebbero poi porsi problemi per il mancato coordinamento tra la disciplina del procedimento sommario e l'art. 645 c.p.c., nella parte in cui, al comma 1, tale ultima norma prevede che l'ufficiale giudiziario notifichi al cancelliere avviso di opposizione. Invero, nelle materie soggette al rito ordinario, nel quale il cancelliere è tenuto a prendere atto della mancata notifica dell'opposizione, potrebbe verificarsi, ai fini della declaratoria di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., che questi si limiti a comunicare la mancata notifica, non procedendo, cioè, all'ulteriore compito della verifica dell'iscrizione a ruolo del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., con conseguente apposizione erronea della esecutorietà da parte del giudice.

Infine, si sostiene in dottrina che non sarebbe agevole l'assunzione in prima udienza dei provvedimenti ex artt. 648, 649 e 186-ter c.p.c., con la conseguenza di differire temporalmente ad un'udienza successiva le deliberazioni più incisive del procedimento.

Sul punto è intervenuta recentemente una decisione del Trib. Vercelli (sent. 23 marzo 2016), la quale ha ritenuto ammissibile l'opposizione a decreto ingiuntivo introdotta con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., e non con atto di citazione, in quanto la ratio dell'art. 645 c.p.c., più che sullo stabilire la forma dell'opposizione, si incentra sulla necessità di garantire alla parte ingiunta l'accesso ad un procedimento di opposizione caratterizzato da cognizione e garanzie piene, e non sommarie, il che è in ogni caso assicurato anche a chi opti per il procedimento di cui all'art. 702-bis c.p.c., ove la sommarietà riguarda l'istruzione in senso stretto, e non certo l'accertamento o il contraddittorio. Né osta all'applicabilità dell'art. 702-bis c.p.c. il rilievo per cui, secondo la giurisprudenza (Cass.civ., n. 14594/12), qualora il giudice dell'opposizione debba dichiarare la propria incompetenza, la relativa pronuncia, comportando anche la revoca del decreto ingiuntivo opposto, va resa in forma di sentenza, anziché di ordinanza, nonostante il novellato disposto dell'art. 279, comma 1, c.p.c.: invero, è sufficiente, in proposito, rilevare che l'ordinanza che conclude il rito sommario ha la medesima efficacia e partecipa della stessa idoneità al giudicato, formale e sostanziale, che contraddistinguono la sentenza, sicchè con tale ordinanza, che fa le veci di una sentenza, può senz'altro procedersi alla revoca del provvedimento monitorio. Da tali principi il tribunale piemontese fa derivare anche l'ulteriore conclusione per cui l'art. 183-bis c.p.c., che, a determinate condizioni, consente il passaggio dal rito ordinario a quello sommario di cognizione, è applicabile anche al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo introdotta con citazione.

Ovviamente diversa, da quella che si sta esaminando, è l'ipotesi in cui sia la legge stessa a prevedere l'esperibilità dell'opposizione ex art. 645 c.p.c. nelle forme del rito sommario, come nel caso dell'opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dall'avvocato per prestazioni giudiziali, regolata dal rito sommario di cognizione (collegiale) secondo quanto previsto dall'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, sicché il relativo atto introduttivo deve avere, necessariamente, la forma del ricorso e non dell'atto di citazione (Cass. civ., 10 maggio 2017, n. 11479).

Segue. Con le cause di appello

Il procedimento in esame è pacificamente inapplicabile alle controversie in grado di appello, benchè trattate dal tribunale in composizione monocratica, avverso le sentenze dei giudici di pace, in quanto non è ammissibile che si passi da un procedimento a cognizione piena, ancorchè semplificata, ad un procedimento caratterizzato da un'istruzione deformalizzata ed affidata ai poteri officiosi del giudice; senza contare poi l'impossibilità di prevedere un appello ex art. 702-quater che determinerebbe un numero potenziale complessivo di quattro gradi di giudizio. Per tali controversie, del resto, non possono che utilizzarsi le norme specificamente dettate per il processo di appello, incompatibili con il procedimento in esame.

