Strumenti di allerta, crisi, insolvenza e continuità: questioni interpretative ed applicative alla luce della riforma

Nicola Pecchiani
23 Febbraio 2018

La riforma di cui alla legge 19 ottobre 2017, n. 155, tenuto conto della Bozza di Codice della crisi e dell'insolvenza (“CCI”) del 22 dicembre 2017, introduce importanti novità soprattutto in relazione alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi.
Premessa

La riforma di cui alla Legge 19 ottobre 2017, n. 155, tenuto conto della Bozza di Codice della crisi e dell'insolvenza (“CCI”) del 22 dicembre 2017, introduce importanti novità soprattutto in relazione alle procedure di allerta e composizione assistita della crisi.

La riforma si caratterizza per un nuovo approccio alla gestione tempestiva delle situazioni di crisi attribuendo “priorità” alle soluzioni “che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e purché la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un'idonea soluzione alternativa” (art. 1, comma 2, lett. g, L. n. 155/2017).

Tale approccio pone la sfida, sotto il profilo aziendalistico, di come si possano distinguere efficacemente e tempestivamente i diversi stadi della crisi, individuando quelle situazioni in cui lo stato di crisi presenta caratteri di reversibilità con la conseguenza di poter essere sanato, anche per il tramite della procedura di composizione assista, privilegiando l'obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori ed evitando così, ove possibile, che questi debbano subire il meccanismo della falcidia e/o di un pagamento assai tardivo come avviene tipicamente nelle attuali procedure concorsuali.

In tale ottica, la chiara distinzione tra uno stadio di crisi e quello di insolvenza appare determinante ai fini della efficacia del progetto di riforma legislativa. Si rammenta che, nella riforma, la definizione di stato di crisi va “intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica” (art. 2, comma1, lett. c, L. n. 155/2017) e tale circostanza “si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” (Art. 2, no. 1, CCI); mentre la definizione di insolvenza resta immutata e rappresenta “lo stato del debitore che non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, e che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori” (art. 2, no, 2, CCI).

Allora laddove la crisi appare come una situazione reversibile, lo stato di insolvenza presenta, di converso, caratteristiche di una situazione irreversibile, con la conseguente necessità di approntare strumenti idonei ad individuare tempestivamente le situazioni di crisi così da provi rimedio prima che la situazione diventi insanabile.

Proprio ai fini della tempestiva individuazione dello stato di crisi la riforma propone alcuni indicatori legati all'esistenza di significativi debiti scaduti per alcune categorie di passività, quali salari e stipendi e fornitori (art. 27, comma 1, lett. a e b, CCI) e debiti verso l'agenzia delle entrate, l'ente previdenziale e l'agente della riscossione (art. 18, comma 2, CCI) mentre rinvia ai lavori del CNDCEC (art. 27, comma 1, lett. c, CCI e art. 16, CCI) per definire quegli “indicatori di crisi” che siano rilevanti sotto il profilo reddituale, patrimoniale o finanziario “con particolare riguardo alla sostenibilità dei debiti nei successivi sei mesi ed alle prospettive di continuità aziendale”; il tutto nell'ottica di consentire la “tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell'impresa” (art. 15, comma 1, CCI).

Con tale finalità è altresì previsto di porre l'obbligo, in capo all'impresa di “istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale” (proposta di modifica dell'art. 2086 c.c.). Con conseguenti specifiche responsabilità in capo agli organi amministrativi e di controllo.

Il concetto di crisi nella riforma

Di fatto il concetto di “crisi” è introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento, individuando altresì chiare implicazioni sotto il profilo delle responsabilità attribuite all'impresa ed i diversi stakeholder. Tale concetto pone dubbi interpretativi soprattutto con riferimento all'individuazione, anche quantitativa, di tale stato di “crisi”, attribuendogli caratteristiche diverse rispetto allo stato di “insolvenza”.

