Legge di Bilancio 2018: la mini riforma in tema di governance e vigilanza sulle cooperative

15 Febbraio 2018

La Legge di bilancio 2018 introduce, al comma 936, alcune significative modifiche alla disciplina giuridica delle società cooperative. Le prime riguardano alcuni profili in punto governance attraverso l'introduzione dell'obbligatorietà dell'organo amministrativo collegiale per tutte le società cooperative ed il limite di un mandato per gli amministratori delle società costituite in forma di s.r.l. Altre modifiche concernono, invece, alcuni aspetti della vigilanza intesi a rendere più effettivi e pregnanti i controlli sull'operato delle cooperative.
Premessa

La Legge di bilancio 2018 introduce, al comma 936, alcune significative modifiche alla disciplina giuridica delle società cooperative. Le prime riguardano alcuni profili in punto governance attraverso l'introduzione dell'obbligatorietà dell'organo amministrativo collegiale per tutte le società cooperative ed il limite di un mandato per gli amministratori delle società costituite in forma di s.r.l. Altre modifiche concernono, invece, alcuni aspetti della vigilanza intesi a rendere più effettivi e pregnanti i controlli sull'operato delle cooperative, in particolare di quelle considerate dall'Alleanza delle Cooperative Italiane, come “false”.

Il perché della mini-riforma

Gli studiosi e gli operatori del diritto sono ormai abituati alle sorprese contenute nei provvedimenti monstre del tipo “Legge di bilancio”. A volte le sorprese sono belle, a volte meno belle: quello che più rileva è però ancora una volta, attesa la loro collocazione al fianco di disposizioni le più disparate, la loro disorganicità che spesso fa perdere di vista non solo la ratio ma talvolta anche la loro stessa occasio legis.

Questo è il caso dell'art. 1, comma 936, della Legge di bilancio per il 2018 (legge 27 dicembre 2017, n. 205, in G.U. n. 302 del 29 dicembre 2017) che contiene alcuni correttivi, non di poco conto, alla disciplina delle società cooperative, sia quella codicistica che quella in tema di vigilanza. Il perché di un intervento siffatto è noto: quello di tentare di stroncare il fenomeno distorsivo, insidioso e a volte contrario agli stessi principi internazionalmente codificati, delle cooperative “spurie”, o per dirla secondo la campagna lanciata dall'Alleanza delle Cooperative Italiane, delle “false” cooperative. L'organizzazione in parola, che raccoglie la più gran parte di ”autentiche” cooperative affiliate al movimento (oltre il 90% in termini di soci, di occupati e di fatturato), aveva varato, a metà 2016, anche a seguito dello scandalo che va sotto il nome di “Roma capitale”, una proposta di legge di iniziativa popolare (in Gazzetta Ufficiale n. 88 del 16 aprile 2015 – Disposizioni per il contrasto alle false cooperative) che avrebbe avuto lo scopo di stroncare alla radice il fenomeno, attraverso una serie di misure incidenti sulle revisioni, in sede di cancellazione delle società che si fossero sottratte alle revisioni/ispezioni, sui controlli in particolare nei confronti delle società operanti in settori a rischio – intensificandoli -, e sul controllo giudiziario. Grazie al pressante lavoro di lobbying delle maggiori organizzazioni cooperative ed alle significative prese di posizione dei massimi dirigenti dell'Alleanza (v. nota di Maurizio Gardini, Presidente di Alleanza, in Corriere della Sera del 21 dicembre 2017, 37), la proposta ha trovato attuazione, ma solo parziale, attraverso il comma in parola.

Lo stesso comma 936, da considerarsi nella prima parte come un vero e proprio programma recita che: “Al fine di contrastare l'evasione fiscale e agevolare l'accertamento e la riscossione da parte dell'Agenzia delle Entrate, mediante il potenziamento del sistema di vigilanza nei confronti delle società cooperative e delle sanzioni per il mancato rispetto del carattere mutualistico prevalente….”: esso si compone di due parti, la prima concernente appunto i controlli di tipo pubblicistico (ma non solo) e la seconda, di diritto sostanziale, portante modifica di due articoli del codice civile in tema di governance.

