Il principio di non discriminazione: il lavoro intermittente all’esame della Corte UE e della Cassazione

Valeria Piccone
27 Febbraio 2018

L'interpretazione del diritto dell'Unione è competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE e tale competenza si estende pacificamente anche alla valutazione delle eventuali deroghe da parte di una normativa nazionale in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili alla trama dei Trattati ed al trattamento voluto in via generale dalla disciplina sovranazionale, anche in materia di uguaglianza nelle condizioni di lavoro.
Introduzione

L'interpretazione del diritto dell'Unione è competenza esclusiva della Corte di giustizia ex art. 267 TFUE e tale competenza si estende pacificamente anche alla valutazione delle eventuali deroghe da parte di una normativa nazionale in relazione a specifici obiettivi di politica sociale riconducibili alla trama dei Trattati ed al trattamento voluto in via generale dalla disciplina sovranazionale, anche in materia di uguaglianza nelle condizioni di lavoro.

Il caso Abercrombie

Ad esattamente due mesi dalla Global Starnet (Corte giust. 21 dicembre 2017) e a poco più da Corte Cost. n. 269 del 14 dicembre, le motivazioni di Cass. n. 4223/2018 nella vicenda Abercrombie & Fitch, pongono in evidenza immediatamente il nodo centrale dei rapporti fra giudice nazionale e giudice dell'Unione, quello insopprimibile, della tutela dei diritti fondamentali, al di là ed oltre ogni querelle in tema di competenze. Ma procediamo con ordine.

Al centro delle conclusioni presentate dall'Avvocato Generale Michal Bobek il 23 marzo 2017 nella vicenda Abercrombie & Fitch, la Carta dei diritti fondamentali con il rilievo assoluto da essa assegnato al principio di uguaglianza.

Osserva l'Avvocato Generale che l'opzione tesa ad assumere la direttiva come ambito di analisi principale non preclude in alcun modo la contestuale applicabilità dell'art. 21, paragrafo 1, della Carta.

Infatti, fintantoché le disposizioni in questione rientrano nell'ambito del diritto dell'Unione attraverso l'applicazione della direttiva 2000/78, l'ambito di tutela della Carta stessa trova applicazione in forza del suo art. 51, paragrafo 1.

Aggiunge l'Avvocato Generale che, quindi, il rapporto tra l'articolo 21, paragrafo 1, della Carta e la direttiva 2000/78 non è di reciproca esclusione. Si tratta, piuttosto, di un rapporto di attuazione e complementarietà atteso che la direttiva rappresenta una specifica espressione del principio generale sancito dalla Carta, tanto che il contesto di analisi rispettivamente fornito da entrambe è così destinato ad essere similare. Inoltre, ove opportuno, l'approccio seguito in entrambe dovrebbe perseguire la medesima logica, al fine di garantire un approccio coerente al controllo giurisdizionale del diritto dell'Unione e del diritto nazionale nell'ambito del divieto di discriminazione in base all'età nel settore dell'occupazione. Soprattutto, l'Avvocato Generale precisa che il principio di non discriminazione, quale sancito dall'articolo 21, paragrafo 1, della Carta, resta applicabile anche a fronte di una contestuale applicazione della direttiva 2000/78.

Ed è in due situazioni, segnatamente, che l'articolo 21, paragrafo 1, della Carta mantiene il proprio rilievo: in primo luogo, le sue disposizioni restano pienamente applicabili ai fini di una potenziale coerente interpretazione del diritto derivato dell'Unione europea e del diritto nazionale rientrante nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione. Ma, soprattutto, secondo il parere dell'Avvocato Generale, le disposizioni della Carta rappresentano il criterio di riferimento ultimo (proprio la cartina di tornasole cui si faceva cenno) per la validità del diritto derivato dell'Unione.

Infine, la «vita autonoma» del principio della parità di trattamento come principio generale di diritto o come diritto fondamentale sancito dalla Carta assume particolare rilievo ogni qualvolta la possibilità di ricorrere alla direttiva risulti ostacolata dal fatto che la controversia riguarda soggetti privati. Per la prima volta possiamo dire che quel concetto di “vita autonoma” espresso dalla Corte nella sentenza Kücükdeveci trova una sua chiara conformazione nelle conclusioni dell'Avvocato generale.

