Tributario

Operatività del ravvedimento e ravvedibilità delle violazioni commesse attraverso condotte fraudolente

22 Febbraio 2018

Recenti interventi dell'Amministrazione Finanziaria offrono lo spunto per la disamina di un particolare profilo della disciplina dettata dall'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997: quello della ravvedibilità di violazioni perpetrate mediante condotte caratterizzate da fraudolenza. Di seguito gli Autori provvedono a illustrarne le specifiche.
Premessa

Come noto, la Legge n. 190/2014 (c.d. “Legge di stabilità 2015”) ha significativamente modificato la disciplina dettata dall'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997, incidendo, avanti a tutto, sui limiti temporali entro i quali all'adempimento tardivo dell'obbligo tributario consegue – nella logica della premialità negativa (al riguardo, si veda, L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Giuffrè) – una diversa modulazione della sanzione ordinariamente prevista per l'inadempimento o il non corretto (rectius, infedele) adempimento dell'anzidetto obbligo tributario.

Non solo. Ma almeno con riguardo ai tributi amministrati dall'Agenzia delle Entrate, la novella normativa ha ridefinito le cause ostative che, in passato, precludevano il c.d. “ravvedimento”, individuando quale unico limite, alla mitigazione sanzionatoria assicurata dalla condotta resipiscente, l'avvenuta emanazione di avvisi di accertamento, di avvisi di liquidazione, di avvisi bonari e di atti di contestazione delle sanzioni e di recupero dei crediti d'imposta (casi nei quali, per vero, il ravvedimento è comunque possibile per i periodi d'imposta e per le imposte diverse da quelle cui si riferiscono le violazioni contestate).

Oltremodo chiaro, a tale ultimo riguardo, il dettato normativo: laddove, infatti, l'art. 13 comma 1 D.Lgs. n. 472/1997 dispone che la riduzione nei limiti ex lege previsti opera “sempreché la violazione non sia stata già constatata e comunque non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l'autore o i soggetti solidalmente obbligati, abbiano avuto formale conoscenza”, il successivo comma 1-ter prevede, tra l'altro, che “per i tributi amministrati dall'Agenzia delle entrate non opera la preclusione di cui al comma 1, primo periodo, salva la notifica degli atti di liquidazione e di accertamento, comprese le comunicazioni recanti le somme dovute ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni”.

Il nuovo ravvedimento

All'indomani delle modifiche introdotte dalla evocata Legge n. 190/2014, Autorevole Dottrina – pur non mancando di muovere incisive critiche alla novella disciplina, alle finalità dalla stessa apparentemente perseguite ed ai risultati che prevedibilmente saranno conseguiti – ha affermato che “È indiscutibile il fatto che, con questo intervento normativo, il ravvedimento abbia cambiato "pelle" e "sostanza". "Pelle" perché l'art. 13 contiene, ora, al suo interno, due discipline: una per le imposte amministrate dall'Agenzia delle Entrate, una per gli altri tributi; "sostanza" giacché, per le violazioni riferibili alle prime, l'art. 13 ha abbandonato l'originaria ratio che sorreggeva e giustificava, anche costituzionalmente, il ravvedimento stesso, qualificando come irrilevanti, per la sua efficacia, le preclusioni oggettive e quelle temporali prima disposte” (A. Giovannini, Legge di stabilità 2015 – Il nuovo ravvedimento operoso: il “fisco amico” e il “condono permanente”, Milano).

Non vi sono, davvero, ragioni per poter dissentire dall'evocata ermeneusi, tanto più laddove la stessa ha rimarcato che “la Legge di Stabilità, con pochi tratti di penna, ha cambiato radicalmente le caratteristiche dell'istituto” (A. Giovannini, Legge di stabilità 2015 – Il nuovo ravvedimento operoso: il “fisco amico” e il “condono permanente”, Milano): prima, a seguito della normazione del 1997, incentrato sulla spontaneità del comportamento resipiscente e caratterizzato da limitazioni, temporali (di fonte normativa) ed oggettive (create, per lo più, in via di prassi), che, comunque, nella predetta spontaneità trovavano ragione; oggi, a seguito della Legge n. 190/2014, incentrato, esclusivamente, sulla mera resipiscenza, ancorché non spontanea, della condotta riparatoria, la cui unica sopravvenienza ostativa è costituita dalla notificazione di uno degli atti richiamati dal citato art. 13 comma 1-ter D.lgs. n. 472/1997.

