Si possono approvare innovazioni vietate se tutti i condomini sono d'accordo?

05 Febbraio 2018

Sorge il problema di stabilire se la norma sulle innovazioni di cui all'art. 1120, comma 4, c.c. sia inderogabile, o, detto in altri termini, se il divieto ivi contenuto possa essere oggetto di disposizione da parte dei condomini; a ben vedere, l'intero art. 1120 c.c. è richiamato nel comma 4 comma dell'art. 1138 c.c., segno che una disposizione del regolamento assembleare non può derogarvi, ma resta il dubbio se tale deroga possa essere introdotta con l'unanimità dei consensi attraverso un regolamento di natura contrattuale o una delibera totalitaria.
Il quadro normativo

Il comma 4 (ex comma 2) dell'art. 1120 c.c. specifica che «sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano taluni parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino», mentre, nella comunione, con l'art. 1108 c.c., si assiste a limiti meno severi, inibendo solo quelle opere che possano provocare un pregiudizio ad alcuno dei partecipanti o importino una spesa eccessivamente gravosa.

Il Legislatore, in tal modo, ha posto dei limiti ben precisi alle decisioni dell'assemblea, anche se adottate con i quorum elevati di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c., intendendo così salvaguardare i diritti della collettività e dei singoli partecipanti del condominio da eventuali abusi della maggioranza; in altri termini, quest'ultima può approvare qualsiasi innovazione, purché diretta a migliorare la cosa comune o il godimento della stessa, ma non può danneggiare né le parti comuni né gli interessi dei condomini.

Sotto il profilo della tecnica legislativa adoperata, è interessante notare come la norma menziona l'effetto (fattuale) in luogo della causa (giuridica); le innovazioni pregiudizievoli anziché la causa specifica dell'illegittimità delle relative delibere, ma ciò trova la sua spiegazione tenendo conto del nesso che intercorre tra le attività materiali e l'esercizio dei poteri giuridici: per esprimere l'illegittimità delle delibere, l'art. 1120, comma 4, c.c. fa riferimento ai risultati di fatto, ossia le innovazioni che pregiudicano la stabilità, la sicurezza, il decoro architettonico o rendono inservibili talune cose comuni al godimento anche di un solo condomino, mentre l'illegittimità della statuizione assembleare afferisce alla circostanza che la stessa pregiudica la collettività - intendendo l'edificio nel suo complesso, cagionando nocumento indistintamente a tutte le porzioni di cui è composto - e i singoli proprietari di queste ultime.

L'àmbito di operatività del divieto

A fortiori, il divieto di realizzare le innovazioni si applica allorquando gli interventi, pur riguardando «parti comuni dell'edificio» - perché, se eseguite all'interno della proprietà esclusiva, sono disciplinate dall'art. 1122 c.c. - arrechino pregiudizi nella sfera dei diritti propri dei singoli condomini: è, infatti, ovvio che il Legislatore, tutelando il condomino nell'utilizzo dei beni comuni, che non devono, a seguito delle predette innovazioni, essere «inservibili all'uso o al godimento» del singolo, a maggior ragione ha inteso salvaguardare quest'ultimo - salvo, ovviamente, il suo consenso, - qualora l'iniziativa della maggioranza provochi ingerenze dannose nelle cose di sua esclusiva proprietà; per quanto lieve sia la lesione della proprietà esclusiva, la stessa è pur sempre illegittima, sicché il beneficio della collettività non rende mai lecito il sacrificio del diritto del singolo.

Così, ad esempio, l'assemblea, con le debite maggioranze, può legittimamente disporre le innovazioni che crede, decidendo di collocare un manufatto, destinato ad un'utilità comune, su un'area o su un bene condominiale - si è ammesso, però, che l'innovazione possa anche interessare beni al di fuori della cosa comune purché ad essa funzionalmente collegati (Cass. civ., sez. II, 1 aprile 1995, n. 3840) - ma deve pur sempre sottostare alle norme che disciplinano i rapporti di vicinato - v., ad esempio, artt. 873, 844 e 833 c.c. in tema, rispettivamente, di distanze legali, immissioni e atti di emulazione - qualora il nuovo corpo di fabbrica si ponga in appoggio o in prossimità di un appartamento privato (in tal senso, v. altresì Cass. civ., sez. II, 26 maggio 1989, n. 2548).

I divieti di cui all'art. 1120, comma 2, c.c. devono intendersi in senso tassativo, non potendosi estendere ad ogni forma di intervento che abbia sul bene interessato un effetto modificativo di tale entità e portata da alterare in modo sostanziale la natura originaria del bene sotto il profilo formale e/o sostanziale.