Le disposizioni in tema di governance. Lo stato dell'arte ante Riforma del 2003. E a seguito della Riforma

Per ragioni di tipo sistematico si darà conto dapprima della seconda parte, in quanto estranea alla proposta di legge di iniziativa popolare (anche se, a detta del Governo , si muoverebbe nella stessa direzione).

Essa è condensata alla lettera b) che recita: «all'articolo 2542 del codice civile, dopo il primo comma è inserito il seguente: “L'amministrazione della società è affidata ad un organo collegiale formato da almeno tre soggetti. Alle cooperative di cui all'art. 2519, secondo somma, si applica la disposizione prevista all'art. 2383, secondo comma”».

Il tema della governance sul fronte del più ampio coinvolgimento di soci e stakeholders nella gestione e nel controllo, ha subito in questi ultimi tempi enormi sviluppi. Il legislatore della Riforma del 2003 ha inciso sicuramente in più parti.

Due profili in particolare hanno formato oggetto di discussione. Il numero degli amministratori e la durata del loro mandato. Ante Riforma lo stato dell'arte era il seguente. La disciplina delle società cooperative, seppur per tanti versi speciale (non per nulla l'art. 2517 c.c. ne costituiva il perno) era modellata essenzialmente su quella della società per azioni per cui il consiglio di amministrazione, potremmo dire invariabilmente tale, era costituito da un numero minimo di tre soci (qualunque fosse il numero dei componenti la compagine sociale), tutti rivestenti la qualifica di socio ed il cui mandato indefettibilmente scadeva con il decorso del triennio dall'insediamento (e salvo rinnovo per eguale periodo di tempo, cosa che nelle grandi cooperative di consumo e di produzione e lavoro, governate dalle tecnostrutture, era pressoché la regola). Si tendeva ad escludere la possibilità che ad amministrare la società cooperativa fosse un solo soggetto/amministratore unico perché ciò avrebbe significato rendere possibile l'applicazione della disciplina delle società a responsabilità limitata e secondo taluni andare contro le stesse prassi internazionalmente riconosciute (ed in larghissima misura adottate dai paesi di più consolidata tradizione cooperativa) (peraltro v'era autorevole dottrina che riteneva possibile affidare l'amministrazione ad un solo socio: così V. BUONOCORE, Diritto della cooperazione, Bologna, 1997, 275). Non va dimenticato che quelli erano gli anni in cui si cominciavano ad affermare piccoli organismi cooperativi (che trovarono invero esplicito riconoscimento normativo all'art. 21, legge 7 agosto 1997, n. 266) e che crescenti erano le tensioni per l'introduzione di un organismo di gestione molto più snello ed auspicabilmente monocratico.

Questo essendo lo stato dell'arte, come intese muoversi il legislatore della Riforma? Premesso che in base al novellato art. 2519 c.c. la disciplina residuale non era soltanto più quella in tema di s.p.a. (“Alle società cooperative, per quanto non previsto nel presente titolo, si applicano in quanto compatibili le disposizioni sulla società per azioni": comma 1) bensì anche quella in tema di s.r.l. (“L'atto costitutivo può prevedere che trovino applicazione, in quanto compatibili, le norme sulla società a responsabilità limitata nelle cooperative con un numero di soci cooperatori inferiore a venti ovvero con un attivo dello stato patrimoniale non superiore ad un milione di euro”), la norma contenuta all'art. 2542 c.c. così disponeva post Riforma: “La nomina degli amministratori spetta all'assemblea fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati nell'atto costitutivo e salvo quanto disposto nell'ultimo comma del presente articolo. – La maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori ovvero tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche. - Nelle società cooperative cui si applica la disciplina delle società per azioni, l'atto costitutivo stabilisce i limiti al cumulo delle cariche e alla rieleggibilità degli amministratori nel limite massimo di tre mandati consecutivi. – L'atto costitutivo può prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie dei soci, in proporzione all'interesse che categoria ha nell'attività sociale. In ogni caso, ai possessori di strumenti finanziari non può essere attribuito il diritto di eleggere più di un terzo degli amministratori. – La nomina di uno o più amministratori può essere dall'atto costitutivo allo Stati o ad enti pubblici. In ogni caso, la nomina della maggioranza degli amministratori è riservata all'assemblea”.