E, lo si dice fin d'ora: la disciplina oggi vigente del ravvedimento non tollera, per come intimamente caratterizzata, la sopravvivenza di quelle limitazioni di carattere oggettivo che, come detto, la prassi amministrativa aveva elevato a motivo di “non ravvedibilità” della commessa violazione.

L'errore e l'omissione ravvedibile nella previgente disciplina dettata dall'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997

Come noto, mediante l'introduzione dell'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997 il Legislatore ha riconosciuto indiscriminata applicabilità a quanto già previsto da disposizioni dettate, in materia di imposta sul valore aggiunto, dall'art. 48 d.P.R. n. 633/1972 e, in materia di imposte dirette, dagli artt. 9 e 54 d.P.R. n. 600/1973.

Per tal via, quindi, senza nessuna differenziazione tra tributi di diversa natura, ha trovato omogenea disciplina il c.d. “ravvedimento operoso”, nitida espressione delle peculiarità caratterizzanti la c.d. “legislazione premiale” ben riassunte dal noto brocardo “ponti d'oro al nemico che fugge”.

In quanto caratterizzato dalla necessaria spontaneità del comportamento riparatorio successivo alla violazione, il ravvedimento operoso incontrava, nella formulazione introdotta dalla riforma del 1997, penetranti limitazioni: talune, positivamente contemplate, di natura temporale; altre, elaborate in via di prassi, di natura “oggettiva”, ma comunque connesse alle prime.

Quanto al tempo, poiché imprescindibilmente spontanea, la condotta riparatoria non poteva che essere anteriore all'inizio dei controlli amministrativi e, in tale lasso temporale, tanto più era ravvicinata all'azione illecita, tanto più la mitigazione sanzionatoria era rilevante (ed infatti, la previsione per cui “la sanzione è ridotta, sempreché la violazione non sia stata già constatata e comunque non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l'autore o i soggetti solidalmente obbligati, abbiano avuto formale conoscenza”, per come introdotta dalla riforma del 1997, è rimasta invariata anche successivamente alle plurime modifiche che hanno interessato la disposizione in rassegna. Sempre funzionali alla ridefinizione dell'entità della mitigazione sanzionatoria in ragione del lasso temporale intercorso fra consumazione dell'illecito tributario e successivo adempimento dell'obbligazione tributaria, le evocate modifiche mai hanno inciso sulla predetta statuizione che, come detto, pur presente nella vigente formulazione dell'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997, non interessa più, stante il disposto dell'art. 13 comma 1-ter D.Lgs. cit., i tributi amministrati dall'Agenzia delle Entrate).

Anzi, proprio in ossequio all'idea della “legislazione premiale”, era previsto che alcune tipologie di errori od omissioni erano immeritevoli di sanzione (così le violazioni formali), se sanate in tempi brevi.

In evidenza:

Si veda al riguardo l'art. 13 comma 4 D.Lgs. n. 472/1997, il quale, nella formulazione introdotta dall'art. 2 D.Lgs. n. 203/1998, disponeva che “il ravvedimento del contribuente nei casi di omissione o di errore non incidenti sulla determinazione e sul pagamento del tributo esclude l'applicazione della sanzione, se la regolarizzazione avviene entro tre mesi dall'omissione o dall'errore”.

La previsione in rassegna – che, a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 6 D.Lgs. n. 422/1998, sanciva che “nei casi di omissione o di errore, che non ostacolano un'attività di accertamento in corso e che non incidono sulla determinazione o sul pagamento del tributo, il ravvedimento esclude l'applicazione della sanzione, se la regolarizzazione avviene entro tre mesi dall'omissione o dall'errore” – è stata abrogata, a decorrere dal 20 marzo 2001, dall'art. 7, comma 1, lett. b) D.Lgs. 26 gennaio 2001 n. 32.