Segue. Con i procedimenti sommari, cautelari e non

Per quanto riguarda i procedimenti sommari tipizzati quali la convalida di licenza e sfratto ed i procedimenti possessori, sembra nettamente maggioritaria l'opinione che esclude l'applicabilità ad essi del nuovo procedimento sommario per la completezza della disciplina processuale che caratterizza entrambe le fasi, quella sommaria e quella (eventuale) a cognizione piena, di questi procedimenti (Arieta, op. cit., p. 3; Menchini, op. cit.,p. 6). Si è osservato, infatti, che il giudizio possessorio (che è unitario, pur a struttura bifasica), è soggetto ad un rito speciale ex art. 703 c.p.c., in virtù del quale lo stesso atto introduttivo (ricorso originario) contiene la domanda concernente i provvedimenti interdittali da emanare all'esito della cognizione sommaria e quella volta ad ottenere (ove seguita dalla richiesta di prosecuzione di una delle parti, a norma dell'art. 703, comma 4, c.p.c.) la sentenza sul merito possessorio, che non sembra ammettere alternative.

Merita, peraltro, di essere segnalato che non è mancato chi, con riferimento al giudizio possessorio, pur ritenendo arduo prendere posizione a favore o contro la compatibilità di quest'ultimo con il procedimento sommario, ha cercato di contrapporre alla appena riportata tesi negativa, quella secondo cui la parte potrebbe optare anche in tal caso per l'utilizzo del procedimento sommario, così evitando la duplicità di fasi ed ottenendo, con un unico procedimento, una tutela immediata in grado di condurre al giudicato sul merito possessorio (Olivieri, op. cit.). Seguendo tale ultima tesi, il provvedimento sommario ex art. 702-bis c.p.c. a contenuto possessorio dovrà essere impugnato con appello ex art. 702-quater c.p.c. e non con il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c..

Non sembrano esserci ostacoli sistematici, né applicativi, all'ammissibilità della tutela cautelare in corso di causa, mentre un significativo apporto all'efficienza della giustizia - evitando la ripetizione di attività (istruttorie) già svolte, ovvero la necessità di rispettare comunque le cadenze imposte dal rito a cognizione piena - potrà recare il nuovo rito di cognizione quante volte una precedente fase a cognizione sommaria abbia visto già espletata, attraverso il compimento degli atti d'istruzione indispensabili, una ricostruzione dei fatti cui la cognizione piena non potrà portare alcun altro decisivo contributo: si pensi ai casi in cui, all'esito di un procedimento cautelare ante causam, una delle parti voglia (in caso di provvedimento anticipatorio), ovvero debba (per evitare l'inefficacia della misura, in caso di provvedimento conservativo), iniziare il giudizio di merito. In queste ipotesi, le prove raccolte nella fase cautelare - costituendo elementi di prova in grado di fondare (in difetto di contrarie nuove richieste istruttorie) la decisione di merito fra le stesse parti (Cass. civ., 4 ottobre 2013, n. 22778; Cass. civ., 21 novembre 2006, n. 24705; parzialmente difforme Cass. civ., 7 agosto 2013, n. 18865) - potranno rendere superflua la successiva instaurazione di un giudizio ordinario e consentire la trattazione semplificata con il rito sommario di cognizione.

Alla medesima conclusione può pervenirsi anche in ordine al giudizio di merito da instaurare dopo che sia stato esperito l'accertamento tecnico preventivo o la consulenza tecnica preventiva finalizzata alla composizione della lite (artt. 696 e 696-bis c.p.c.). In tal caso, la possibilità di acquisizione della relazione del consulente nel giudizio di merito può semplificare l'istruttoria di quest'ultimo e favorire il ricorso al rito sommario.

Si rammenta che la l. 8 marzo 2017, n. 24 (cd. Legge Gelli), recante “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, ha introdotto un nuovo tentativo obbligatorio di conciliazione, qualificato come condizione di procedibilità della domanda, da svolgersi con le modalità della consulenza tecnica preventiva di cui all'art. 696-bis c.p.c., alternativo al procedimento di mediazione di cui al d.lgs. n. 28/10. Se la conciliazione non si conclude positivamente, il legislatore fa salvi gli effetti della domanda formulata con il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato il ricorso di cui all'art. 702-bis c.p.c., introduttivo del giudizio di merito.

