Illegittimità del licenziamento per patto di prova nullo e regime sanzionatorio per contratto a tutele crescenti

06 Febbraio 2018

Nell'ambito di un contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, il licenziamento irrogato sulla base del mancato superamento della prova, qualora il relativo patto sia affetto da nullità per assenza di previsione scritta, integra gli estremi del recesso datoriale privo di giustificazione e soggiace al regime indennitario di cui all'art. 3, co. 1, del D. Lgs. n. 23/2015, che stabilisce il diritto del lavoratore, in difetto di giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento, ad un indennizzo risarcitorio predeterminato e parametrato all'anzianità di servizio.
Massima

Nell'ambito di un contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, il licenziamento irrogato sul presupposto del mancato superamento della prova, qualora il relativo patto sia affetto da nullità per assenza di apposita previsione scritta, integra gli estremi del recesso datoriale privo di giustificazione e soggiace al regime indennitario di cui all'art. 3, co. 1, del D. Lgs. n. 23/2015, che stabilisce il diritto del lavoratore, in difetto di giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento, ad un indennizzo risarcitorio predeterminato e parametrato all'anzianità di servizio.

Il caso

Si rivolgeva al Tribunale di Roma un lavoratore, addetto alla contabilità, licenziato per mancato superamento del periodo di prova, adducendo che, anzitutto, il rapporto di lavoro era iniziato in una fase antecedente alla sua formale instaurazione ed affermando, quindi, che il contratto di lavoro nel quale era indicato il patto di prova non era mai stato sottoscritto.

Su tali presupposti, la difesa del lavoratore affermava la nullità del patto di prova, richiamando il consolidato orientamento per cui la validità della pattuizione sulla libera recedibilità dal rapporto durante la fase iniziale di sperimentazione è subordinata, tra gli altri requisiti, alla formalizzazione per iscritto della clausola sul periodo di prova in una data anteriore o coeva (al più tardi) all'inizio effettivo dell'attività lavorativa.

Dalla nullità del patto di prova la difesa ricorrente faceva discendere la invalidità del licenziamento, con diritto alla reintegrazione in servizio e al pagamento di una indennità commisurata all'ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR con riferimento all'intervallo medio tempore non lavorato.

La società resisteva in giudizio contestando l'avversaria ricostruzione ed evidenziando che, a seguito della impugnazione del licenziamento ad opera del lavoratore, era stato precisato che le ragioni del provvedimento espulsivo andavano ricondotte ad un'assenza ingiustificata del dipendente dal posto di lavoro.

Il giudice del lavoro dava corso all'attività istruttoria, al cui esito concludeva che il lavoratore non aveva offerto la prova del precedente inizio del rapporto di lavoro rispetto alla data riportata nella lettera di assunzione, mentre la società non aveva dimostrato la pattuizione per iscritto di un periodo di prova.

Ne derivava la nullità del patto, con conseguente declaratoria di illegittimità del licenziamento per difetto di giustificazione e condanna del datore ad un indennizzo risarcitorio parametrato all'anzianità di servizio del lavoratore ed al ridotto requisito dimensionale dell'impresa (sotto le 16 unità). Ciò, in applicazione del combinato disposto degli artt. 3, co. 1, e 9 del decreto sulle tutele crescenti.

La questione

La sentenza del giudice capitolino si inserisce nel dibattito sviluppatosi in seno alla giurisprudenza di merito, tuttora frutto di contrapposte interpretazioni, sul regime sanzionatorio da applicare al licenziamento intimato nell'ambito di un rapporto di lavoro a tutele crescenti (ovvero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati a partire dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.Lgs. 4 marzo 2015 n. 23) per mancato superamento del periodo di prova, in tutti quei casi in cui la relativa pattuizione sia risultata affetta da nullità.

Prescindendosi dalla causa della nullità del patto di prova, che può consistere nella mancata o tardiva previsione per iscritto della pattuizione, così come nella insufficiente descrizione delle mansioni oggetto del periodo di prova, il dato dirimente che ha visto contrapporsi la magistratura del lavoro risiede nel regime di tutela applicabile:

  • meramente indennitaria a tutele crescenti (come previsto dal co. 1, art. 3, del D.Lgs. n. 23/2015);
  • reintegratoria e accompagnata dal risarcimento del danno (come previsto dal co. 2, medesimo articolo).