Quanto, poi, alle limitazioni di carattere “oggettivo”, la prassi amministrativa ebbe modo di chiarire che “l'espresso riferimento di tale norma alla regolarizzazione degli errori e delle omissioni” (così, letteralmente, Circolare del Ministero delle Finanze, 10 luglio 1998, n. 180) non poteva che tradursi “nella preclusione, circa la possibilità di ravvedimento, nei confronti di quei comportamenti antigiuridici che non abbiano origine da un errore o da un'omissione” (così, letteralmente, Circolare del Ministero delle Finanze, 10 luglio 1998, n. 180).

Non solo.

Ma esemplificando l'evocata preclusione la citata prassi si espresse nei seguenti termini: “tipico è il caso delle fatture per operazioni inesistenti, che assume rilevanza sia nel campo dell'IVA che in quello delle imposte sui redditi. Com'è noto, il problema dell'applicabilità del ravvedimento anche alla suddetta ipotesi era stato risolto, sotto il previgente regime, in senso favorevole dalla Suprema Corte di Cassazione (cfr. sentenza 24 luglio 1995, n. 2215) senza, però, che al riguardo fosse possibile intravedere un principio giurisprudenziale consolidato. Ad opposte conclusioni si deve, invece, pervenire sulla base della nuova norma, non potendosi ovviamente sostenere che sia stato commesso un semplice “errore”, o tanto meno una “omissione”, da parte di chi abbia emesso o utilizzato una fattura a fronte di un'operazione inesistente. Le stesse considerazioni valgono, com'è ovvio, per altre fattispecie di violazioni caratterizzate da condotte fraudolente”.

Secondo l'evocata prassi amministrativa, quindi, il concetto di “errore ed omissione” non poteva essere riferito alle violazioni connotate dalla fraudolenza, ma rimandava all'idea di colpa semplice o addirittura di colpa lieve (in tal senso, A. Giovannini, Il nuovo ravvedimento tra misure premiali, equità e tenuta dissuasiva del sistema sanzionatorio, in Milano, 2015): una dimenticanza, un errore di trascrizione o di calcolo, di imputazione o di qualificazione giuridica, una momentanea difficoltà nell'adempimento, una violazione caratterizzata da un grado di antigiuridicità non particolarmente grave o riprovevole.

E, a ben vedere, l'interpretazione dell'inciso “regolarizzazione degli errori e delle omissioni", quale preclusione al ravvedimento di violazioni espressione di attività caratterizzate da fraudolenza, più che fondarsi su di un preciso appiglio normativo*, in altro modo non poteva che giustificarsi se non come la “naturale conseguenza” della irrilevanza del ravvedimento successivo all'inizio di attività di controllo.

In evidenza*:
Nel silenzio normativo, infatti, il ritenere che l'errore richiamato dall'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997 dovesse essere inteso come riferito alle sole violazioni perpetrate mediante condotte non fraudolente, pare, davvero una forzatura. Del resto, non v'è dubbio alcuno che la condotta (esemplare manifestazione della c.d. “frode fiscale”) ascrivibile al paradigma delittuoso di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 (ma analogamente è a dirsi con riguardo all'art. 3 D.Lgs. n. 74/2000) è condotta che, nella sistematica del D.Lgs. n. 471/1997, è, oggi come in passato, sussumibile nella medesima disposizione (art. 1 comma 2 D.Lgs. n. 471/19971, per quanto concerne le imposte sui redditi ed art. 5 comma 4 D.Lgs. citato, per quanto concerne l'imposta sul valore aggiunto) entro i cui confini rientra anche la (diversa, perché, avanti tutto, non fraudolenta) condotta integrante gli estremi della fattispecie delittuosa di cui all'art. 4 D.Lgs. n. 74/2000. Ciò a significare che, sul piano dell'ordinamento tributario, il disvalore del fatto assunto ad illecito è tutto incentrato sull'inadempimento o sul non corretto (e quindi erroneo) adempimento dell'obbligazione tributaria: ogni peculiarità strutturale della condotta illecita rileva, invece, ai soli fini della ridefinizione (in aumento) della sanzione irrogabile in conseguenza del predetto (me già perfetto) illecito (significative, al riguardo, le previsioni di cui agli artt. 1 comma 3 e 5 comma 4-bis D.Lgs. n. 471/1997).