Segue. Con le opposizioni esecutive

Tra le cause suscettibili di trattazione col rito sommario vanno altresì inserite, secondo autorevole dottrina (Olivieri, op. cit.), anche le opposizioni di cui agli artt. 615 c.p.c. (non solo per le opposizioni instaurate prima dell'inizio dell'esecuzione, ma anche per quelle promosse successivamente, dovendosi ritenere operante il rito sommario per la fase successiva alla decisione sulla sospensione dell'esecuzione: in tale ultimo caso, la scelta dovrà essere compiuta nel termine perentorio concesso dal giudice per l'introduzione del giudizio di merito, se competente per la causa è l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice della esecuzione, od altrimenti per la riassunzione della causa innanzi all'ufficio giudiziario competente: cfr. art. 616 c.p.c.) e 619 c.p.c.. In caso di opzione per il rito sommario è da ritenere (con interpretazione imposta dall'art. 111, comma 2, Cost., dovendosi evitare ingiustificate ed eccessive compressioni del contraddittorio) inoperante la riduzione a metà del termine di comparizione (artt. 616 e 618 c.p.c.) di trenta giorni fissato dall'art. 702-bis, comma 3, c.p.c., quella riduzione costituendo una disciplina eccezionale, strettamente legata ai termini di comparizione stabiliti per il procedimento ordinario di cognizione.

L'utilizzabilità del procedimento sommario per i giudizi di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. presuppone, invece, secondo la medesima dottrina, che il primo si ritenga compatibile con le controversie per le quali sia prevista l'inappellabilità delle relative sentenze, essendo altrimenti innegabile la dubbia legittimità costituzionale di un procedimento in cui un'ordinanza in grado di produrre gli effetti del giudicato sostanziale non sia suscettibile di un controllo completo, secondo modalità non diverse da quelle assicurate dalla cognizione ordinaria.

Il dubbio (al quale ha aderito la quasi unanime dottrina) sembra, tuttavia, a parere di chi scrive, ampiamente superabile, se solo si considera che gli artt. 14 e 15 d.lgs. n. 150/11 prevedono la trattazione, con il rito sommario di cognizione, rispettivamente, del procedimento per la liquidazione del compenso professionale degli avvocati disciplinato dall'art. 28 l. n. 794/1942 e dell'opposizione a decreto di pagamento di spese di giustizia di cui all'art. 170 d.P.R. n. 115/02, che si concludono anch'essi con ordinanza non appellabile, ma solo ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost.. Da tale dato normativo non può che desumersi, in linea di principio, la compatibilità tra rito sommario e giudizi che si concludono con pronuncia non appellabile.

D'altra parte, non vi è motivo di ritenere i giudizi di opposizione ex art. 617 c.p.c. incompatibili con il rito sommario se solo si considera che la cognizione che caratterizza il procedimento ex art. 702-bis c.p.c. deve considerarsi “piena” a tutti gli effetti, caratterizzandosi tale rito solo per una semplificazione delle forme procedimentali e dell'istruttoria. Ne consegue che il doppio grado di merito non costituisce un presupposto indefettibile del rito sommario, essendo già garantita, con la disciplina normativa di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c., la pienezza della cognizione che conduce alla decisione giurisdizionale di primo grado.

Come si legge nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 150/11, deve ritenersi ampiamente compatibile con il vigente quadro delle garanzie costituzionali la previsione della riconduzione al rito sommario di cognizione, senza facoltà di conversione al rito ordinario, anche di quelle controversie per le quali è previsto un unico grado di giudizio di merito. In altri termini, pur condividendosi l'opportunità di prevedere di regola l'appello nel rito sommario per esigenze di garantismo, nondimeno si ammette che ciò possa non avvenire nei vari casi in cui la disciplina previgente il d.lgs. n. 150/2011 già escludeva il gravame di merito, e la fattispecie corrisponda pur sempre ai requisiti di semplificazione della trattazione o dell'istruzione (il che potrebbe verificarsi anche nelle opposizioni agli atti esecutivi).

Conseguenze della incompatibilità del rito sommario

Quid iuris nel caso in cui il giudice non ritenga compatibile con il rito sommario il procedimento (rito del lavoro, opposizione a decreto ingiuntivo, etc.) cui è normalmente assoggettata la domanda proposta?

Secondo una prima tesi (Grasselli-Masoni, Le locazioni, 2013, II, 627-628, secondo cui difetterebbe un presupposto processuale della domanda; Sinisi-Troncone, Il processo delle locazioni, Napoli, 2010, 350; Di Marzio, Il processo locatizio, Milano, 2011, 1097), il giudice deve emanare un provvedimento di inammissibilità (in tal senso, in caso di controversia locatizia soggetta al rito ex art. 447-bis c.p.c., la già citata Trib. Modena, ord., 18 gennaio 2010, nonché Trib. Reggio Emilia 4 marzo 2011), applicando estensivamente il disposto dettato dal comma 2 dell'art. 702-ter c.p.c., che non si riferirebbe, nel prevedere appunto la sanzione dell'inammissibilità, alle sole cause in cui il tribunale non giudica in composizione monocratica. Sarebbe fatta salva, ovviamente, la possibilità di riproporre la domanda innanzi all'ufficio giudiziario competente, salvo il maturarsi di eventuali decadenze processuali.