Come efficacemente segnalato nella sentenza in commento, “Con il decreto legislativo n. 23/2015 sul c.d. contratto subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti, il Governo ha dato attuazione al Job Act introducendo un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo. In base alla nuova disciplina il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto nella maggior parte dei casi a percepire esclusivamente un indennizzo economico.

Il terreno di confronto sta proprio in questo, cioè se all'invalidità del licenziamento intimato per mancato superamento della prova, laddove il relativo patto contrattuale sia colpito da nullità, si applica la sola tutela indennitaria oppure se vi è spazio per il reintegro.

La regola generale, scolpita nell'art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015, prevede che, nel caso in cui non ricorrano gli estremi della giusta causa, del giustificato motivo soggettivo o del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il lavoratore abbia diritto (unicamente) ad una indennità in misura fissa e predeterminata in funzione dell'anzianità di servizio, pari a 2 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anni di lavoro, partendo da un minimo di 4 mensilità e fino ad un massimo di 24. È esclusa la reintegrazione.

Fanno eccezione (in aggiunta alle regole dettate dall'art. 2 per il licenziamento discriminatorio) le previsioni dell'art. 3, co. 2, a norma del quale alla declaratoria di illegittimità del licenziamento conseguono il reintegro e una indennità risarcitoria, anch'essa parametrata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, fino ad un massimo di 12 mensilità, nel caso (esclusivo) in cui sia direttamente dimostrata in giustizio la insussistenza del fatto materiale oggetto della contestazione di addebiti sfociata nel provvedimento disciplinare espulsivo (giusta causa o giustificato motivo soggettivo).

Le soluzioni giuridiche

Il punto di partenza condiviso risiede nell'insegnamento della Cassazione per cui il recesso datoriale comminato sul presupposto del mancato superamento di un periodo di prova erroneamente ritenuto valido, ed invece nullo, ricade nell'ambito della disciplina limitativa dei licenziamenti e perde la sua connotazione di recesso ad nutum (più recentemente, Cass. 12 settembre 2016 n. 17921).

Ne consegue che la valutazione di legittimità va effettuata sulla scorta delle ragioni giustificatrici del licenziamento, dovendosi verificare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo).

Da qui, le opinioni divergono.

Un primo indirizzo, che ha avuto vasta risonanza, riconduce il licenziamento illegittimo per mancato superamento del periodo di prova erroneamente ritenuto valido nella sfera soggettiva del lavoratore e, quindi, lo ricollega alla assenza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo al fine di poter accedere alla tutela reintegratoria di cui all'art. 3, co. 2, del decreto sulle tutele crescenti.

È stato affermato, in proposito, che “un'interpretazione estensiva della norma (…) imposta in chiave costituzionalmente orientata, consente di ricondurre il licenziamento in esame ad una fattispecie di licenziamento per motivi soggettivi di cui è ontologica l'insussistenza, da ritenere direttamente dimostrata per la semplice considerazione che i fatti materiali su cui è basato il recesso non sono neppure stati esplicitati” (Trib. Torino 16 settembre 2016).

Si contrappone un diverso indirizzo per il quale la formulazione letterale dell'art. 3, comma 2, la quale limita l'ipotesi del reintegro al licenziamento disciplinare che poggia su fatto materiale insussistente, impedisce di estenderne l'applicazione oltre questo ambito ristrettissimo, da cui è escluso il recesso invalido in quanto ricollegato ad un patto di prova nullo (Trib. Milano 14 marzo 2017 n. 7606).

Ad ulteriore conforto, è stato segnalato che la stessa Legge delega (art. 1, comma 7, lett. c), L. 10 dicembre 2014 n. 183), da cui ha preso impulso il D.Lgs. n. 23/2015 sul contratto a tutele crescenti, ha limitato il ricorso alla reintegrazione (oltre che ai licenziamenti discriminatori o nulli) “a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”. Anche sotto questo aspetto, l'inclusione nel regime di tutela reale attenuata del licenziamento in prova che accede a pattuizione nulla non appare percorribile (Trib. Firenze 12 aprile 2017 n. 376).

Sulla scorta di questi rilievi principali, la conclusione cui perviene l'orientamento oggi numericamente prevalente, alla luce delle decisioni note, è nel senso della applicazione del regime di tutela economica crescente in funzione dell'anzianità di servizio effettiva, con un minimo di 4 mensilità, esclusa la reintegrazione.

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