Se, infatti, secondo la scelta legislativa dell'epoca, qualsivoglia forma di ravvedimento doveva necessariamente trovar causa nella spontaneità della condotta riparatoria, l'aver adempiuto all'obbligazione tributaria in un momento successivo a quello ordinariamente (e perentoriamente) previsto ex lege era, secondo la predetta scelta legislativa, condotta:

  1. inidonea ad assicurare mitigazioni sanzionatorie – perché non spontanea – se posta in essere successivamente alla contestazione della violazione ovvero all'inizio di accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento formalmente conosciute dal medesimo contribuente (ovvero dal soggetto solidalmente obbligato);
  2. da ritenersi – quand'anche posta in essere anteriormente alla contestazione della violazione e ad accessi, ispezioni o verifiche – tipico accadimento susseguente a comportamenti non fraudolenti e, comunque, non scientemente perpetrati con fermi propositi di evasione, come tali – quale che fosse il termine ultimo del “ravvedimento” – non certo (e, comunque, difficilmente) posti in essere per poi essere spontaneamente ravveduti (si veda, in termini ancor più chiari, A. Giovannini, Il nuovo ravvedimento tra misure premiali, equità e tenuta dissuasiva del sistema sanzionatorio, in Milano, 2015, secondo cui “il riferimento dell'art. 13 alla “regolarizzazione degli errori e delle omissioni” si traduceva di per sé in una preclusione circa la possibilità di ravvedimento per violazioni che richiedevano un'attività caratterizzata da dolo intenzionale e diretto, come nel caso, per esempio, di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti. I limiti temporali trovavano fondamento, proprio e tra l'altro, in questo ragionamento. Costituiva espressione di una valutazione ispirata all'id quod plerumque accidit il fatto che l'errore e l'omissione potessero emergere, alla vista del contribuente, con il semplice controllo delle scadenze o della documentazione o, tutt'al più, riprendendo in mano la dichiarazione dell'anno d'imposta precedente”).

L'errore e l'omissione ravvedibile nell'attuale disciplina dettata dall'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997

Venuto meno il fondamentale principio per il quale il ravvedimento non era consentito una volta iniziati controlli amministrativi – ragione ultima, lo si ripete, delle preclusioni “oggettive” elaborate dalla prassi – ritenere che non siano ravvedibili violazioni connotate dalla fraudolenza appare conclusione priva di qualsivoglia fondamento e, a ben vedere, in palese dissonanza con gli scopi perseguiti dalla novella del 2015, fra i quali, a detta dei suoi Compilatori, spicca quello “di incidere significativamente sulle modalità di gestione del rapporto tra fisco e contribuenti, superando il tradizionale modello che li vede contrapposti, rispettivamente, in qualità di controllore e di controllato” (così, letteralmente, è dato leggersi nella relazione al disegno di legge recante “disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)”) e quello “di concentrare le risorse [n.d.a.: dell'Amministrazione Finanziaria] sui contribuenti meno collaborativi e trasparenti, che abbiano strutturato sistemi complessi e ben architettati di evasione e di frode o, comunque, ritenuti maggiormente a rischio (…) (così, letteralmente, è dato leggersi nella relazione al disegno di legge recante “disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)”.

Del resto, se per espressa previsione normativa, la condotta riparatoria è oggi di per sé rilevante – e se, quindi, quale che sia la motivazione ad essa sottostante, v'è resipiscenza che legittima la mitigazione sanzionatoria, quand'anche la stessa, ben lungi dall'essere spontanea, sia il frutto di valutazioni opportunistiche e di convenienza – appare corretto affermare che quanto prima doveva ritenersi “naturalmente” escluso dall'ambito di operatività dell'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997, deve oggi, altrettanto “naturalmente”, ritenersi espressione di legittimo ravvedimento.

E pur vero che, anche oggi, come in passato, l'evocata disposizione contiene l'inciso “errori e (…) omissioni”, ma l'esegesi dell'espressione in rassegna non può non tener conto dei mutamenti, di “pelle e sostanza” (L'espressione è di A. Giovannini, Legge di stabilità 2015 – Il nuovo ravvedimento operoso: il “fisco amico” e il “condono permanente”, Milano), che la novella del 2015 ha apportato all'istituto del ravvedimento.