Rispettati i limiti di cui sopra, «tutte le innovazioni» sono permesse, purché si tratti di interventi tesi «al miglior godimento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni»: un divieto, per così dire, implicito può, quindi, rinvenirsi nello stesso disposto del comma 1 dello stesso art. 1120, nell'ipotesi in cui non vi sia alcun miglioramento (nemmeno potenziale) della cosa comune a seguito dell'innovazione, o il danno che l'accompagna sia superiore all'utilità arrecata; un altro divieto, poi, può desumersi in via sistematica, laddove con l'innovazione si costituisca un diritto reale sulle cose comuni (Cass. civ., sez. II, 30 marzo 1993, n. 3865, che si è occupata della posa di un cavo telefonico che creava una situazione di fatto corrispondente ad una servitù di passaggio di conduttura).

Il consenso della totalità dei condomini

A questo punto, il problema preliminare è quello di stabilire se la norma sulle innovazioni di cui all'art. 1120, comma 4, c.c. sia inderogabile, o, detto in altri termini, se il divieto ivi contenuto possa essere oggetto di disposizione da parte dei condomini; la tematica riguarda, quindi, la natura cogente o meno delle norme che le contemplano e della conseguente possibilità di disporne per contratto.

L'intero art. 1120 c.c. è richiamato nel comma 4 dell'art. 1138 c.c., segno che una disposizione del regolamento assembleare non può derogarvi - ad esempio, prevedendo maggioranze diverse da quelle stabilite dall'art. 1136, comma 5, c.c. - ma resta il dubbio se tale deroga possa essere introdotta con l'unanimità dei consensi (non essendo ovviamente sufficiente la maggioranza, pur qualificata, contemplata per le innovazioni), attraverso un regolamento di natura contrattuale o una delibera totalitaria.

Orbene, l'art. 1120 c.c. pone, al comma 4, un duplice divieto alla realizzazione delle innovazioni: si contemplano, infatti, innovazioni vietate perché pregiudizievoli alla collettività (in quanto lesive della stabilità, della sicurezza e del decoro del fabbricato) e innovazioni vietate perché cagionano un danno al condomino (in quanto rendono talune parti dell'edificio inservibili al suo uso).

Nel secondo caso, trattandosi di beni disponibili dal singolo, quest'ultimo può disporne per contratto, come può rinunciarvi - ad esempio, accettando limitazioni al godimento del cortile in favore della sua proprietà esclusiva - atteso peraltro che, in forza dell'art. 1117 c.c., la stessa proprietà delle parti comuni può essere esclusa dal titolo (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 2006, n. 23612).

Nel primo caso, al contrario, siamo in presenza di beni collettivi: qui, il legislatore ha stabilito che, per la particolare rilevanza di questi beni (stabilità, sicurezza, decoro), neanche la maggioranza può disporre e che il singolo, in quanto il valore del bene collettivo si riflette su quello individuale, possa dolersene, impugnando la relativa delibera.

I beni collettivi disponibili e indisponibili

Al riguardo, però, è necessaria una puntualizzazione, perché, a stretto rigore, quello che è precluso alla maggioranza potrebbe essere consentito alla totalità dei partecipanti.

Occorre, quindi, distinguere all'interno dei suddetti beni collettivi: invero, devono considerarsi vietate quelle innovazioni che cagionino o possano cagionare danno all'esistenza stessa dell'edificio, pregiudicandone la statica e la tranquilla abitabilità - in quest'ultimo concetto, potrebbe ricomprendersi il pericolo per la salute dei condomini - in quanto ciò urta con le norme di ordine pubblico, rendendo nulle ex art. 1343 c.c. le relative delibere autorizzative; peraltro, se si consentisse ai condomini di compiere opere suscettibili di arrecare pregiudizio alla stabilità ed alla sicurezza dell'edificio, ciò equivarrebbe a negare l'obbligo alla conservazione delle cose comuni, atteso che l'esistenza di queste è strettamente connessa all'esistenza dell'edificio di cui fanno parte.

Un discorso a parte deve, invece, farsi riguardo al decoro architettonico, stante che addirittura la maggioranza assembleare (nemmeno qualificata), argomentando dal combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 1138 c.c., è in grado di dettare norme per la sua tutela; in altri termini, non si ritiene che il divieto di innovazioni che alterino il decoro architettonico sia da ricollegare anche alla tutela di un interesse generale dei cittadini (a che non si turbi l'euritmia architettonica degli edifici) con quello privato (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 19 giugno 2009, n. 14455).

Peraltro, è da escludere che la legittimazione ad agire contro opere che turbino il predetto decoro sia attribuibile anche a persone estranee all'edificio in condominio interessato dai lavori: se l'interesse pubblico trascende il valore estetico del singolo edificio ed investe quello dell'ambiente - a parte la possibile non coincidenza dei criteri di individuazione del predetto valore - la tutela pubblica non concorre con quella privata, operando su due piani differenti.

