Il criterio della “ragionevolezza” quale limite all’operatività della regola della business judgement rule

Enrico Mugnai
06 Febbraio 2018

In tema di responsabilità dell'amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l'insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (c.d. business judgement rule) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell'art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive
Massima

In tema di responsabilità dell'amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l'insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (c.d. business judgement rule) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell'art. 2392 c.c., - nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alla novella introdotta dal D.Lgs. n. 6/2003 - sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere.

Il caso

La società consortile per azioni Consorzio I.A.Q. ricorreva al Tribunale di Roma chiedendo la condanna dell'ex presidente del consiglio di amministrazione al risarcimento dei danni subìti in conseguenza di atti e comportamenti posti in essere da quest'ultimo nel periodo in cui rivestiva la predetta carica (2001-2002).

A sostegno e fondamento della propria pretesa, l'istante deduceva che l'ex presidente aveva:

i) ricevuto dalla società rimborsi non dovuti, sulla base di note spese fraudolentemente maggiorate e riferite a beni e servizi estranei all'attività sociale;

ii) stipulato contratti con altre imprese privi di alcuna utilità per la società.

Si costituiva in giudizio l'ex presidente, contestando integralmente quanto ex adverso dedotto e domandato e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna della società al pagamento dei compensi a lui dovuti in ragione dell'incarico svolto in favore del consorzio.

Il Tribunale di Roma, accertata la responsabilità dell'ex presidente del consiglio di amministrazione, accoglieva sia la domanda attrice che, parzialmente, quella riconvenzionale relativa ai compensi richiesti.

Avverso tale provvedimento ricorreva in appello il sig. A. D. N.. La società consortile I.A.Q., invece, presentava ricorso incidentale.

La Corte d'Appello di Roma rigettava l'impugnazione principale ed accoglieva, invece, quella incidentale, condannando l'ex presidente a risarcire la società dei danni sofferti in conseguenza delle sue condotte, senza riconoscergli alcun credito per i compensi richiesti in ragione dell'attività svolta in favore del consorzio. Più in particolare, con specifico riferimento alla questione della sottoscrizione dei contratti, la Corte territoriale evidenziava che il pregiudizio sofferto dal consorzio (pari all'esborso economico pagato a titolo di corrispettivo in assenza di alcuna controprestazione) fosse causalmente ed esclusivamente riconducibile alla condotta illegittima dell'ex presidente del consiglio di amministrazione, il quale aveva stipulato i predetti contratti in maniera “arbitraria”, sia con riguardo all'oggetto negoziale che con riferimento all'individuazione dei contraenti, con ciò violando i doveri di corretta amministrazione gravanti sul sig. A. D. N. in ragione della carica ricoperta.

L'ex presidente presentava, quindi, ricorso in Cassazione sulla base dei seguenti motivi:

i) con riguardo alla falsificazione delle note spese, i giudici di merito avrebbero dovuto considerare il giudicato penale intervenuto sugli stessi fatti così come accertati nella sentenza di assoluzione dell'imputato con la formula “il fatto non sussiste” e, conseguentemente, “conformarsi” ad essa, escludendo la responsabilità del ricorrente per la falsificazione ed alterazione della documentazione;

ii) in relazione alla vicenda dei contratti, la Corte d'Appello aveva violato la regola della business judgement rule, che vieta al giudice di sindacare il merito delle scelte discrezionali degli amministratori (quali la sottoscrizione degli accordi di cui trattasi), anche laddove tali decisioni risultino ex post inopportune o addirittura economicamente sconvenienti per la società.

La Suprema Corte, accertata l'infondatezza di tutti i motivi proposti, rigettava il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Le questioni giuridiche

Con la sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno preso posizione in merito a due importanti tematiche riguardanti, rispettivamente, l'efficacia del giudicato penale di assoluzione nel giudizio civile e la definizione dei presupposti per l'applicabilità della regola della business judgement rule, al fine di stabilire e meglio delineare entro quale limite può ritenersi legittimo il controllo giudiziario sulle decisioni imprenditoriali poste in essere dagli amministratori. Più in particolare:

A. Sotto il primo profilo la Suprema Corte, confermando alcuni precedenti orientamenti giurisprudenziali, ha sostenuto che:

i) l'art. 652 c.p.p., norma cardine in materia di rapporti tra giudizio civile e penale, deve essere letto ed interpretato nel senso di ritenere che, stante il principio della separatezza dei due giudizi, quello “civile di danno debba essere sospeso soltanto allorché l'azione civile, ex art. 75 cod. proc. pen., sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado, in quanto esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile di danno, che pertanto non può pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto” (v. Cass. n. 3820/2010);

ii) l'omessa considerazione da parte dei giudici civili della motivazione contenuta nel giudicato penale assolutorio non determina alcun vizio della sentenza neanche laddove il provvedimento penale sia stato acquisito in funzione istruttoria nel giudizio civile. È, infatti, pacifico che il giudice del merito, con il solo limite dell'incongruità della motivazione, è libero di scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione senza essere tenuto a discutere ciascuna risultanza processuale (Cass. Sez. Un. n. 8053/2014; Cass. n. 28669/2013; Cass. n. 6288/2011; Cass. n. 27162/2009).

B. Per quanto attiene alla seconda questione, la Corte di Cassazione nel richiamare, in termini generali, l'orientamento secondo il quale “all'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 cod. civ. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico” (v. Cass. n. 3409/2013 e Cass. n. 3652/1997), ha, al tempo stesso, rilevato e precisato che la regola della insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali degli amministratori trova un limite nella valutazione della ragionevolezza delle stesse, da compiersi:

i) da un lato, tenendo conto della diligenza osservata dall'amministratore nella fase prodromica all'assunzione della decisione, potendosi sindacare il comportamento di costui tutte le volte in cui la decisione sia stata presa in assenza di adeguata istruttoria, ossia con “l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità”;

ii) dall'altro, sulla base di un giudizio ex ante, secondo il parametro della diligenza che tutti gli amministratori sono tenuti ad osservare ai sensi dell'art. 2392 c.c. nell'espletamento del loro incarico.

Nel caso di specie i giudici di legittimità hanno qualificato come “arbitraria” la stipulazione dei tre contratti da parte dell'ex presidente del consiglio di amministrazione (per la totale assenza dei requisiti di professionalità delle ditte prescelte da un lato, e perché conclusi con l'anomala condotta della società committente di eseguire immediatamente il pagamento del corrispettivo) e, pertanto, hanno ritenuto corretta la decisione della Corte d'Appello di sindacare come illegittime le scelte gestorie effettuate dal sig. A. D. N., in quanto assolutamente irragionevoli e, comunque, assunte senza l'adozione delle necessarie cautele.

Osservazioni

Prescindendosi in questa sede dall'esame dei profili processualistici legati al rapporto tra giudizio civile e processo penale, la sentenza in commento offre sicuramente lo spunto per approfondire il tema di notevole interesse teorico e pratico-applicativo relativo all'individuazione dei limiti all'operatività del principio - da considerarsi ormai definitivamente acquisito dall'ordinamento societario - della insindacabilità nel merito delle scelte imprenditoriali degli amministratori da parte del giudice (c.d. business judgement rule).

1. Al fine di inquadrare tale complessa tematica, appare opportuno, in via preliminare, richiamare brevemente, nei suoi contenuti generali, la disciplina normativa in materia di responsabilità degli amministratori di società per azioni, per poi approfondire se ed entro quali limiti gli stessi possano essere chiamati a rispondere delle scelte discrezionali operate nell'esercizio della funzione amministrativa.

In questa prospettiva, gli elementi costitutivi della responsabilità degli amministratori di s.p.a., consistono pacificamente in:

i) una condotta (attiva od omissiva) illecita, ossia fondata sulla violazione di un dovere posto dalla legge o dallo statuto;

ii) la sussistenza di un danno;

iii) il nesso di causalità tra la condotta illecita ed il danno;

iv) l'elemento soggettivo del dolo o della colpa (cfr, da ultimo, Cass. n. 22848/2015).

Con riguardo al profilo sub i), la condotta degli amministratori dev'essere, pertanto, valutata alla luce del sistema di obblighi giuridici che sono loro imposti nell'espletamento del proprio incarico, siano essi di fonte normativa (primaria o secondaria) o statutaria, venendo in rilievo, con riferimento a tale profilo, la tradizionale distinzione tra i doveri “specifici” (o meglio a contenuto “predeterminato”) e quelli fissati attraverso “clausole o principi generali”.