In effetti, sotto il profilo economico-aziendale sono stati teorizzati modelli squisitamente qualitativi di individuazione degli stadi della crisi (quali ad esempio la tradizionale sequenza declino-crisi-insolvenza-dissesto) anche perché prevaleva la necessità di anticipare il riconoscimento della manifestazione della crisi (tipicamente caratterizzata da carenze di liquidità che conducono alla prima manifestazione di debiti scaduti) già sin dalla fasi di incubazione-maturazione tipiche del declino, oveassumono centralità quegli squilibri di carattere gestionale e reddituale che non si sono ancora concretizzati in una significativa carenza di liquidità e, pertanto, in squilibri finanziari.

Si pone pertanto un tema rilevante sotto il profilo della gestione tempestiva della crisi, anche nell'ottica del miglior soddisfacimento dei creditori, ovvero distinguere tra:

  • stadi di crisi ove il ripristino dell'equilibro finanziario prospettico comporta il soddisfacimento integrale dei creditori mediante azioni di riscadenziamento e rateizzazione dei debiti scaduti;
  • stadi di crisi ove il ripristino dell'equilibrio finanziario prospettico comporta necessariamente una “falcidia” di parte dei debiti scaduti, o per il tramite della composizione assistita (nei casi meno critici in termini di numerosità e ammontare dei debiti scaduti) o per il tramite di procedure di regolazione concordata quali il concordato in continuità (nei casi più critici in termini di numerosità e ammontare dei debiti scaduti).

Appare evidente come lo spirito della riforma debba essere quello di intercettare la crisi già con riferimento alle situazioni di cui al precedente punto 1). In tale ottica assume rilievo il riferimento alla “sostenibilità dei debiti nei successivi sei mesi” di cui all'art. 16 CCI, come a dire che vi sono situazioni temporanee di crisi di liquidità che possono essere rimosse minimizzando i sacrifici richiesti ai creditori.

Se tuttavia, come appare dalla riforma, gli indicatori di crisi privilegiano l'esistenza di debiti scaduti le cui soglie sono stabilite in misura elevata, è assai probabile che non si sia in grado di intercettare le prime fasi di manifestazione della crisi, ma che, al contrario, si individui tempestivamente una situazione di insolvenza. Anche tenuto conto che gli indicatori menzionati nel CCI (artt. 18 e 27) non esauriscono le voci che compongono l'indebitamento di una impresa, fra le quali ad esempio i debiti verso banche ed altri finanziatori ed i debiti verso altre società del gruppo (all'interno dei quali potrebbero esservi debiti per l'IVA di gruppo o il consolidato fiscale).

Ne consegue che per accertare tempestivamente la prima manifestazione della crisi, non ancora grave sotto il profilo finanziario, si dovrà far leva sulle disposizioni del nuovo art. 2068 c.c., in quanto un “assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale” deve necessariamente includere anche tutti quegli strumenti di controllo o allerta che attingono da dati extra-contabili e che, nella logica dei sistemi di risk assessment e di early warning system, focalizzano l'attenzione sugli indicatori di tipo gestionale quali i cd. Key Performance Indicator e Key Risk Indicator; rammentando che proprio questi ultimi comportano la definizione di soglie di allerta (i cd. escalation trigger) oltre i quali amministratori, manager e organi di controllo devono intervenire per comprendere quali eventi negativi si stiano manifestando e quali rischi possano da ciò conseguire.

Così come, sempre nell'ambito degli strumenti di allerta, occorre prendere una posizione anche in merito al tema della regolarità nell'adempimento delle proprie obbligazioni, considerato che questa deve fare riferimento non solo alla esistenza di debiti scaduti, ma anche alla effettuazione di pagamenti non conformi ai cd. “termini d'uso” (nozione peraltro richiamata in tema di azioni revocatorie).