Nel caso Abercrombie il ricorrente era stato assunto dalla società convenuta con “contratto a chiamata a tempo determinato” di iniziali quattro mesi e poi prorogato in relazione al fatto che alla data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dall'1° gennaio 2012 il contratto c.d. “intermittente” era stato convertito in contratto a tempo indeterminato senza specificazione delle ipotesi legittimanti previste dal D.Lgs. n. 276/2003; terminato il 26 luglio 2012 il piano di lavoro, non era stato più inserito nella programmazione e, a seguito di scambi di e-mail gli era stato comunicato che avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno il requisito soggettivo dell'età, era da considerarsi cessato alla suddetta data.

Il giudice di primo grado aveva ritenuto l'improponibilità delle domande di declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento intimato – con richiesta di condanna alle conseguenze di cui all'art. 18 St.Lav. - respingendo quelle dirette ad accertare la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato.

La Corte di appello di Milano ha accolto l'impugnazione ritenendo la proponibilità di tutte le domande avanzate sul presupposto che la domanda diretta ad accertare il comportamento discriminatorio della società resistente non era, in realtà, domanda avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento, che sarebbe stata assoggettata, secondo parte appellante, al rito speciale di cui alla L. n. 92/2012, bensì domanda diretta ad ottenere la rimozione degli effetti della discriminazione, le cui conseguenze erano quelle di cui all'art. 18 St. Lav. e, cioè, la rimessione in servizio.

Per quanto concerne il comportamento discriminatorio, la Corte sottolinea come l'unico requisito rilevante al momento dell'assunzione del ricorrente ai sensi dell'art. 34 D.Lgs. n. 276/2003 fosse quello anagrafico (meno di 25 anni o più di 45).

Essa premette che la direttiva 2000/78/CE, al punto 25 delle premesse, rileva che il divieto di discriminazione basata sull'età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione, ma che, tuttavia, in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell'età possono essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione degli Stati Membri con riguardo a giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, purché i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

La Corte richiama, a questo punto, Mangold e Kücükdeveci nella parte in cui hanno statuito il carattere di principio generale del diritto comunitario della non discriminazione in ragione dell'età ed il compito del giudice nazionale, chiamato a dirimere una controversia, di assicurare la tutela che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, oltre ad aver riconosciuto la possibilità per gli Stati membri di predisporre contratti divergenti da quelli ordinari a tempo determinato pur in presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore, al fine di favorire l'occupazione di soggetti con difficoltà di accesso al lavoro e purché lo strumento utilizzato non fosse sproporzionato rispetto alla finalità da realizzare, richiedendo il rispetto del principio di proporzionalità che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con il fine perseguito.

Il pregnante riconoscimento dei divieti di discriminazione come espressione di un principio generale di uguaglianza, quale sancito soprattutto dalla seconda decisione con il suo richiamo all'art. 6 TUE e alla Carta di Nizza, dotata dello stesso valore giuridico dei Trattati, fa si, secondo la Corte, che il principio di uguaglianza viva “di una vita propria” che prescinde dai comportamenti attuativi o omissivi degli Stati membri. Osserva la Corte come dalla natura precisa ed incondizionata di tale principio discenda la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possano spiegare i propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocate dai privati verso lo Stato nonché verso altri privati.

La Corte di Giustizia, infine, precisa il Collegio, ha evidenziato che l'art. 6 della Direttiva 2000/78 impone, per rendere accettabile un trattamento differenziato in base all'età, due precisi requisiti dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il perseguimento degli obiettivi; requisiti, tuttavia, mancanti nel caso di specie, essendosi limitato il legislatore nazionale ad attribuire rilevanza esclusivamente all'età, allo scopo di introdurre un trattamento differenziato, senza alcuna altra condizione soggettiva del lavoratore (per es. disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile.

La eliminazione della necessità che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni) frutto delle modifiche apportate all'impianto originario dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 14 maggio 2005, n. 80, ha determinato l'intervento correttivo della Corte.

Il mero requisito dell'età, quindi, secondo il Collegio, non può giustificare l'applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un contratto a tempo indeterminato, e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i 25 anni di età non trova alcun ragionevole fondamento. Analogamente, nessuna giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del venticinquesimo anno, il contratto debba essere risolto.