Tra questi ultimi rientrano anche, come noto, il dovere di agire con la “diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze” (per alcuni recenti approfondimenti sul tema si vedano, tra gli altri, Stagno d'Alcontres-De Luca, Le società, 2, Le società di capitali, Torino, 2017, 653; Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Abriani-Ambrosini-Cagnasso-Montalenti, Le società per azioni, Padova, 2010, 661. In giurisprudenza cfr., ad esempio, Trib. Novara, 14 ottobre 2011; Trib. Roma, 21 aprile 2008), nonché nel rispetto dei “principi di corretta amministrazione”; ciò che è ricavabile indirettamente, tra l'altro, dal fatto che il collegio sindacale è tenuto a vigilare sull'osservanza dei predetti principi da parte degli amministratori (v. art. 2403, comma 1, c.c.. In dottrina cfr. ex multis, Montalenti, Amministrazione e controllo nelle società per azioni: riflessioni sistematiche e proposte di riforma, in Riv. soc., 2013, 47).

2. Tanto premesso, soprattutto nelle ipotesi in cui il giudizio sulla responsabilità degli amministratori attenga alla valutazione del corretto adempimento o meno di tali doveri di carattere generale, si pone il problema di stabilire se ed entro quali limiti il sindacato giudiziale possa entrare nel “merito” delle scelte imprenditoriali compiute dagli amministratori nell'esercizio dell'impresa (nel senso di ritenere applicabili i medesimi principi di seguito enunciati tanto alle scelte propriamente gestorie, quanto a quelle concernenti i profili organizzativi dell'impresa societaria, v. Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi pre-concorsuale, Milano, 2016, 156; Cicchinelli, Deleghe e responsabilità nell'impresa bancaria, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2017, 121; Kutufà, Adeguatezza degli assetti e responsabilità gestoria, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Torino, 2010, 726).

Il problema si presenta, in particolare, in considerazione del fatto che agli amministratori è riconosciuta ampia libertà di iniziativa nell'esercizio dell'impresa societaria: questi, infatti, sono spesso chiamati ad effettuare scelte imprenditoriali altamente discrezionali, sia con riguardo all'individuazione della strategia imprenditoriale più opportuna per il perseguimento dello scopo sociale, che con riferimento alla convenienza economica ed ai possibili e prevedibili esiti delle singole decisioni adottate (su questo tema v., tra gli altri, Angelici, Interesse sociale e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2012, I, 583 ss., Id., Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 583 ss.). Se, infatti, dalla regola di competenza funzionale di cui all'art. 2380-bis, c.c. (“la gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori…”) può farsi discendere a carico di quest'ultimi un dovere di perseguire una gestione efficiente, altrettanto vero è che “in effetti, non è a priori definibile (che cioè lo sarebbe soltanto in un irrealistico contesto di “perfezione del mercato”) una situazione di efficienza dell'impresa, un unico e univocamente individuabile punto di equilibrio per la pluralità di interessi che su di essa convergono” (in tal senso, Angelici, Interesse sociale e business judgement rule, cit., 579 ss.). Da ciò discende che gli amministratori devono ritenersi titolari di un potere discrezionale nell'esercizio dell'impresa, cui non può non corrispondere, in una prospettiva ex post di revisione giudiziale, un'area, più o meno estesa, di insindacabilità delle scelte discrezionali compiute.

Alla luce di tali considerazioni, le Corti italiane sono venute, in modo sempre più consapevole ed esplicito, a valutare la responsabilità degli amministratori sulla base della c.d. business judgement rule, ossia di quella regola (da intendersi in termini di presunzione o di standard of liability, a seconda dell'orientamento seguito; in favore della prima e prevalente interpretazione v. nella letteratura americana, fra molti, Bainbridge, The Business Judgement Rule as Abstention Doctrine, 57 Vand. L. Rev., 2004, 83), elaborata compiutamente dalla giurisprudenza statunitense, il cui rationale può appunto identificarsi nello scopo di contemperare l'esigenza di non disincentivare l'accettazione dell'incarico da parte delle persone più qualificate e la stessa assunzione dei rischi tramite un'eccessiva “esposizione” alla responsabilità civile, da un lato, con quella di assicurare un'adeguata tutela giurisdizionale ai soggetti eventualmente pregiudicati dall'operato degli amministratori, dall'altro (per un approfondimento sul tema della business judgement rule negli Stati Uniti d'America v. Business judgement rule e mercati finanziari. Efficienza economica e tutela degli investitori, Quaderni giuridici Consob, 11, novembre, 2016, 9 ss.).