Ad essere “emendabili” oggi sono, quindi, (anche) gli errori inficianti dichiarazioni che, ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui al decreto legislativo 471/1991, possono e devono qualificarsi come dichiarazioni infedeli, quali che siano “le peculiarità strutturali” della condotta sfociata nell'infedeltà dichiarativa.

Del resto, se il ravvedimento è la condotta riparatoria (rectius: mitigatoria) del disvalore sotteso al precedente illecito, l'errore (o l'omissione) menzionato dalla disposizione in commento è, avanti a tutto, la manifestazione del non corretto (e, quindi, erroneo) adempimento dell'obbligo dichiarativo: ogni ulteriore indagine circa “le ragioni e/o i caratteri” della discrasia fra il dichiarato e quanto si sarebbe dovuto dichiarare è normativamente irrilevante.

A ben vedere, poi, l'affermazione della odierna “ravvedibilità” di violazioni poste in essere con frode o artifizi vari trova conferma anche nella prassi amministrativa (talché stupiscono – e non poco – il già ricordato recente intervento dell'Amministrazione Finanziaria che, ancora riferendosi all'evocata prassi, ha ribadito la non ravvedibilità di violazioni caratterizzate da condotte fraudolente. Si veda, al riguardo, A. Iorio, Fatture false senza ravvedimento, Milano).

Rileva, al riguardo, la Circolare 3 agosto 2012 n. 32/E che, fornendo chiarimenti anche “in materia di indeducibilità di costi e spese direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”, ha avuto modo di chiarire, tra l'altro, che:

  • l'indeducibilità va (…) riferita ai costi di tutti i fattori produttivi che si pongano in un rapporto diretto con il delitto, mentre i costi per l'acquisto di beni o servizi sostenuti nell'esercizio dell'ordinaria attività d'impresa devono considerarsi deducibili se non direttamente utilizzati nell'esercizio dell'attività delittuosa” (ragion per cui, la medesima circolare – trattando del diretto rapporto tra bene o servizio acquistato e reato – ha evidenziato, con specifico riguardo ai costi attestati da fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, che “i costi relativi all'acquisizione di beni o servizi che, ancorché documentati da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non siano stati utilizzati per il compimento di alcun reato, sono deducibili, ove, ovviamente, ricorrano i requisiti generali di deducibilità dei costi previsti dal testo unico delle imposte sui redditi, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. Infatti, anche in presenza del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all'art. 2 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il costo esposto nella fattura c.d. “soggettivamente inesistente” non rappresenta, solo per tale motivo, quello dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per la commissione del reato stesso. Di converso, il costo sostenuto per commettere tale reato è ravvisabile nel “compenso” eventualmente pagato al soggetto che si presta ad emettere il documento falso”.);
  • nel caso di utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti (…), i costi esposti su tali documenti, in quanto non sostenuti al fine di acquisire beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto, non rilevano ai fini dell'applicazione della norma (…)” di cui all'art. 14 comma 4-bis L. n. 537/1993”;
  • la indeducibilità di detti costi discende, infatti, direttamente dall'ordinaria applicazione delle regole di determinazione del reddito, indipendentemente dalla configurazione di un illecito penale”;
  • ricade invece nel campo di applicazione della disposizione in commento, risultando pertanto indeducibile ai sensi del comma 4-bis (…), il costo sostenuto per la “commissione” riconosciuta all'emittente (ad esempio, la “cartiera”) in cambio della predisposizione dei falsi documenti contabili”.