Pertanto l'esclusiva enfasi su indicatori finanziari e sulla rilevanza dei debiti scaduti può costituire elemento di ostacolo al realizzo delle finalità della riforma, ove, si rammenta, la continuità aziendale non è obiettivo che va realizzato a scapito del miglior soddisfacimento dei creditori.

In sostanza la riforma avrà successo nel momento in cui essa sarà realizzata in modo da garantire l'allineamento e corrispondenza tra i diversi stadi sostanziali di manifestazione della crisi e dell'insolvenza, da un lato, e le diverse soluzioni assistite, concordate e liquidatorie, dall'altro. In particolare ottenendo che in molti casi la crisi sia risanata mediante azioni più soft quali il riscadenziamento e la rateizzazione dei debiti. Altrimenti si rischia che la procedura di allerta conduca in prevalenza a soluzioni concordatarie o, peggio, liquidatorie; anche tenuto conto della “cronica” difficoltà delle piccole e medie imprese nel preparare piani economico-finanziari prudenziali e fattibili; così come del “cronico” e “cieco” ottimismo degli imprenditori nel pensare che la situazione di crisi possa essere sempre risolta mediante la gestione, differendo così nel tempo l'avvio di soluzioni idonee e avviandosi, sovente, verso percorsi di aggravamento del passivo.

Non essendo ancora noti gli indicatori, la cui elaborazione spetta al CNDCEC (art. 16 CCI), questi sembra debbano riferirsi esclusivamente a dati di bilancio o comunque contabili: all'art. 27, comma 1, lettera c) del CCI è infatti indicato il “superamento nell'ultimo bilancio approvato, o comunque per oltre tre mesi, degli indici elaborati ai sensi dell'articolo 16, comma 2”. Fermo restando che anche la sola analisi dei debiti scaduti richiede dati extra-contabili (scadenziari), la semplice disamina dei dati contabili non consente l'individuazione di alcuni indizi di crisi rilevanti, quali sono ad esempio i reiterati sconfinamenti sui conti correnti nonché le rate dei finanziamenti scadute o pagate sistematicamente in ritardo; situazioni queste ultime estremamente rilevanti anche per intercettare il rischio che le banche possano bloccare o revocare gli affidamenti, tenuto conto delle procedure che esse devono seguire in tema di crediti deteriorati a incaglio o sofferenza.

Analogamente è importante che gli organi di controllo societario prestino attenzione alle azioni che il management pone in essere per mitigare o differire l'emersione della crisi. Soprattutto quando non sono più sufficienti azioni “ordinarie” di miglioramento dei processi operativi, ma si assiste al ricorso di azioni “straordinarie” quali ad esempio disinvestimenti di asset e accordi transattivi con terzi, così come tutte quelle fattispecie di interventi che possono produrre effetti sul reddito e sul patrimonio netto ma che non migliorano la situazione finanziaria (cessione infragruppo di marchi ed altri asset, conferimenti infragruppo plusvalenti, rivalutazioni di immobili ecc.). Risulta palese come le azioni “straordinarie” in parola rappresentino già di per sé indizi evidenti della esistenza di una situazione di crisi, spesso anche rilevante.

Resta infine il problema del coordinamento tra la nozione di insolvenza di cui alla disciplina normativa e quella rilevante ai fini del principio di continuità aziendale in materia di bilancio e controllo contabile.

La perdita di continuità aziendale ai fini dei principi contabili presenta una definizione di fatto sovrapponibile a quella di insolvenza di cui alla disciplina normativa, qualora si confronti quanto segue:

  • il Principio di Revisione 570, par. 3, nel definire le condizioni di continuità aziendale, fa riferimento al “presupposto che l'impresa sia in grado di realizzare le proprie attività e far fronte alle proprie passività durante il normale svolgimento dell'attività aziendale”;
  • nelle definizioni del CCI l'insolvenza è decritta come “lo stato del debitore che non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, e che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori”.