In termini generali, in base alla predetta regola “all'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 cod. civ. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società; ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte), ma solo l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità”; e ciò quand'anche tali scelte “presentino profili di rilevante alea economica” (così, con particolare chiarezza, Cass. n. 3652/1997. Analogamente v. anche, tra le altre, Cass. n. 1783/2015; Cass. n. 3409/2013; Cass. n. 18231/2009; Trib. Milano, 20 dicembre 2013; Trib. Torino, 4 giugno 2013, ivi; Cass. n. 5718/2004. In dottrina cfr., ex multis, Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. a dieci anni dalla riforma del 2003, Torino, 2013, 117, nt. 204; Id., Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 183 ss.; Id., La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, 4, Torino, 1991, 361 ss.; Angelici, Diligentia quam in suis e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2006, I, 675 ss.; Gambino, Limitazione di responsabilità, personalità giuridica e gestione societaria, in Il nuovo diritto societario - Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, 1, Torino, 2006, 51 ss.; Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, 170 ss).

Nel suo contenuto essenziale, pertanto, la regola in esame esclude che si possa far discendere l'eventuale responsabilità degli amministratori (esclusivamente) dall'insuccesso economico delle iniziative imprenditoriali da questi intraprese, spettando il controllo sull'opportunità e sulla convenienza economica delle decisioni esclusivamente “ai soci nei confronti del consiglio di amministrazione e a quest'ultimo, come plenum, nei confronti dei delegati”, in quanto trattasi di un “controllo in forma di potere di indirizzo, di condizionamento e anche di contrapposizione antagonistica, con la revoca dell'amministratore o della delega, non già di sorveglianza e verifica in funzione di eventuali iniziative sul terreno della responsabilità” (in questi termini Montalenti, op. cit., 50).

Il che, del resto, appare una normale conseguenza del fatto che la legge non impone “agli amministratori di gestire la società senza commettere errori, anche nel caso in cui si tratti di errori gravi ed eventualmente evitabili da altri amministratori più competenti e capaci, ma prevede solo il rispetto dei numerosi obblighi di comportamento di amministrare con diligenza e di non agire in conflitto di interessi” (così Trib. Milano, 3 giugno 2008. In dottrina cfr. Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 16, Torino, 2013, 150; Piscitello, La responsabilità degli amministratori di società di capitali tra discrezionalità del giudice e business judgement rule, in Riv. soc., 2012, 1167 s.).

Se questo è vero, l'area del sindacato giudiziale viene conseguentemente ad essere “limitata” e “circoscritta”, nel senso di ritenere che lo stesso possa e debba riguardare non già il merito della decisione assunta, quanto piuttosto la fase prodromica all'adozione della stessa (“il modo in cui sono compiute”: Cass. n. 5718/2004), ossia, in altri termini, il processo istruttorio/decisionale che ha condotto all'assunzione di una determinata scelta. Da ciò discende che dovrà ritenersi senza dubbio illegittimo (e fonte di responsabilità degli amministratori) che la funzione gestoria venga esercitata in modo manifestamente avventato e imprudente (v. Cass., n. 17441/2016; Trib. Prato, 14 settembre 2012) e, quindi, che l'assunzione del rischio avvenga in modo totalmente irresponsabile e senza una preventiva ed adeguata informazione ed attività istruttoria (Trib. Roma, 28 settembre 2015, cit.; Trib. Torino, 4 giugno 2013. In letteratura cfr., tra i tanti, Montalenti, op. cit., 51).

In questa prospettiva, sul piano “sostanziale” degli obblighi giuridici gravanti sugli amministratori, può dunque ritenersi che gli stessi, per non incorrere in responsabilità, siano tenuti a porre in essere tutte le più opportune cautele e ad operare le verifiche di carattere preventivo che si rendono necessarie. Su un piano concreto, questo principio implica principalmente che gli amministratori sono obbligati ad assumere tutte le informazioni rilevanti disponibili (V., ad esempio, Cass., n. 5718/2004, cit.; Trib. Roma, 28 settembre 2015; Trib. Milano, 24 agosto 2011, in Soc., 2012, 493. In dottrina; cfr., tra i tanti, Angelici, Interesse sociale e business judgement rule, cit., 584).