Orbene, anche ammettendo la correttezza di tali assunti (e, quindi, condividendo la conclusione per cui, nel caso di fatture attestanti operazioni commerciali oggettivamente inesistenti, l'indeducibilità dei costi ivi esposti discenderebbe “dall'ordinaria applicazione delle regole di determinazione del reddito imponibile di cui al testo unico delle imposte sui redditi, indipendentemente da qualsiasi connessione degli stessi con fattispecie delittuose”, mentre l'indeducibilità del “costo sostenuto per la “commissione” riconosciuta all'emittente (ad esempio, la “cartiera”) in cambio della predisposizione dei falsi documenti contabili” conseguirebbe alla previsione di cui all'art. 14 comma 4-bis L. n. 537/1993.), non può non sottolinearsi come, lo stesso documento di prassi, precisato che il recupero a tassazione di costi (e spese) relativi a beni (o prestazioni di servizio) direttamente utilizzati per il compimento di attività delittuose non colpose espone il contribuente, oltre al recupero della maggiore imposta e degli interessi, anche alle conseguenti sanzioni, ha specificato che in tale ipotesi:

a) “risultano applicabili le sanzioni (…) per “infedeltà” della dichiarazione”;

b) “rimane (…) in facoltà del contribuente, successivamente all'esercizio dell'azione penale nei termini precedentemente descritti, procedere ad una variazione in aumento del reddito imponibile in relazione ai costi in esame, al fine di evitare l'attività di accertamento nei suoi confronti” (al riguardo, l'evocata circolare 3 agosto 2012 n. 32/E ha altresì affermato che “il contribuente nei cui confronti non siano ancora iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento potrà presentare, in relazione alla dichiarazione in cui ha dedotto i costi, una dichiarazione integrativa ai sensi dell'art. 2, comma 8, del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322 contenente le necessarie variazioni in aumento, corrispondenti ai costi indebitamente dedotti in quanto direttamente connessi al delitto non colposo”).

c) “qualora la dichiarazione integrativa, effettuata prima dell'avvio dell'attività di controllo fiscale, venga presentata nei termini di cui all'art. 13, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il contribuente otterrà la riduzione della sanzione ad 1/8 del minimo, avvalendosi dell'istituto del ravvedimento operoso”.

Pertanto, al di là dei riferimenti (oggi non più puntuali) all'allora vigente formulazione dell'art. 13 D.lgs. n. 472/1997, risulta oltremodo evidente come, anche a fronte di condotte spiccatamente caratterizzate da fraudolenza (delle quali, per vero, quella estrinsecantesi nell'utilizzo di fatture emesse per operazioni inesistenti è paradigmatica esemplificazione), il documento di prassi in rassegna legittima la “ravvedibilità” di condotte che, certo, risultano ben lungi dall'appalesarsi come la conseguenza del mero errore dichiarativo.

Non solo. Ma a ben leggere entrambi gli evocati documenti di prassi, appare oltremodo evidente come quello emanato nella vigenza della abrogata disciplina positiva debba oggi ritenersi definitivamente superato.

Si faccia, a mero titolo esemplificativo, il caso di una verifica fiscale all'esito della quale, nelle forme del processo verbale di constatazione, sia stata contestata, la contabilizzazione di fatture emesse per operazioni inesistenti.

Richiamata la previsione di cui all'art. 13 comma 1-ter D.lgs. n. 472/1997, qualsivoglia iniziativa o condotta riparatoria – ancorchè posta in essere anteriormente alla emanazione dei relativi atti di imposta – dovrebbe, stando alla lettera della Circolare, 10 luglio 1998, n. 180, ritenersi esclusa dall'ambito di operatività del citato art. 13.

Tuttavia, ipotizzando l'intervenuto esercizio dell'azione penale, l'evocata resipiscenza si tradurrebbe, stando alla lettera della circolare 3 agosto 2012 n. 32/E, in condotta rilevante ai sensi dell'art. 13 citato.

Pertanto, la medesima condotta, certamente ascrivibile al paradigma dell'agire fraudolento, in un primo momento non ravvedibile, diverrebbe tale solo in ragione di un accadimento (l'intervenuto esercizio dell'azione penale) che – e qui sta il paradosso – in altro non si risolve se non in una ulteriore conferma (scaturente dal vaglio di un Organo Giudiziario) della fraudolenza della condotta già affermata all'esito dell'attività di controllo fiscale.

Anche la rinnovata disciplina dettata dal D.Lgs. n. 74/2000 depone, per vero, a sostegno della sicura ravvedibilità di violazioni caratterizzate da condotte fraudolente.