Alla luce di tali argomentazioni, pertanto, secondo il giudice d'appello di Milano, si evidenzia il contrasto tra quanto disposto dal comma 2 dell'art. 34 del D.Lgs. 276/2003 ed i principi affermati dalla direttiva 2000/76, la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione, in quanto espressione di un principio generale dell'Unione Europea.

Ritenuto, allora, il contenuto discriminatorio della norma considerata, la Corte ha censurato il comportamento della società appellata che aveva proceduto all'assunzione dell'appellante con un contratto intermittente esclusivamente sulla base dell'età anagrafica e condannato la Abercrombie a rimuovere gli effetti della sua condotta discriminatoria e, ritenuto costituito tra le parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento al sesto livello e orario part time secondo quanto affermato dalle parti stesse e che tale contratto non era mai stato validamente risolto, ha condannato la società appellata a riammettere l'appellante nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno, quantificato sulla base della retribuzione media percepita dalla data della risoluzione del rapporto a quella della sentenza.

Il rapporto osmotico fra interpretazione conforme e disapplicazione, quando si parla di uguaglianza, appare di grande evidenza nella decisione della Corte d'Appello: la Corte richiama più volte l'obbligo di interpretazione adeguatrice e ne percorre le strade per assicurare un risultato conforme al diritto dell'Unione, risultato, tuttavia, che le appare alla fine impossibile, tanto da indurla ad optare per la disapplicazione della norma interna confliggente ritenendo, quindi, costituito fra le parti un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

La questione pregiudiziale e l'intervento della Corte

Nonostante il nucleo della sentenza, quello che concerne il carattere discriminatorio del regolamento contrattuale considerato, appaia molto succinto nella motivazione della Corte territoriale, esso non lascia adito a dubbi: il mero requisito dell'età, non accompagnato da ulteriori specificazioni, non può giustificare l'applicazione di un contratto pacificamente pregiudizievole per il lavoratore.

Gli obiettivi di politica del lavoro risultano estremamente confusi nel caso considerato - diremmo, a differenza di quanto avveniva con la legge Hartz nel caso Mangold - tanto da indurre la Corte d'Appello a ritenere insussistenti le ragioni giustificatrici della deroga al divieto di discriminazione per l'assenza di qualsivoglia richiamo ad una condizione soggettiva del lavoratore.

La sentenza è stata oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La società condannata, infatti, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18, L. n. 300/1970 sotto diversi profili, ha dedotto che erroneamente parte istante aveva azionato l'art. 28 D.Lgs. n. 150/2011 e art. 702-bis c.p.c. e, cioè la procedura speciale prevista in ambito antidiscriminatorio, mentre avrebbe dovuto agire mediante ricorso al procedimento di cui all'art. 1, co. 48 e segg. della L. 28 giugno 2012, n. 92; sul piano sostanziale, ha dedotto la violazione dell'art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 276/03, della direttiva 2000/78, nonché del principio generale comunitario di non discriminazione, poiché nella specie la normativa favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa essendo, quindi, sovrapponibile alla normativa dell'Unione. Chiedeva, poi, il ricorrente il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia deducendo, infine, in punto risarcitorio, l'esclusiva possibilità di ottenere il risarcimento del danno in luogo della conversione del contratto e, comunque, che il risarcimento del danno non avrebbe potuto essere commisurato alla media delle retribuzioni corrisposte.

La Corte richiama preliminarmente la propria consolidata giurisprudenza secondo cui l'inesattezza del rito non determina la nullità della sentenza salvo che la parte, in sede di impugnazione, indichi uno specifico pregiudizio processuale derivante dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte.

I giudici di legittimità osservano, a questo punto, che l'art. 34 potrebbe porsi in conflitto con il principio di non discriminazione per età che deve essere considerato un principio generale dell'Unione cui la direttiva 2000/78 da espressione concreta e che è sancito anche dall'art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati.

L'art. 6, n. 1, primo comma, infatti, della predetta Direttiva 2000/78, enuncia che una disparità di trattamento in base all'età non costituisce discriminazione laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari; la formula dell'art. 34 vigente all'epoca dei fatti di causa, tuttavia, mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell'art. 6, n. 1, primo comma, della Direttiva 2000/78.