Il comma 3 venne, come noto, soppresso dal D. Lgs. n. 310/2004, il provvedimento portante integrazioni e correttivi alla Riforma del diritto societario.

Il profilo del numero degli amministratori (se organo monocratico o collegiale) non trovava, quindi, espressa trattazione (la stessa relazione alla Riforma non apportava alcun argomento in merito). La dottrina si era affaticata a rispondere al quesito e la risposta che veniva data era per lo più quella che la legge non escludeva la possibilità che l'organo amministrativo fosse monocratico, sul presupposto che nulla lasciasse intendere che vi fosse nel sistema una qualche preclusione in tale direzione.

A parte il fatto che chi propendeva per l'ammissibilità in cooperativa di simile organo di gestione, precisava che il socio Presidente/Amministratore avrebbe dovuto necessariamente essere socio, v'era anche chi operava un distinguo fra cooperativa in forma di società per azioni e cooperativa in forma di società a responsabilità limitata. Soltanto in questo secondo caso si reputava ammissibile la presenza di un solo amministratore.

In effetti, l'analisi della disciplina riformata così come del resto la lettera della legge, non parevano fornire argomenti nel senso dell'imporre l'organo collegiale. Il riconoscimento, del resto, operato dal legislatore del 1997 (art. 21 sopra citato), della possibilità di svolgere un'impresa cooperativa anche da parte di compagini sociali ridotte nel numero, al di sotto della fatidica soglia di nove, portava nuovamente acqua al mulino della tesi della ammissibilità di un organo monocratico. A nulla rilevando a questo proposito la circostanza che la Riforma avesse segnato la morte della piccola società cooperativa (art. 111-septies disp. att. c.c.) perché essa era praticamente “rinata” seppur con dimensioni un poco maggiori, laddove il legislatore consentiva di costituire cooperative in numero minimo di tre (ma non oltre otto) in forma di società a responsabilità limitata. In altre parole l'ingresso a pieno titolo nel nostro ordinamento di una società cooperativa per così dire minima in forma di società a responsabilità limitata forniva ancora una volta argomenti nel senso di legittimare quanto meno per detto tipo di società, l'esistenza di un organo monocratico.

Pareva quindi assodato, una volta entrata un vigore la Riforma, che fosse possibile, e non solo in cooperative di più ridotte dimensioni, prevedere un organo monocratico di gestione della società, non solo nelle “piccole” perché tali a sensi dell'art. 2522 comma 2 c.c., ma anche in quelle per così dire “grandi”, che avessero cioè un numero di soci pari a nove ed indipendentemente dalla forma giuridica adottata.

Va detto che simile tesi, assolutamente maggioritaria e non contrastata dalla lettera della norma (ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus) e dal contesto più generale in cui venne proiettata la Riforma nella parte riferita alle società cooperative, non era in piena sintonia con la cooperativa quale ente a forte base associativa e quale strumento di attivazione imprenditoriale della categoria sociologica di riferimento. La cooperativa non è solo un'impresa autogestita ma possiede valori propri che esaltano il suo ruolo di traino di economie deboli, di sviluppo economico dell'intorno e financo della comunità dove opera, che si muove inoltre in una logica intercooperativa e quindi anche di crescita dell'intero comparto. E quindi presupporrebbe che anche l'amministrazione rifletta questi valori non essendo esso un organo meramente esecutivo di volontà assembleari ma momento di valutazione e di sintesi di iniziative imprenditoriali consapevolmente adottate e gestite.

Anche se non va dimenticato che talvolta le legislazioni, spesso quelle promozionali (nei paesi in via di sviluppo, in particolare) o di incentivazione alla ripresa economica, hanno visto nelle piccole cooperative uno strumento efficace per favorire la creazione di imprese anche in realtà economiche molto modeste. Appariva scontato in quelle situazioni che a ridotte dimensioni dell'impresa e della compagine associativa corrispondessero organi di amministrazione molto più snelli perché in realtà esecutivi di una volontà assembleare che andava assommando in sé i ruoli di organo di programmazione, di controllo e di gestione. Di questo era del resto ben consapevole il legislatore del 1997 laddove prevedeva al comma quarto dell'art. 21 che “Nella piccola società cooperativa, se il potere di amministrazione è attribuito all'assemblea, è necessaria la nomina del presidente, al quale spetta la rappresentanza legale”.