Altro orientamento ritiene che il giudice debba disporre il corretto incardinamento del procedimento verso il binario processuale che gli è proprio, con mutamento del rito ex art. 426 c.p.c. (Trib. Torre Annunziata, 10 febbraio 2010, secondo cui l'erronea proposizione di una controversia locatizia nelle forme del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. impone al giudice non già di dichiarare l'inammissibilità della domanda, bensì di disporre il mutamento del rito da speciale sommario a speciale ordinario).

Una terza tesi (Scarpa, Il procedimento sommario nelle controversie locatizie, in Immobili e diritto, 2010, 6, 42) ritiene che l'errore di rito non determini effettivo pregiudizio per alcuna delle parti relativamente al rispetto del principio del contraddittorio e alla libertà di difesa consentita nelle controversie di cui agli artt. 409 e ss. c.p.c., sicchè, in alternativa all'assegnazione di un termine per l'integrazione della domanda con prosecuzione del giudizio nelle forme del rito speciale, il giudice potrebbe disporre d'ufficio la conversione dell'atto introduttivo mediante rinnovazione del ricorso.

É evidente che la seconda e la terza opzione ermeneutica tendono alla conservazione degli effetti processuali prodotti dal ricorso introdotto dall'art. 702-bis e meglio garantirebbero i principi costituzionali del giusto processo e di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), evitando la riproposizione della domanda (ove possibile) e, per tale via, la proliferazione di nuovi giudizi.

La seconda soluzione, secondo parte della dottrina, sarebbe preferibile anche perchè, trattandosi di errore che non incide sulla composizione del giudice, lo stesso non dovrebbe comportare l'inammissibilità della domanda. Invero, posto che gli artt. 702-bis e 702-ter c.p.c. non prevedono nulla di specifico in ordine a tale problematica, il principio generale, in ambito processuale, nel caso di domanda introdotta con rito errato, non è l'inammissibilità della domanda, bensì, per l'appunto, il mutamento del rito (ove non espressamente vietato, come nel caso dell'art. 3, comma 1,d.lgs. n. 150/11). Infatti, ad essere inammissibile, in sé per sé, non è la domanda, ma il rito con il quale la stessa è veicolata nel processo.

D'altra parte, il principio del mutamento del rito, previsto dall'art. 426 c.p.c. nelle controversie laburistiche e richiamato dall'art. 447-bis c.p.c. per quelle locatizie (o aventi ad oggetto comodato di immobili urbani ed affitto d'azienda), viene applicato dalla giurisprudenza, al di fuori di esplicite previsioni normative, anche in altre fattispecie, come, ad es., nel caso in cui, avverso la cartella esattoriale, sia stato erroneamente proposto il giudizio di opposizione con le modalità del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione anziché con il rito dell'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. (in tale ipotesi, l'errore nella scelta del rito non costituisce di per sé motivo di inammissibilità della domanda, né di invalidità assoluta del giudizio, essendo il giudice tenuto, anche d'ufficio, a disporre la conversione del rito e a fissare un termine per l'eventuale integrazione dell'atto introduttivo: cfr. Cass. civ., 20 gennaio 2014, n. 1089; Cass. civ., 27 giugno 2012, n. 10746; Cass. civ., 27 luglio 2011, n. 16471) ovvero nel caso di opposizione all'ingiunzione di pagamento degli onorari di avvocato, nel regime normativo anteriore al d.lgs. n. 150/11 (cfr. Cass. civ., 24 febbraio 2004, n. 3637, secondo cui, in mancanza dei presupposti per il ricorso al procedimento speciale di cui agli artt. 28 e 29 l. n. 794/42, non può dichiararsi l'inammissibilità del ricorso in opposizione, ma il procedimento prosegue trasformandosi in un ordinario giudizio di cognizione; cfr. anche Cass. civ., 5 agosto 2011, n. 17053, che, pur ritenendo non applicabile il mutamento del rito in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari di avvocato, afferma il principio generale per cui il mutamento del rito può avvenire solo tra due procedimenti a cognizione piena: ebbene, tale ipotesi si attaglia al caso in esame, posto che il procedimento sommario di cognizione costituisce, ormai pacificamente, giudizio a cognizione piena, sicchè nulla osterebbe alla sua conversione in altro procedimento – ordinario, laburistico, locatizio - anch'esso a cognizione piena).