Laddove tale dovere risulti violato, le decisioni assunte dagli amministratori diverranno censurabili e qualora risultino pregiudizievoli, costoro potranno essere chiamati dalla società a rispondere del danno cagionatole. Viceversa, nel caso in cui la condotta degli amministratori sia stata conforme ai suddetti doveri “il successivo, imprevedibile esito negativo dell'affare non comporta il loro obbligo di risarcimento dei danni nei confronti della società amministrata” (Trib. Milano, 3 settembre 2003, in Giur. it., 2004, 350 ss.).

3. Fermo quanto precede, la sentenza in commento presenta particolare interesse nella misura in cui viene espressamente ad individuare il criterio della “ragionevolezza” delle decisioni quale limite all'operatività della regola della business judgement rule. È stato, infatti, sostenuto che il principio della insindacabilità delle scelte gestionali da parte del giudice non opera (oltre che nei casi in cui risulti che la funzione gestoria sia stata svolta in violazione delle prescrizioni legislative e statutarie, ivi inclusi gli obblighi, di carattere generale, di operare in buona fede e nel perseguimento dell'interesse sociale; sul punto, v. Angelici, Diligentia quam in suis e business judgment rule, cit., 690) quando gli amministratori abbiano agito in modo palesemente irragionevole; ciò in quanto “la diligenza a cui l'amministratore deve conformare il proprio operato è incompatibile con l'esercizio del mero arbitrio, e lo obbliga ad agire nel rispetto dei criteri e delle regole che governano in ogni campo economico la gestione dell'impresa (…). Pertanto, ogni trasgressione di tali regole di avvedutezza e prudenza configura una violazione dell'obbligo di diligenza che deve essere osservato dall'amministratore: l'amministratore non può compiere operazioni irrazionali ed avventate, di pura sorte, o azzardate, prevedibilmente rischiose ed imprudenti, e non può superare i limiti fissati da quella ragionevolezza che deve connotare la discrezionalità dell'imprenditore, secondo cui ogni scelta anche nel campo dell'attività di impresa non può discostarsi dalle valutazioni tecnico-professionali che potrebbe esprimere ogni altro operatore che svolga una attività dello stesso tipo” (così Trib. Milano, 2 marzo 1995, in Soc., 1996, 57 ss., con nota di Morelli. In senso conforme, cfr., Trib. Milano, 29 settembre 2016; Cass. n. 1783/2015, cit.; Cass. n. 3902/2012; Trib. Milano, 14 gennaio 2010; Trib. Milano, 10 giugno 2004; Cass. n. 16707/2004; Trib. Milano, 10 febbraio 2000, in Giur. comm., 2001, II, 326, con nota di Tina; Trib. Milano, 26 giugno 1989, in Giur. comm., 1990, II, 122 ss., con nota di Arrigoni. In dottrina v., tra gli altri, Montalenti, op. cit.,51; Sanfilippo, Gli amministratori, in Diritto Commerciale. Diritto delle società, a cura di Cian, Torino, 2017, 517; Presti-M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, Bologna, 2015, II, 158; Nigro, Principio di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. Comm., 2013, 1, p. 457; Luciano, op. cit., 153 ss. Analogamente si veda Business judgement rule e mercati finanziari. Efficienza economica e tutela degli investitori, Quaderni giuridici Consob, 11, novembre, 2016, 38. In argomento cfr., altresì, Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, cit., 183 ss. secondo cui “gli errori o le scelte inopportune non sono rilevanti in sé (…) ma come circostanze dalle quali può presumersi l'esistenza di una violazione dell'obbligo di diligenza (…) o dell'obbligo di non agire in conflitto di interesse” e An. Rossi, Responsabilità degli amministratori verso la società per azioni, in La responsabilità di amministratori, sindaci e revisori contabili, a cura di Ambrosini, Milano, 2007, 16, il quale ritiene che il giudice debba “calarsi nel contesto storico e ambientale, in cui è maturata la decisione oggetto di valutazione”, individuando “una fascia di atti che corrispondano ad uno standard di diligenza determinato sulla base di un criterio di normale consequenzialità”).