Sparita con la Riforma la piccola società cooperativa, ma rinata dalle sue ceneri nella forma di società cooperativa a responsabilità limitata con un minimo di tre ed un massimo di otto soci, l'esigenza di continuare a prevedere un organo di amministrazione monocratico, permaneva, e di questo si ritiene che fosse ben consapevole il legislatore della Riforma.

Il perché della mini-riforma. Organo necessariamente collegiale composto di almeno tre soci e limite al numero di mandati

Senonché nel silenzio della legge al riguardo, ma stante la possibilità di costituire società cooperative in forma di società per azioni e di società a responsabilità limitata con un numero di soci anche superiore a quello minino fissato all'art. 2522 c.c., la figura del Presidente o Amministratore Unico, con il conforto della dottrina, finì con l'essere sempre più utilizzata, in particolare da quegli enti di cooperativo avevano, ed hanno, poco e cioè le “false” cooperative.

Queste sono state le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2018 ad invertire la rotta, sul presupposto, peraltro ad avviso di chi scrive indimostrato, che in questo modo si può garantire una maggiore trasparenza ed inasprire le sanzioni in caso di ostacolo o di sottrazione all'attività di vigilanza.

Ne consegue anzitutto che viene, oggi, espressamente esclusa la previsione di un organo monocratico di gestione nelle cooperative, qualunque sia la forma giuridica di riferimento (s.p.a. o s.r.l.) e qualunque siano le sue dimensioni (sia infra – ma non inferiore a tre - che oltre i nove soci). La lettera della legge è chiara e non si intravedono scappatoie interpretative di segno diverso. Per le cooperative, quindi, si prescinde dalle dimensioni e dalla forma giuridica assunta: la regola è ormai quella del consiglio di amministrazione, organo collegiale, “formato da almeno tre soggetti”, ed essa non può soffrire eccezioni per volontà dei soci.

Nelle s.r.l., inoltre, ma solo in quelle dell'art. 2519 comma 2, c.c., che hanno cioè un numero di soci inferiore a venti ovvero un attivo dello stato patrimoniale non superiore ad un milione di euro (criteri ritenuti pacificamente alternativi) si applica la disposizione di cui all'art. 2383 comma 2, dettata in tema di s.r.l., secondo cui – e qui si è andata recuperando la vecchia disposizione del comma 3 dell'art. 2542 - gli amministratori non possono essere nominati per più di tre esercizi. Il che lascia intendere che, invece, per le cooperative in forma di s.r.l. che fuoriescono dai parametri di cui all'art. 2519 comma 2, il limite in parola ben può essere superato, così come oggi non vi sono preclusioni di sorta per il rinnovo della carica di tre esercizi in tre esercizi per gli amministratori di società cooperativa in forma di società per azioni.

Che dire di questa scelta legislativa? Anzitutto non si comprende del tutto la finalità del nuovo art. 2542 c.c., se questo viene letto insieme alle norme di cui infra, intese a debellare il fenomeno delle “false cooperative”. La ratio della nuova disciplina, che non venne sollecitata dalla Centrali cooperative, parrebbe risiedere nella volontà di rafforzare la partecipazione dei soci ai processi decisionali per evitare che l'affidamento della gestione ad un organo monocratico favorisca comportamenti illegittimi o non in linea con i caratteri mutualistici dell'impresa. L'organo monocratico può agevolare la commissione di abusi da parte di “false cooperative” società, ma non è detto né in fatto né in diritto che l'organo collegiale ne sia, in teoria, immune. Del resto impedire a società di più ridotte, se non minime, dimensioni anche quanto a volume di affari, di prescegliere o di continuare ad usare l'organo monocratico, parrebbe irragionevole proprio per le struttura e la dinamica decisionale di simili enti. Si badi, appunto, che la scelta legislativa prescinde come detto dalla forma giuridica e dalle dimensioni della società.