Seguendo tale ultima impostazione, la declaratoria non sarebbe d'inammissibilità, ma di mutamento di rito, con facoltà per le parti d'integrare gli atti (qualora, trattandosi di rito del lavoro o locatizio, trovi applicazione l'art. 426 c.p.c.); il diverso regime delle decadenze nei due procedimenti potrebbe allora non rappresentare un ostacolo alla compatibilità tra rito sommario e rito del lavoro, potendo essere ancora formulate dalle parti le istanze istruttorie, pur non indicate negli atti introduttivi.

La scelta tra le varie opzioni non è poi priva di conseguenze pratiche, in quanto la pronuncia di inammissibilità propone i problemi d'impugnabilità della relativa ordinanza e, nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo od in altri procedimenti soggetti ad un termine di decadenza riguardante la loro proponibilità (si pensi all'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.), anche i ben più rilevanti problemi della non riproponibilità dell'azione, ovvero, nel caso dell'opposizione a decreto ingiuntivo, del passaggio in giudicato del provvedimento monitorio.

Proprio in ordine a tale ultima fattispecie, si è escluso, da una parte della dottrina (Porreca, Il procedimento sommario di cognizione, Milano, 2011, 100), il rischio di una declaratoria di inammissibilità dell'opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del decreto, sulla base di una corretta applicazione del comma 2 dell'art. 702-ter c.p.c., il quale prevede che l'inammissibilità possa essere pronunciata, con ordinanza non impugnabile, laddove il giudice rilevi che la domanda non rientra tra quelle indicate nell'art. 702-bis c.p.c.. Invero, posto che la domanda di opposizione a decreto, ancorchè proposta con ricorso sommario anziché con citazione, rientra pur sempre nelle controversie in cui è possibile fare ricorso al procedimento speciale, il predetto Autore ritiene che il giudice non possa in alcun modo pronunciare declaratoria di inammissibilità, essendo consentito allo stesso, ove ritenga che le difese svolte dalle parti richiedano un'istruzione non sommaria, di procedere, sempre con ordinanza non impugnabile, alla fissazione dell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., con applicazione delle disposizioni del libro II.

Prospettive de iure condendo

Il d.d.l. approvato dalla Camera dei Deputati il 10 marzo 2016, contenente la “Delega al Governo recante disposizioni per l'efficienza del processo civile” (elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Presidente Berruti) prevede che il rito sommario – senza possibilità di conversione al rito ordinario – divenga il modello esclusivo per tutte le controversie in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, con esclusione dei procedimenti attualmente assoggettati al rito del lavoro (a conferma della pluralità dei modelli e della non interferenza tra gli stessi).

Il progetto di riforma del rito sommario, ridenominato “rito semplificato di cognizione di primo grado”, prevede, inoltre, che l'udienza di prima comparizione delle parti sia fissata in un congruo termine, comunque non superiore a tre mesi, e che il giudice, nel rispetto del principio del contraddittorio, abbia la facoltà di fissare termini perentori per la precisazione o modificazione delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni, tenuto conto delle domande e delle eccezioni proposte dalle altre parti, nonché per l'indicazione dei mezzi di prova diretta e contraria e per le produzioni documentali.

Il procedimento ordinario di cognizione diverrebbe, quindi, obbligatorio per le cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale (fattispecie, peraltro, da modificare, secondo la delega, in considerazione dell'oggettiva complessità giuridica e della rilevanza economico-sociale delle controversie), senza, in tal caso, il potere del giudice di disporre il passaggio al rito semplificato di cognizione.

In attesa di verificare le modalità di concretizzazione della delega contenuta nel predetto d.d.l., si è, del tutto condivisibilmente, rilevato che «l'alternanza tra sommarietà e pienezza della cognizione appartiene da tempo a fascinosi slogan legislativi, ma non esprime una graduazione in termini di prevalenza dell'uno sull'altro (questa la ragione per cui è auspicabile che il discrimen perda il ruolo di un tempo); …è illusorio pensare che i mali della giustizia siano risolvibili con il transitare da uno all'altro strumento. Il gioco non vale la candela: non ha pagato in passato e non pagherà ora. Piuttosto, si provoca così scontento tra gli operatori del diritto, costretti a rincorrere un frenetico legislatore alla ricerca del vaso di Pandora nel nome della ragionevole durata del processo» (Tiscini, Il procedimento sommario di cognizione, fenomeno in via di gemmazione, in Riv. dir. proc., 2017, 1, 112-127).

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