Se questo è vero, pare utile precisare come il parametro della ragionevolezza rappresenti, in effetti, un vincolo diverso ed ulteriore rispetto a quello consistente nella necessità di effettuare un'adeguata attività istruttoria, operando sul diverso piano dell'individuazione ex ante di una serie di regole di avvedutezza e prudenza che l'amministratore diligente è tenuto a conoscere ed osservare nella conduzione dell'impresa societaria (v. Sanfilippo, op. cit., 517; Briolini, sub art. 2392, in Le società per azioni, diretto da Abbadessa e Portale, Milano, 2016, 1390).

In questa prospettiva, è stato affermato che lo scrutinio giudiziale può avere ad oggetto “non solo la correttezza del procedimento decisionale seguìto, ma anche il contenuto del singolo atto e le sue implicazioni operative, con una valutazione ex ante in ordine all'inerenza di tale atto al contesto imprenditoriale di volta in volta in esame” e quindi alla sua ragionevolezza e razionalità (Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Trattato di diritto privato, cit., 151; Id., La responsabilità degli amministratori, in Abriani-Ambrosini-Cagnasso-Montalenti, op. cit., 664; in senso contrario ad un utilizzo ampio del criterio di ragionevolezza, v. Tina, L'esonero da responsabilità degli amministratori di s.p.a., Milano, 2008, 79 ss.).

Sul piano dei doveri, la ragionevolezza rappresenterebbe, quindi “una regola di comportamento costituente una esplicazione della clausola generale della diligenza e concretamente un limite ex ante alla discrezionalità delle scelte (…) e, ex post, un criterio di controllo sulle scelte effettuate” (in tal senso, Nigro, op. cit., 470). Secondo questa impostazione, dunque, gli amministratori in aggiunta agli obblighi di informazione preventiva sopra esaminati, sarebbero, altresì, tenuti al dovere di tenere in adeguata considerazione le informazioni acquisite e di agire in modo “coerente” alle stesse e non palesemente inopportuno rispetto alla situazione concreta (v. Briolini, op. cit., 1389; Cerrato, Organizzazione corporativa. L'organo amministrativo, in Lineamenti di diritto commerciale, a cura di Cottino, 364; Luciano, op. cit., 154 ss., il quale evidenzia come in tale accezione il concetto di “ragionevolezza” tende a coincidere con quello di “razionalità”).

Per quanto attiene al dato giurisprudenziale, è possibile distinguere tra (per una rassegna sulla giurisprudenza in materia di business judgement rule, cfr. Cesiano, L'applicazione della “Business Judgement Rule” nella giurisprudenza italiana, in Giur. Comm., 2013, II, 103 ss.):

i) sentenze ove la responsabilità degli amministratori per violazione del dovere di diligenza è prevalentemente ricostruita sulla base del criterio di prevedibilità ex ante delle conseguenze pregiudizievoli (v., ad esempio, Cass. 1783/2015, cit.; Trib. Milano, 14 gennaio 2010; Cass. n. 18231/2009; Trib. Milano, 10 febbraio 2000, cit.; App. Milano, 16 giugno 1995, in Soc., 1995, 1562 ss.);

ii) sentenze caratterizzate da un uso “ampio” del criterio di ragionevolezza quale standard di revisione giudiziale delle scelte imprenditoriali degli amministratori, ove il dovere di diligenza viene a tradursi nell'obbligo degli amministratori di agire nel rispetto dei criteri e delle regole che governano in ogni campo economico la gestione dell'impresa (v., ad esempio, Trib. Milano, 29 settembre 2016; Trib. Milano 10 giugno 2004; Trib. Milano, 2 marzo 1995);

iii) sentenze caratterizzate da un'impostazione più restrittiva, tendente a limitare l'area del sindacato giudiziale alle sole ipotesi di scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante [v., ad esempio, Trib. Milano, 27 ottobre 2011, in Soc., 2012, 97 s.; Trib. Milano, 17 giugno 2011, in Soc., 2011, 1099 ss.. Quest'ultima impostazione appare in qualche assimilabile a quella adottata dalla giurisprudenza americana in tema di “waste claims”, ove la revisione giudiziale di scelte imprenditoriale assunte “on an informed basis” è possibile, sul piano della “ragionevolezza”, solamente ove la decisione “cannot be attribueted to any rational purpose”, ovverosia, in altri termini, rappresenti “an unconscionable case where directors irrationally squander or give away corporate assets”, v. Re Walt Disney Co. Derivative Litigation, 906 A2d 27 (Del 2006); Litwin v. Allen, 25 N.Y.S. 2d 667 (Supreme Court of New York 1940)].