Ora se per un verso è più facile che il fenomeno distorsivo trovi terreno fertile in società, magari costituite ad hoc, di minori dimensioni è altrettanto vero che in una cooperativa di meno di nove soci ma di almeno tre, tutte persone fisiche, o comunque con un numero di soci inferiore a venti, strutturate in forma di s.r.l., l'obbligo, d'ora in poi, della presenza di un organo amministrativo collegiale, pare sproporzionata rispetto ad un ente in cui amministrazione e controllo si esplicano spesso collegialmente. Senza contare tutte le formalità legate alla presenza di un organo collegiale (convocazioni, delibere, tenuta dell'apposito libro, etc) soprattutto laddove esso si risolve nella mera, formale presenza di due soggetti aggiuntivi quando in effetti l'amministrazione è nelle mani, consapevoli, di una sola persona che è anche il rappresentante pro-tempore della società. Ed ancora il fenomeno delle tecnostrutture, con il tendenziale perpetuarsi di stabili maggioranze in assemblea e di un ristretto cerchio di persone altrettanto ristretto nelle “stanze dei bottoni”, è fenomeno limitato alle grandi società (cooperative di consumo e di produzione e lavoro), in forma di società per azioni e non invece delle minori, e cioè di più ridotte dimensioni quanto a numero di soci e volume d'affari.

Così come non è più consentita la nomina di un amministratore unico nella società cooperative, nemmeno può dirsi compatibile con il nuovo sistema la nomina di un organo amministrativo nominato a tempo indeterminato (prassi ben affermatasi nelle società strutturate come società a responsabilità limitata). Per le società in forma di società per azioni il problema era forse di minore rilevanza anche se era anche diffusa in questi enti la previsione di un consiglio di amministrazione di tipo collegiale ma composto di soli due membri.

Pare quindi che, tutto sommato, la mini-riforma del 2018 non colga nel segno quanto ad obbligatorietà dell'organo collegiale per tutte le società cooperative. Senza poi contare che si pone un problema di adeguamento degli statuti, laddove fosse stata esplicitata la forma “organo monocratico”, che il legislatore purtroppo non si è posto. In assenza di preciso termine, contenuto in norma transitoria, si deve ritenere che le società si dovranno adeguare quanto prima, con assemblea straordinaria, al nuovo quadro normativo.

La disposizione in tema di limite ai mandati

La seconda parte della norma, invece, riguarda, questa sì, il fenomeno del perpetuarsi alla guida della società dello stesso gruppo di comando. Prassi che, se reiterata, metterebbe a repentaglio gli stessi principi cooperativi .

Si è già visto che il legislatore del 2004 aveva abrogato il comma 3 dell'art. 2542 c.c. (previgente formulazione) laddove statuiva che “Nelle società cooperative cui si applica la disciplina delle società per azioni, l'atto costitutivo stabilisce i limiti al cumulo delle cariche e alla rieleggibilità degli amministratori nel limite massimo di tre mandati consecutivi”. La disposizione era intesa a fissare un limite ai mandati, oltre i quali l'amministratore non poteva essere rieletto. Ed era stata pensata proprio con riferimento alle cooperative di maggior dimensioni, in forma di s.p.a., al fine di evitare il fenomeno del perpetuarsi delle tecnostrutture; e questo nella stretta osservanza dei principi cooperativi. La ratio di tale disposizione, nonostante le perplessità della dottrina, riposava sulla stessa natura della società cooperativa e sul rigoroso rispetto dei principi o valori cooperativi internazionalmente riconosciuti. Il maggior numero di soci con la correlata loro difficoltà di far valere strumenti di controllo sull'operato di un organo amministrativo che si perpetuava nel tempo, giustificava simile disposizione nell'interesse stesso della funzionalità cooperativa dell'ente e della necessità di maggior trasparenza e condivisione, anche se solo ex post, delle scelte amministrative. A seguito di pressioni nemmeno poi tanto velate delle grandi società cooperative, simile disposizione venne soppressa dal legislatore del 2004 (art. 29 D. Lgs n. 310/2004): da allora, come ancora oggi, ad esito dell'ultimo provvedimento correttivo, per le società cooperative in forma di s.p.a. non vi sono limiti al cumulo di cariche e alla rieleggibilità degli amministratori.