In entrambe le definizioni rileva il concetto della impossibilità di far fronte alle proprie obbligazioni in condizioni di regolarità o normale svolgimento dell'attività aziendale.

Risulta altresì interessante quanto previsto sempre al par. 3 del Principio 570, ove si afferma che “l'impresa viene normalmente considerata in grado di continuare a svolgere la propria attività in un prevedibile futuro senza che vi sia né l'intenzione né la necessità di metterla in liquidazione, di cessare l'attività o di assoggettarla a procedure concorsuali come previsto dalla legge o da regolamenti”.

Ne consegue che la necessità di assoggettare l'attività di impresa a una procedura concorsuale costituisce evidente situazione in cui l'impresa ha perso la propria continuità aziendale in condizioni di normale svolgimento della gestione. Pertanto l'esistenza di una situazione di insolvenza che richiede di essere gestita mediante una delle procedure disciplinate normativamente equivale al riconoscimento della perdita del requisito di continuità aziendale rilevante ai fini dei principi contabili e di revisione.

In tale ottica la gestione anticipata della crisi mediante le procedure di allerta presenta un evidente beneficio anche ai fini delle responsabilità in materia di bilancio d'esercizio, posto che in tal modo l'attenzione degli organi societari verrebbe ad essere anticipata a una fase in cui non si è ancora manifestata l'insolvenza, con le conseguenti gravi problematiche in materia di redazione del bilancio d'esercizio. E si dovrebbero così evitare quelle numerose situazioni in cui imprese, di fatto in stato di insolvenza da due o tre anni, redigono i bilanci d'esercizio in continuità e presentano poi una domanda di concordato in continuità in una situazione di patrimonio netto negativo, con passività abnormi e richiedendo una falcidia della maggioranza dei creditori chirografari.

Ed ecco che allora il controllo del requisito della continuità aziendale ai fini del bilancio d'esercizio, oggi viziato da discrezionalità eccessive, troverebbe una collocazione più definita nel coordinamento con gli strumenti di allerta ed il passaggio alla procedura di composizione assistita della crisi.

Resta tuttavia il problema di come debbano essere predisposti i bilanci nel corso del concordato in continuità, anche tenuto conto della necessità di separare la rappresentazione contabile delle attività che non sono poste a servizio del piano (e fronteggiano parzialmente le passività accertate alla data della domanda di concordato) dalla rappresentazione contabile dei risultati reddituali, patrimoniali e finanziari della gestione in continuità, secondo le indicazioni stabile nel piano attestato. E resta il dubbio se gli indizi di crisi e insolvenza della gestione in continuità debbano essere diversi rispetto a quelli di una impresa in funzionamento: ovvero se e quando si possa accertare che la gestione in continuità nell'ambito del concordato non è più efficacemente perseguibile, in linea con il piano approvato.

In conclusione

La riforma presenta un approccio innovativo alla gestione anticipata della crisi che deve essere realizzato tenuto conto del contributo delle discipline aziendalistiche non tanto in termini di definizioni, quanto di strumenti operativi efficaci nel segnalare gli indizi di crisi, sia in termini gestionali che finanziari. Solo in tal modo si potrà garantire una elevata probabilità di risanamento delle imprese con i connessi benefici in termini di soddisfacimento dei creditori, senza dimenticare i riflessi sull'occupazione.

Ma ciò richiede che si individui la situazione di crisi quando essa costituisce una circostanza temporanea che può essere rimossa con limitate azioni di tipo extra-giudiziale; così come appare rilevante collocare lo stadio di crisi in atto, in una logica di progressività, nell'ambito di un percorso evolutivo che deve essere apprezzato mediante scenari alternativi di risanamento. Altrimenti si rischia che l'Organismo di composizione delle crisi d'impresa debba svolgere un lavoro di mera “istruttoria” e “smistamento” di pratiche che richiedono l'avvio di procedure concorsuali caratterizzate dalla richiesta di sacrifici drammatici ai creditori.

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