Merita evidenziare, infine, come, secondo una parte della dottrina, il criterio della ragionevolezza opererebbe, non solo come limite all'applicabilità della business judgement rule, ma, prima ancora, come parametro in base al quale valutare il corretto adempimento del dovere di informarsi, in termini sia di adeguatezza delle informazioni assunte nella fase istruttoria, che di coerenza della decisione adottata con il quadro informativo acquisito (cfr. Angelici, Diligentia quam in suis e business judgement rule, cit., 691 s.; Nigro, op. cit., 471; Luciano, op. cit., 155 s., il quale precisa che il criterio in esame “consente di raggiungere un apprezzabile equilibrio nel difficile tentativo di bilanciare l'esigenza di garantire l'effettivo svolgimento delle attività istruttorie e quella di non pervenire ad ipotesi di responsabilità oggettiva, che verrebbero integrate qualora si enfatizzassero eccessivamente i doveri di informazione”).

4. Venendo, da ultimo, ad approfondire le implicazioni della regola della business judgement rule sulla ripartizione dell'onere probatorio occorre, anzitutto, evidenziare come la responsabilità degli amministratori verso la società abbia natura contrattuale, in quanto derivante da inadempimenti a preesistenti obblighi giuridici, sia legali che statutari (cfr., ex multis, Stagno d'Alcontres-De Luca, Le società di capitali, in Le società, II, Torino, 2017, 652; Sanfilippo, op. cit., 515; Briolini, op. cit., 1390; Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, 2, Milano, 2015, 387; Galgano, Diritto commerciale. Le società, Bologna, 2012, 329 ss.; Franzoni, sub art. 2392, in Società per azioni. Dell'amministrazione e del controllo, Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Bologna, 2008, 420 ss.. In giurisprudenza v., tra le tante, Cass. n. 17441/2016, cit.; Trib. Milano, 5 maggio 2016; Cass. n. 24715/2015; Trib. Bologna, 16 gennaio 2015; Trib. Roma, 9 novembre 2014; Cass. n. 15955/2012; Cass. n. 9384/2011; Cass. n. 22911/2010). Dalla ricostruzione in termini “contrattuali” della responsabilità degli amministratori discende che sulla società grava esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo, invece, sul convenuto l'onere di dimostrare il corretto adempimento ai doveri ad esso imposti dalla legge o dallo statuto ovvero l'assenza di colpa ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 1218 c.c.

Se questo è vero in termini generali, occorre tuttavia evidenziare che allorquando la fonte della responsabilità consista nella violazione (non di doveri specifici bensì) di clausole e principi generali (quali, appunto, l'obbligo di agire con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle specifiche competenze) la qualifica in termini contrattuali della stessa assume scarso rilievo pratico in punto di riparto dell'onus probandi, non sussistendo particolari differenze rispetto alle regole tipiche dell'illecito aquiliano. In tali ipotesi, infatti, ai fini dell'allegazione dell'inadempimento al dovere di diligenza non è sufficiente fornire la prova “negativa” dell'inosservanza dell'obbligo specifico ma occorre dimostrare “in positivo” le circostanze in cui si è esplicata la condotta negligente, ossia, in altri termini, l'omessa adozione di tutte quelle cautele, verifiche ed informazioni che apparivano opportune nel caso specifico e che erano esigibili alla luce del canone di diligenza ex art. 2392 c.c. (Sanfilippo, op. cit., 517; Briolini, op. cit., 1391. Cfr. anche Trib. Milano, 24 agosto 2011, in Soc., 2011, 1343 s.: ”in tal caso, l'onere della prova dell'attore non si esaurisce nella prova dell'atto compiuto dall'amministratore, ma investe anche quegli elementi di contesto dai quali è possibile dedurre che lo stesso implica violazione dei doveri di lealtà o diligenza”).

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