Come noto, infatti, l'art. 13-bis comma 1 d.lgs. 74/2000 disciplina una circostanza attenuante che, con riguardo a ciascun reato tributario, importa la diminuzione fino alla metà della pena ordinariamente prevista (oltre che la inapplicabilità delle pene accessorie indicate dall'art. 12 D.Lgs. n. 74/2000.), allorquando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il debito tributario, comprensivo di interessi e di sanzioni, sia stato estinto mediante “integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie” (così, letteralmente, l'art. 13-bis comma 1 D.Lgs. n. 74/2000).

È pur vero che la disposizione in rassegna, nel precisare quali siano gli importi dovuti e nel prevedere che essi siano anche quelli determinati all'esito “delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie” non menziona espressamente il ravvedimento di cui all'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997, ma è parimenti vero che detta mancata previsione non può essere interpretata come sintomatica della volontà legislativa di escludere, dall'ambito di operatività dell'art. 13-bis comma 1 D.lgs. n. 74/2000, le ipotesi in cui il debito tributario, comprensivo di sanzioni ed interessi, venga ad essere quantitativamente determinato in ragione di quanto previsto dal citato art. 13 D.Lgs. n. 472/1997 e l'importo così individuato sia stato effettivamente corrisposto.

È palese, infatti, come una diversa conclusione risulterebbe priva di “razionale giustificazione, non essendo comprensibile l'esclusione di una tale modalità di adempimento, tardivo, del debito tributario tra quelle qui rilevanti, essendo evidente che la volontà del legislatore sia quella di “premiare”, con una riduzione di pena fino alla metà, qualsiasi forma di estinzione del debito tributario, prima dell apertura del dibattimento, sulla base delle norme che regolano l'adempimento tardivo dello stesso” (G. Soana, I reati tributari, Giuffrè, 2017, il quale ha altresì evidenziato come la pretesa irrilevanza, nella prospettiva dell'art. 13-bis comma 1 D.Lgs. n. 74/2000 del ravvedimento di cui all'art. 13 D.Lgs. n. 472/1997, “si pone in evidente contrasto con la volontà del legislatore tributario, espressa a partire dalla Legge di Stabilità 2015 (art. 1, comma 637, lett. b), n. 1, 1. 23.12.2.2014 n. 190), di dare un nuovo impulso al ravvedimento operoso, quale strumento valutato come idoneo a stimolare l'assolvimento spontaneo, seppur tardivo, degli obblighi tributari ed a favorire l'emersione spontanea delle basi imponibili (Circolare dell'Agenzia delle Entrate del 12 ottobre del 2016 n. 42/E)”).

E a fonte di tale irragionevolezza, non può che convenirsi con quella dottrina che, pur dando atto del possibile profilarsi di questioni di legittimità costituzionale della disposizione in rassegna laddove non consente che il debito possa essere estinto anche attraverso il ravvedimento, ha correttamente osservato che “pare potersi sperimentare con successo la via di un'interpretazione ortopedica, costituzionalmente conforme, che permanga pur tuttavia nell'orizzonte semantico della previsione; in effetti, considerando l'elenco delle forme alternative di definizione del debito tributario indicate nei comma in parola come un'esemplificazione legislativa e non già quale esaustiva elenca zione che non ammette aggiunte, il ravvedimento non costituirebbe che una delle tante forme con cui si raggiunge l'esito atteso dall'ordinamento, ovvero l'integrale pagamento degli importi dovuti” (A. Ingrassia, Circostanze e cause di non punibilità. La voluntary disclosure, in I reati Tributari (a cura di R. Bricchetti, P. veneziani), Torino, 2017).

In conclusione

Orbene, appurato che per tutti i reati tributari e, quindi, anche per quelli (c.d. dichiarativi) di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5 D.Lgs. n. 74/2000, l'integrale pagamento degli importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni – come determinati anche a seguito delle speciali procedure conciliative, di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento di cui all'art. 13 D.lgs. n. 471/1997 – importa (se intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento) la diminuzione fino alla metà della pena ordinariamente prevista, appare oltremodo difficile poter (continuare a) sostenere che non siano tributariamente ravvedibili violazioni caratterizzate da condotte fraudolente, ancorché per le medesime sia prevista una peculiare mitigazione sanzionatoria subordinata proprio all'intervenuto ravvedimento tributario.

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