I limiti sono stati, invece, espressamente introdotti per le cooperative in forma di s.r.l. laddove la legge richiama il disposto dell'art. 2383, comma 2, c.c. a termini del quale “Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi , e scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo all'ultimo esercizio della loro carica”.

La norma in parola è espressione dell'orientamento secondo il quale gli amministratori sono nominati per esercizio di impresa e pertanto scadono con l'approvazione del bilancio dell'ultimo esercizio in cui hanno svolto il loro mandato (Cass., n. 12820/1995). Trattasi di norma di carattere imperativo, con il che il termine triennale è inderogabile verso l'alto. Ovviamente gli amministratori ben possono essere rieletti, in difetto di diversa disposizione dello statuto.

C'era necessità di introdurre simile disposizione nel corpo dell'art. 2542 c.c.? La domanda non è retorica perché in effetti il rischiamo alla disciplina della s.r.l. per le cooperative di cui all'art. 2519 comma 2, era e sempre è stato considerato, come generale e quindi non limitato a particolari materie. Anche se per il vero vi sono state discussioni sul se fosse possibile, o meno, l'applicazione di certe norme di detta disciplina ma in tema più generale di governo. Più in particolare si discuteva se fosse possibile la nomina di amministratore non socio. Ma invero non venne mai messa in discussione l'applicabilità del secondo comma dell'art. 2383 c.c., così come del resto dell'intero articolo. Sta di fatto che la sua espressa introduzione nel corpo dell'art. 2542 c.c. per un verso chiarisce la portata della norma quanto alla disciplina delle società cooperative in forma di società per azioni confermando la ratio della legge del 2004 e per altro stabilisce un criterio oggettivo, immutabile, quanto alla portata del disposto del secondo comma dell'art. 2383, che fa ingresso a pieno titolo nell'art. 2342 eliminando alla radice altri diverse chiavi di lettura della norma.

I correttivi all'art. 2545-sexiesdecies c.c.

Vengono, inoltre, apportati correttivi all'art. 2545-sexiesdecies c.c. Essi si pongono su due livelli. Quello di una migliore qualificazione degli interventi dell'autorità di vigilanza, che adesso si esplica non in casi di “irregolare funzionamento” ma di “gravi irregolarità di funzionamento e di fondati indizi di crisi”, e di una migliore definizione dell'iter conseguente all'accertamento di semplici irregolarità “suscettibili di specifico adempimento”.

Sotto il primo profilo va detto che l'irregolare funzionamento veniva in precedenza letto in chiave di irregolarità aventi carattere continuativo, e quindi sistematico, in un'ottica di mancato adeguamento per colpevole inerzia, alle indicazioni fornite dall'autorità di controllo che, non si dimentichi, ha una funzione tutoria nei confronti delle società (giustificata dall'art. 45 Cost.). Oggi, anzitutto, l'espressione “gravi irregolarità di funzionamento”, ponendo l'accento su “gravi”, tende a creare i presupposti per l'adozione dei provvedimenti di cui al primo comma (revoca degli amministratori con affidamento della gestione della società ad un commissario) mentre “fondati indizi di crisi” (nella prospettiva dell'adozione di analoghi provvedimenti) sembra racchiudere in sé non solo e non tanto situazioni di pre-insolvenza, ma anche e soprattutto comportamenti degli organi amministrativi o di controllo che ingenerino il ragionevole sospetto che le dinamiche all'interno della società possano sfociare in crisi da mancato rispetto della disciplina in tema di società cooperative (secondo la prospettiva, appunto, di “sanzionare” le false cooperative).

L'aggiunta, invece, del quarto comma - e qui veniamo al secondo profilo - porta a reprimere irregolarità sanabili perché “suscettibili di specifico adempimento”, attraverso la nomina di un commissario (n.d.r.: ad acta) “che si sostituisce agli organi amministrativi dell'ente, limitatamente al compimento degli specifici adempimenti indicati” dall'autorità di vigilanza. Il commissario può essere nominato anche nella persona del legale rappresentante (rectius: rappresentante pro-tempore) o di un componente dell'organo di controllo della società.