Con ordinanza del 29 febbraio 2016, la Corte di legittimità ha, quindi, disposto, ai sensi dell'art. 267 del TFUE di chiedere, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia se la normativa nazionale di cui all'art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003, secondo cui il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all'età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 21, n. 1).

La vicenda è passata allora nelle mani della Corte di Giustizia, cui è stato rimesso il compito di chiarire se effettivamente nel caso in esame si sia verificato un intollerabile vulnus al principio generale di uguaglianza che imponesse la rimozione della norma interna con esso contrastante.

Con sentenza della prima Sezione del 19 luglio scorso, nella causa C-143/16 la Corte di giustizia fornisce la risposta attesa.

La Corte muove, come sempre, dall'art. 1 della Direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la lotta alle discriminazioni, per poi passare ad esaminare compiutamente il diritto interno onde rispondere alla questione pregiudiziale posta dalla Corte di cassazione circa il se la normativa nazionale di cui all'art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003, secondo la quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all'età, di cui alla direttiva 2000/78 e all' articolo 21, paragrafo 1 della Carta.

Preliminarmente i giudici di Lussemburgo richiamano la propria giurisprudenza secondo cui, quando adottano misure rientranti nell'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78, nella quale trova espressione concreta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il principio di non discriminazione fondata sull'età, ora sancito dall'articolo 21 della Carta, gli Stati membri e le parti sociali devono agire nel rispetto di tale direttiva (fra le altre, il richiamo è alla recente Corte di giustizia del 21 dicembre 2016, Bowman, C-539/15).

Il punto centrale diventa, quindi, verificare se una disposizione quale quella di cui al D.Lgs. n. 276/2003 comporti una disparità di trattamento basata sull'età, ai sensi dell'art. 2 della direttiva 2000/78.

Osserva la Corte che per «principio della parità di trattamento» si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'articolo 1 della medesima direttiva. L'art. 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 precisa che, ai fini dell'applicazione dell'articolo 2, paragrafo 1, della stessa, sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1 della direttiva, una persona è trattata in modo meno favorevole di un'altra in una situazione analoga.

Interessante la ricostruzione della Corte circa la figura del lavoratore (che, quindi, possa confluire nella normativa garantistica in esame) alla luce della normativa europea; la Corte precisa che, ai sensi dell'art. 45 TFUE, secondo una giurisprudenza europea costante, “tale nozione ha portata autonoma e non dev'essere interpretata restrittivamente”. Pertanto, deve essere qualificata come «lavoratore» ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ridotte da risultare puramente marginali e accessorie.

La caratteristica del rapporto di lavoro è, secondo tale giurisprudenza, la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima, prestazioni in relazione alle quali riceva una retribuzione (il richiamo è, in primis, alla nota sentenza del 3 luglio 1986, Lawrie-Blum, 66/85).

La Corte evidenzia che occorre vengano presi in considerazione elementi relativi non solo alla durata del lavoro e al livello della retribuzione, ma anche all'eventuale diritto a ferie retribuite, alla continuità della retribuzione in caso di malattia, all'applicabilità al contratto di lavoro di un contratto collettivo, al versamento di contributi e, nel caso, alla natura di questi ultimi (v., in tal senso, Corte Giust. 4 febbraio 2010, Genc, C-14/09).

Ancora una volta, tuttavia, nonostante i giudici di Lussemburgo affermino che verosimilmente va riconosciuta all'interessato la qualifica di lavoratore, viene chiarito che spetta al giudice del rinvio - che è l'unico ad avere conoscenza approfondita e diretta della controversia - verificare se effettivamente tale opzione possa essere confermata.

Passando più direttamente all'esame della questione inerente la discriminazione, la Corte afferma che il D.Lgs. n. 276/2003 ha introdotto due diversi regimi, non solo per l'accesso e le condizioni di lavoro, ma anche per il licenziamento dei lavoratori intermittenti, in funzione della fascia di età alla quale detti lavoratori appartengono.

