Operatore sanitario deceduto in seguito a contagio da epatite C: chi risponde del danno da perdita del rapporto parentale?Fonte: L. 25 febbraio 1992 n. 210
12 Febbraio 2018
Risponde il Ministero della salute o la Asl, quale datore di lavoro, dei danni da perdita del rapporto parentale lamentati dai congiunti di un operatore sanitario deceduto in seguito a contagio da epatite C ed al quale sia già stato liquidato l'indennizzo ex lege n. 201/1992?
La l. 25 febbraio 1992 n. 210 riconosce il diritto ad un indennizzo a tutti coloro i quali abbiano riportato lesioni o infermità a causa di vaccinazioni obbligatorie ovvero che abbiano contratto infezioni da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, se da queste lesioni sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica. L'ambito di applicazione della legge è stato significativamente ampliato dalla Corte Costituzionale che, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 1 laddove non ha previsto l'indennizzo a favore:
La l. n. 210/1992 ha anche dato luogo a diversi problemi intrepretativi, su alcuni dei quali si registrano ancora contrasti giurisprudenziali. In linea di principio, la previsione di un indennizzo, cui hanno diritto – ai sensi della l. 25 febbraio 1992 n. 210 – coloro i quali abbiano subito un danno da vaccinazioni obbligatorie ovvero da trasfusione e somministrazione di emoderivati, «non preclude l'esercizio, sulla base degli usuali presupposti (fatto illecito, causalità, entità del danno), dell'azione di responsabilità aquiliana» (C. Cost. 16 ottobre 2000 n. 423). In tali casi non sembra potersi seriamente dubitare della legittimazione passiva del Ministero della salute.
Ha chiarito la Suprema Corte, infatti, che il Ministero della salute ha «un obbligo di vigilanza tecnica, di controllo specifico e di direttive tecniche (obbligo anche strumentale alle funzioni ed ai compiti del Dicastero di programmazione e coordinamento in materia sanitari), tale da renderlo responsabile dei singoli casi di contagio e di gravi malattie (per assunzione di sangue o di emoderivati non sottoposti ad adeguato, preventivo controllo)» (Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008 n. 581).
Prosegue la Corte precisando che «l'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi» (Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008 n. 581). Su queste premesse, la giurisprudenza di merito ha affermato la legittimazione passiva del Ministero che sia stato evocato in giudizio da chi abbia subito danni da vaccinazioni obbligatorie o trasfusione di emoderivati (Trib. Roma 30 agosto 2005; Trib. Milano 23 giugno 2001 n. 8501).
In particolare, si è ritenuta «evidente la piena legittimazione passiva del Ministero convenuto, considerata la perfetta coincidenza tra soggetto titolare degli obblighi di controllo, vigilanza e direttiva su sangue ed emoderivati – la cui violazione è posta dalle parti attrici alla base delle loro richieste risarcitorie – e soggetto convenuto in giudizio» (Trib. Catanzaro 19 maggio 2011).
Tanto premesso, c'è da chiedersi se alla concreta fattispecie (malattia contratta da un operatore sanitario) possano applicarsi i principi sopra richiamati ovvero se questa faccia eccezione in considerazione del fatto che a subire il contagio è stato un dipendente della struttura sanitaria, la quale – quindi – dovrebbe rispondere del danno in via esclusiva quale datore di lavoro. Ebbene, almeno due argomenti sembrano militare a favore della legittimazione passiva del Ministero, se ad agire sono i congiunti del lavoratore deceduto per il ristoro del danno iure proprio.
Innanzitutto, l'eventuale responsabilità contrattuale dell'Azienda ospedaliera non escluderebbe la responsabilità extracontrattuale del Ministero. Ciò perché, per consolidata giurisprudenza, «se un unico evento dannoso è imputabile a più persone, al fine di ritenere la responsabilità di tutte nell'obbligo risarcitorio, è sufficiente, in base ai principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dell'evento -dei quali, del resto, l'art. 2055 costituisce un'esplicitazione-, che le azioni od omissioni di ciascuno abbiano concorso in modo efficiente a produrlo» (Cass. civ., sez. I, sent. 12 dicembre 2013 n. 27875).
In secondo luogo, la causa dell'evento pregiudizievole, e cioè la lesione del rapporto parentale, sarebbe da ricercare non già nel rapporto di lavoro dipendente, che costituirebbe una mera occasione, bensì proprio nella violazione, da parte del Ministero, di quegli obblighi di vigilanza che la legge prescrive in materia di emoderivati. E ciò conformemente a quell'orientamento giurisprudenziale secondo il quale «la domanda di risarcimento dei danni proposta iure proprio – cioè quali soggetti estranei al rapporto di lavoro – dai congiunti del lavoratore deceduto, anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente ex art. 2087 c.c., trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., rappresentando il rapporto di lavoro la mera occasione della responsabilità» (Cass. civ., sez. III, sent., 22 ottobre 2014 n. 22333).
A maggior ragione, dunque, costituirà mera occasione il rapporto lavorativo quando l'azione sia promossa dai congiunti della vittima nei confronti di un soggetto terzo (rispetto al datore di lavoro) al quale si ascrivano le conseguenze pregiudizievoli di determinate azioni e/o omissioni: e ciò anche se queste abbiano inciso sulla regolare esecuzione di un contratto di lavoro.