La tipologia di irregolarità che ricomprende ora la norma, così come integrata, porta a ritenere che il legislatore abbia voluto seguire un doppio livello di percorso o di scala di interventi, tendente il primo a correggere l'operato della società cooperativa (comma quarto) ed il secondo, in presenza di gravi irregolarità, a revocare gli amministratori, con la nomina di un commissario, determinandone i poteri e la durata. Non sono state invece raccolte le ulteriori indicazioni che provenivano dalla proposta di legge di iniziativa popolare avanzata dalla Alleanza delle Cooperative Italiane in tema di revisioni e di miglior coordinamento tra pubbliche amministrazioni.

Più in generale in tema di riforma della disciplina della vigilanza

Il provvedimento che qui si commenta opera poi su un altro piano, quello della vigilanza, già riformata, come noto, attraverso il D.Lgs. n. 220/2002, che aveva introdotto nell'ordinamento la nuova disciplina in tema di vigilanza degli “enti cooperativi” (tali essendo non solo le società cooperative ed i loro consorzi, ma anche i gruppi cooperativi ex art. 5, comma 1, lett. f) L. n. 366/2001, le società di mutuo soccorso e gli enti mutualistici di cui all'art. 2512 c.c., i consorzi agrari e, all'epoca, le piccole società cooperative), in larga misura sostitutiva della gloriosa legge Basevi, ovverosia il Decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, per l'esattezza agli artt. da 1 a 7, all'art. 9 ed agli artt. da 13 a 16.

La vigilanza, quale corollario indefettibile dell'art. 45 Cost., è posta a tutela del rispetto e dell'osservanza del principio ivi contenuto (“La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”: comma 1). La legge, storicamente e vieppiù dopo il 1947, “ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e la finalità” (comma 2). La vigilanza quale forma di controllo di natura pubblicistica (“opportuni controlli”) fa quindi in modo che la cooperazione mantenga “il carattere e la finalità” sanciti nel primo comma. Come del resto conferma il comma 2 dell'art. 1 del D. Lgs. n. 220/2002, “è finalizzata all'accertamento dei requisiti mutualistici”, a far si cioè, attraverso gli opportuni controlli ivi disposti (revisione cooperativa e ispezione straordinaria), che le cooperative non tralignino dal carattere e finalità disegnati all'art. 45 Cost.

Il provvedimento di fine 2017 incide sull'art. 12, e cioè sui provvedimenti individuati nel titolo rubricato “Effetti della vigilanza”. Il Ministero a cui è attribuita la vigilanza, il Ministero delle attività produttive, sulla base delle risultanze emerse in sede di vigilanza, può adottare i seguenti provvedimenti:

a) cancellazione dall'albo nazionale degli enti cooperativi;

b) gestione commissariale ai sensi dell'art. 2543 c.c. (oggi 2545 sexiesdecies);

c) scioglimento per atto dell'autorità ai sensi dell'art- 2544 c.c. (oggi 2545-septiesdecies);

d) sostituzione del liquidatori ai sensi dell'art- 2545 c.c. (oggi 2545-octiesdecies);

e) liquidazione coatta amministrativa ai sensi dell'art. 2540 c.c. civile (oggi 2545-terdecies, sino a quando non verrà introdotta la riforma delle procedure concorsuali che sopprimerà detta particolare forma di liquidazione riservata sin qui principalmente agli enti pubblici ed alle società cooperative).

Per rendere effettiva l'irrogazione delle sanzioni in questione sono stati sostituiti i commi 3, 5-bis e 5-ter dell'art. 12.