Infatti, nel caso di lavoratori di età compresa tra i 25 e i 45 anni, il contratto di lavoro intermittente può essere concluso solo per l'esecuzione di prestazioni a carattere discontinuo o intermittente, secondo le modalità specificate dai contratti collettivi e per periodi predeterminati, mentre, nel caso di lavoratori di età inferiore ai 25 anni o superiore ai 45, la conclusione di un simile contratto di lavoro intermittente non è subordinata ad alcuna di tali condizioni e può avvenire «in ogni caso», e i contratti conclusi con lavoratori di età inferiore ai 25 anni cessano automaticamente quando i medesimi compiono 25 anni.

Ritiene quindi la Corte che, per l'applicazione di disposizioni come quelle di cui al procedimento in esame, la situazione di un lavoratore licenziato in ragione del solo compimento dei 25 anni di età è oggettivamente comparabile con quella dei lavoratori che rientrano in un'altra fascia di età.

Ne consegue che la disposizione considerata, nella parte in cui prevede che un contratto di lavoro intermittente possa essere concluso «in ogni caso» con un lavoratore di età inferiore a 25 anni e cessi automaticamente quando il lavoratore compie 25 anni, introduce una disparità di trattamento basata sull'età, ai sensi dell'art. 2, paragrafo 2, lettera a), della Direttiva 2000/78.

Ma il vero nodo gordiano è ora stabilire se tale disparità di trattamento possa ritenersi giustificata.

È la stessa Direttiva 2000/78, all'art. 6, paragrafo 1, ad affermare che gli Stati membri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Il richiamo è, quindi, all'ampio margine di discrezionalità di cui godono gli Stati membri, non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo (sul punto, si veda Corte di giustizia 11 novembre 2014, Schmitzer, C-530/13).

La flessibilità del mercato del lavoro, quale strumento per incrementare l'occupazione, al centro, secondo la Corte, della scelta politica operata dal legislatore italiano; in particolare, la facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente «in ogni caso» e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l'obiettivo, secondo quanto sostenuto dalla difesa, di favorire l'accesso dei giovani al mercato del lavoro.

Secondo la Corte, come sottolineato dal Governo, l'assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani.

D'altro canto, la possibilità di entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un'esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo, può costituire un trampolino verso nuove possibilità d'impiego.

La Corte ritiene di valorizzare il passaggio della difesa nazionale incentrato sul rilievo che assume, per i giovani, un primo accesso al mercato del lavoro anche se non su base stabile. Si tratterebbe, quindi, di fornire loro una prima esperienza, che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Conseguentemente, la disposizione sarebbe relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro.

Nodale l'essere rivolte tali agevolazioni ai giovani alla ricerca di un primo impiego e, cioè, ad una delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale.

Viene rammentato, quindi, che, ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, co. 2, lettera a), della Direttiva 2000/78, la disparità di trattamento può consistere nella «definizione di condizioni speciali di accesso all'occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori più anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l'inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi».

Secondo i giudici di Lussemburgo, assume rilievo incontestabile la circostanza che la promozione delle assunzioni costituisce una finalità legittima di politica sociale e dell'occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favorire l'accesso dei giovani all'esercizio di una professione (sul punto, in particolare, Corte Giust. 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C-159/10 e C-160/10). La stessa giurisprudenza europea aveva già affermato, d'altro canto, che l'obiettivo di favorire il collocamento dei giovani nel mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimento professionale e assicurare la protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 (Corte Giust. 10 novembre 2016, de Lange, C-548/15) ed in particolare come rappresenti una finalità legittima l'agevolazione dell'assunzione di giovani lavoratori aumentando la flessibilità nella gestione del personale (non può non richiamarsi, in tal senso, Corte Giust. 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, C-555/07).

Conclude, quindi, la Corte, che la disposizione nazionale oggetto d'esame, avendo la finalità di favorire l'accesso dei giovani al mercato del lavoro, persegue una finalità legittima, ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78.

Occorre tuttavia un ultimo passaggio: verificare se i mezzi adoperati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

La Corte non si sofferma sugli aspetti che avevano influenzato il giudice d'appello e, cioè, la previsione di un requisito di età privo di qualsivoglia altra condizione soggettiva del lavoratore (per es. disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale) nonché della finalizzazione della scelta per un obiettivo individuabile.