In definitiva, se i congiunti della vittima deducessero la responsabilità del Ministero per avere violato gli «obblighi di controllo, vigilanza e direttiva su sangue ed emoderivati», l'amministrazione evocata in giudizio non potrebbe sottrarsi ad una statuizione nel merito eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva.
Meritano, infine, di essere brevemente tratteggiate altre due questioni ancora piuttosto controverse. In particolare, poiché – come detto – la liquidazione dell'indennizzo previsto dalla l. n. 210/1992 non preclude al danneggiato l'ordinaria azione giudiziaria per fare valere la responsabilità da fatto illecito dello Stato e per conseguire l'integrale risarcimento dei danni, la giurisprudenza e la dottrina si sono divise sul diritto del danneggiato di cumulare indennizzo e risarcimento.
Secondo un orientamento, dall'ammontare complessivo delle somme liquidate a titolo di risarcimento il Giudice deve detrarre l'indennizzo già corrisposto al danneggiato, trovando applicazione il principio della “compensatio lucri cum damno” (App. Palermo 23 aprile 2017 n. 767; App. Roma 6 aprile 2017; App. Torino 11 aprile 2016 n. 7180. Critica questa impostazione BENNI DE SENA A., Responsabilità sanitaria da emotrasfusione: rapporto tra risarcimento del danno e indennità ex l. n. 210/1992, in Ridare.it); di diverso avviso la più recente Cassazione, la quale ha invece affermato che «in tema di risarcimento del danno da illecito, il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, sicché non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all'invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall'atto illecito e non hanno finalità risarcitorie» (Cass. civ., sez. III, sent., 30 settembre 2014 n. 20548).
Altrettanto problematica è l'individuazione del momento dal quale comincia a decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
Se infatti non pare potersi dubitare del fatto che il diritto si prescrive in cinque anni perché «in difetto di contatto sociale tra l'amministrazione e i singoli individui sottoposti a trasfusione di sangue, la responsabilità del ministero della salute per i danni conseguenti alle infezioni contratte da questi ultimi è di natura aquiliana» (Cass. civ., sez. III, sent., 3 maggio 2016 n. 8644; Trib. Bari 15 luglio 2016 n. 3965), minori certezze vi sono non tanto sulla decorrenza in astratto quanto nello stabilirlo in concreto.
Per consolidata giurisprudenza, il dies a quo «non può coincidere con il giorno in cui l'evento determina la modificazione causativa del danno o con il momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì con quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche» (Cass. civ., sez. III, sent., 3 maggio 2016 n. 8645).
La concreta applicazione di questi principi, però, non è sempre agevole.
Se, infatti, ben difficilmente si può separare l'exordium praescriptionis dal momento in cui è stata presentata la domanda amministrativa per la liquidazione dell'indennizzo previsto dalla l. n. 210/1992 (Cass. civ., sez. VI, ord., 10 dicembre 2014 n. 25964; Trib. Brescia 3 novembre 2017 n. 3160), non necessariamente il termine di prescrizione inizia a decorrere quando la vittima abbia avuto contezza del contagio all'esito di esami di laboratorio: ha ritenuto la Suprema Corte, infatti, che «la mera conoscenza della malattia da parte della ricorrente, in mancanza di una enunciazione, anche solo come possibile, da parte della struttura ospedaliera che effettuò la diagnosi, della possibile ascrivibilità del contagio alla sottoposizione ad una trasfusione, non era elemento giustificativo della conoscenza o conoscibilità della detta ascrivibilità» (Cass. civ., sez. III, sent., 22 settembre 2017 n. 22045); in un altro caso la Cassazione ha escluso che potesse desumersi la consapevolezza del contagio da sangue infetto da parte dei genitori di una bambina talassemica costretta sin dalla nascita a continue emotrasfusioni (Cass. civ., sez. III, sent., 3 maggio 2016 n. 8645)
È necessario precisare infine che, se la domanda al ministero della salute per ottenere la liquidazione dell'indennizzo fa presumere la percezione o percepibilità della malattia quale pregiudizio derivante dal fatto illecito, «l'erogazione dell'indennizzo previsto dalla l. 25 febbraio 1992, n. 210, non integra, né ai fini dell'interruzione della prescrizione, né a quelli di una rinuncia anche implicita ad avvalersene, un riconoscimento - da parte dello Stato - del diritto al risarcimento del danno preteso da colui che ha patito lesioni a seguito di emotrasfusioni non sicure, in quanto detta erogazione comporta l'ammissione della sussistenza di fatti e circostanze riconducibili al solo elemento oggettivo della più ampia fattispecie risarcitoria azionata dal danneggiato, ma non si estende anche all'elemento soggettivo» (Cass. civ., sez. VI, ord., 8 ottobre 2014 n. 21257).
Per maggiori approfondimenti, si rinvia a: ROSADA F., Danno lungolatente e prescrizione del diritto risarcitorio, in Ridare.it (1 settembre 2016); ROSSETTI M., Danno da emotrasfusione ed emoderivati, in Ridare.it (18 aprile 2014); SCOZIA A., L'indennizzo da emotrasfusione e vaccinazioni obbligatorie, in Ridare.it (13 marzo 2015). |