Il comma 3 aveva la seguente formulazione: “Gli enti cooperativi che si sottraggono all'attività di vigilanza o non rispettano le finalità mutualistiche sono cancellati, sentita la Commissione centrale per le cooperative, dall'albo nazionale degli enti cooperativi”. Oggi lo stesso comma suona così: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 2638, secondo comma del codice civile, gli enti cooperativi che si sottraggono all'attività di vigilanza o non rispettano le finalità mutualistiche sono cancellati, sentita la Commissione centrale per le cooperative, dall'albo nazionale degli enti cooperativi. Si applica il provvedimento di scioglimento per atto dell'autorità ai sensi dell'articolo 2545-septiesdecies del codice civile e dell'art. 223-septiesdecies delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 30 marzo 1942, n. 318, con conseguente obbligo di devoluzione del patrimonio ai sensi dell'articolo 2514, primo comma, lettera d) del codice civile”. La legge introduce, quindi, espressamente la particolare procedura prevista dal codice civile in tema di scioglimento per atto dell'autorità, così come congegnata dalla speciale norma delle disposizioni di attuazione; ferma restando la responsabilità penale di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione di documenti contabili, sindaci o liquidatori a mente della disposizione del codice civile in tema di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638 c.c.). Trattasi, in buona sostanza, dell'art. 1 della proposta di legge di iniziativa popolare.

Il comma 5-bis (introdotto con la legge 23 luglio 2009, n. 99) prevedeva che “Agli enti cooperativi che senza giustificato motivo non ottemperano, entro il termine prescritto, anche parzialmente alla diffida impartita in sede di vigilanza, salva l'applicazione di ulteriori sanzioni, è irrogata la sanzione della sospensione semestrale di ogni attività dell'ente, intesa come divieto di assumere nuove eventuali obbligazioni contrattuali”. Nella muova formulazione, si prevede che “Agli enti cooperativi che non ottemperino alla diffida impartita in sede di vigilanza senza giustificato motivo ovvero non ottemperino agli obblighi previsti dall'articolo 2545-octies del codice civile è applicata una maggiorazione del contributo biennale pari a tre volte l'importo dovuto. Le procedure per l'applicazione della maggiorazione del contributo sono definite con decreto del Ministro dello sviluppo economico”.

Il comma 5-ter (introdotto con il Decreto sviluppo, D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. con mod. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) stabiliva che: “Agli enti cooperativi che si sottraggono all'attività di vigilanza o risultano irreperibili al momento delle verifiche disposte nei loro confronti si applica la sanzione amministrativa da euro 50.000 ad euro 500.000 per il periodo in corso alla data di riscontro del comportamento elusivo da parte dell'autorità di vigilanza e per ciascuno dei successivi periodi fino alla cessazione dell'irreperibilità. La stessa norma si applica alle irregolarità previste dall'articolo 10 della legge 23 luglio 2009, n. 99, in sostituzione della sanzione della sospensione semestrale di ogni attività”.

Oggi si prevede che “Lo scioglimento di un ente cooperativo è comunicato, entro trenta giorni, dal Ministero dello sviluppo economico all'Agenzia delle entrate, anche ai fini dell'applicazione dell'articolo 28, comma 4, del decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175”. Il legislatore, prendendo atto dell'inutilità delle sanzioni amministrative in precedenza previste, dispone che il provvedimento di scioglimento sia trasmesso dal Ministero all'Agenzia delle Entrate. Anche in questo caso ha attinto in parte dalla proposta di legge di iniziativa popolare (art. 4).

In conclusione

Il diritto cooperativo è, quindi, ancora in evoluzione, nonostante la Riforma generale del 2003, i correttivi apportati con il D. Lgs, n. 310/2004, la legge sul socio lavoratore, n. 142/2001, il riordino della disciplina della vigilanza di cui al D. Lsg. n. 220/2002 e l'istituzione dell'Albo delle società cooperative introdotto con D.M. 23 giugno 2004, senza contare la legge di riforma del credito cooperativo di cui alla L. n. 49/2016 e i correttivi alla disciplina del prestito sociale apportati dalla Legge di bilancio 2018 ai commi 238-243. C'è da attendersi che il provvedimento di fine 2017 sia oggetto di ulteriori correttivi, sia per ciò che concerne la possibilità di utilizzo dell'organo monocratico per le cooperative di più ridotte dimensioni sia per quanto riguarda l'apparato procedimentale e sanzionatorio in tema di vigilanza, che appare ancora poco incisivo. Se poi si ha riguardo anche alla novellata disciplina in tema di prestito sociale, forse comincerebbe a rendersi di attualità l'opera di riordino della disciplina, sia di quella generale che di quella speciale.

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