In pratica, se tutta la collettività condominiale approva una delibera che deturpa l'edificio, impudet sibi, a meno che non si debba ottemperare nel caso di specie a direttive informate a superiori interessi pubblici a tutela del patrimonio artistico, ma tale tutela opererebbe sul diverso livello amministrativo; d'altronde, come tutti i condomini possono peggiorare l'aspetto estetico del loro edificio, non soggiacendo, almeno sul piano civilistico, a vincoli delle bellezze naturali e artistiche, così, vista la tematica sotto l'altro angolo di visuale, l'alterazione al decoro architettonico non potrebbe essere esclusa se l'opera innovatrice fosse autorizzata dalla competente autorità (sindaco, sovraintendenza ai monumenti, commissione tecnica comunale), in quanto - come è noto - le autorizzazioni amministrative sono concesse «con salvezza dei diritti dei terzi», sicché gli eventuali vincoli valgono nei confronti del proprietario esecutore in rapporto alla Pubblica Amministrazione, ma non possono interferire negativamente sulle posizioni soggettive in capo ai condomini.

Indipendentemente dall'esistenza di disposizioni pubblicistiche, i condomini possono, con un negozio con cui prendono parte tutti, disporre di modificare il prospetto dell'edificio alterandone il decoro architettonico (per esempio, per ragioni climatiche, possono decidere di chiudere i balconi della facciata con verande a vetri, pregiudicando l'estetica del fabbricato).

In conclusione

Pertanto, si reputa che le innovazioni c.d. vietate possano essere approvate con il consenso di tutti i partecipanti al condominio, salvo quelle che arrecano pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, perché, in tale caso, il divieto assume carattere assoluto che non può essere superato neppure con il voto unanime della totalità dei condomini.

Invero, non si tratta tanto di salvaguardare l'aspetto estetico dell'immobile, né di garantire ad ogni partecipante un pari godimento ed uso delle cose comuni, ma di tutelare l'esistenza materiale dello stabile che potrebbe essere gravemente minata da opere innovative eseguite sullo stesso (una cosa è l'essere dell'edificio, altro è il suo modo di apparire.

Il consenso, ove ammesso, non deve essere prestato necessariamente in sede assembleare, non essendo prevista una delibera in tal senso, e potendo essere anche dato con scritti separati e non contestuali, purché la manifestazione di volontà di tutti i condomini sia inequivoca, non bastando, ad esempio, un generico parere favorevole; occorre pur sempre l'atto scritto, non potendo rilevare un comportamento negativo o passivo del condomino, come l'astensione o la mera tolleranza, né può essere desunto per presunzioni dai facta concludentia; ove la statuizione non incida su diritti immobiliari, basta che il consenso sia manifestato in un atto ad probationem, quale può essere il processo verbale redatto nel corso della riunione assembleare.

In quest'ottica, non appare condivisibile quanto sostenuto da Cass. civ., sez. II, 4 luglio 1966, n. 1727, secondo cui il requisito della forma scritta non è soddisfatto quando il consenso risulti da un documento avente esclusiva finalità amministrativa: nella specie, la domanda al Comune sottoscritta dai condomini per ottenere l'autorizzazione all'esecuzione dei lavori.

Resta fermo che, qualora il consenso di tutti sia necessario, trattandosi di innovazione vietata ex art. 1120, comma 2, c.c. e l'assemblea, nonostante ciò, deliberi a mera maggioranza (anche se qualificata), l'innovazione de qua è valida, se nessun condomino impugni la relativa delibera; la mancata opposizione fa presumere l'innovazione vietata come se voluta da tutti, anche se, trattandosi di materia sottratta alla competenza assembleare la suddetta delibera sarebbe nulla (e non semplicemente annullabile), e quindi opponibile da chiunque vi abbia interesse (e non solo dagli assenti e dai dissenzienti) ed in ogni tempo (e non entro il ristretto termine di decadenza di cui all'art. 1137, comma 3, c.c.).

La statuizione dell'assemblea, proprio perché adottata al di fuori dei poteri del collegio, sarebbe così sotto a questa sorta di spada di Damocle, ossia l'iniziativa giudiziaria volta alla declaratoria dell'illegittimità dell'opera, con consequenziali richieste di demolizione, rimessione in pristino dello status quo ante ed eventuale risarcimento danni.

Guida all'approfondimento

Bordolli, Opere o impianti nelle parti esclusive e decoro architettonico, in Immob. & proprietà, 2014, 289;

De Tilla, Innovazioni e uso dei beni: diritti e doveri dei condomini, in Immob. & diritto, 2010, fasc. 4, 66;

Felcioloni, Innovazioni nel condominio: limiti di legittimità, in Ventiquattrore avvocato, 2010, fasc. 10, 8;

Celeste, La realizzazione di innovazioni vietate tra placet assembleare e rispetto di esigenze pubblicistiche, in Arch. loc. e cond., 2005, 7;

Marchesi, Innovazioni utili e mutamento di destinazione in pregiudizio dei diritti dei singoli condomini, in Arch. loc. e cond., 1986, 113.

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