La eliminazione della necessità che il lavoratore fosse in stato di disoccupazione (se minore di 25 anni) ovvero che fosse espulso dal ciclo produttivo o iscritto nelle liste di collocamento o mobilità (se di età superiore a 45 anni) frutto delle modifiche apportate all'impianto originario dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in L. 14 maggio 2005, n. 80, non assume alcun peso nella decisione della Corte di giustizia.

Relativamente all'adeguatezza, si rileva che una misura che autorizza i datori di lavoro a concludere contratti di lavoro meno rigidi, tenuto conto dell'ampio potere discrezionale di cui godono gli Stati membri in materia, può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibilità sul mercato del lavoro, in considerazione della probabile tendenza delle aziende ad essere sollecitate dall'esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e, quindi, incentivate ad assorbire maggiormente la domanda d'impiego proveniente da giovani lavoratori.

Infine, in ordine alla necessarietà della disposizione considerata si osserva, sposando le conclusioni della società Abercrombie, che, in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si ritrovi disoccupato. Secondo il Governo italiano, d'altro canto, dette forme flessibili di lavoro sono necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l'accesso a tale mercato delle persone minacciate dall'esclusione sociale, eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali, mentre il massimo accesso a tali forme agevolate può essere possibile soltanto se non se ne garantisce la stabilità.

Le tutele che accompagnano le misure, e, soprattutto, l'impossibilità di assegnare al lavoratore intermittente un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte, confermano ulteriormente la adeguatezza della scelta.

Valorizzando, quindi, l'ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell'occupazione, ma, altresì, nella definizione delle misure atte a realizzarlo, la Corte dichiara che l'art. 21 della Carta nonché l'art. 2, paragrafo 1, l'art. 2, paragrafo 2, lettera a), e l'art. 6, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che essi “non ostano a una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”.

Resta un interrogativo: quello, di difficile soluzione, concernente se la vicenda avrebbe avuto il medesimo esito qualora fosse stata posta non sotto il delicato profilo del divieto di discriminazioni per età - che consta, è innegabile, di una certa ambivalenza connotata da sfumature politico-sociali - bensì con riferimento ai lavoratori comparabili nell'ambito della normativa sui rapporti a tempo determinato.

Ci troviamo, infatti, di fronte ad un contratto di lavoro a chiamata poi trasformato in contratto sempre a chiamata ma a tempo indeterminato. Orbene, qualora si fosse ritenuto che un tale tipo di rapporto sia collocabile nell'ambito di applicabilità della direttiva sui contratti a termine, si sarebbe potuto ipotizzare che nel recesso si ponga una questione di discriminazione con i lavoratori comparabili (verificabile addirittura durante il rapporto di lavoro, potendo aversi plurime chiamate senza limiti).

Si sarebbe trattato, quindi, di una discriminazione lavoristica stricto sensu, mentre nel caso di specie ci si è mossi da subito nell'ambito del divieto di discriminazione per età che pone profili realmente difficili, in considerazione dell'alto tasso di disoccupazione dei giovani italiani e dell'allargamento delle possibilità lavorative consentito pur dal peculiare contratto in questione.

La Corte di Cassazione: la decisione n. 4223 del 2018

Tornando alla vicenda così come si è svolta, in esito alla decisione sul rinvio pregiudiziale, essa è tornata allora dinanzi alla Sezione Lavoro della Corte di cassazione che, alla luce della interpretazione della Corte di giustizia, con la decisione n. 4223 del 2018 ha ritenuto fondato, accogliendolo, il secondo motivo del ricorso proposto dalla società Abercrombie con cui era stato dedotto l'errore della Corte d'appello nel ritenere violato il principio di non discriminazione per età così come sancito dalla Direttiva 2000/78/CE e dall'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Il Collegio esordisce evidenziando che la CGUE ha offerto una risposta univoca ed esaustiva ai quesiti formulati in sede di rinvio, nell'escludere che le norme di fonte UE ostino ad una disposizione nazionale come quella oggetto del procedimento principale che autorizza la conclusione di contratti di lavoro con giovani infraventicinquenni.

La Corte di cassazione prende atto di tale conclusione e dell'obiettivo principale e specifico della disposizione controversa come indicato dal Governo italiano, in quanto diretto non a consentire ai giovani un accesso al mercato del lavoro su base stabile, bensì unicamente a riconoscere loro una prima possibilità di accesso a detto mercato, onde garantire una prima esperienza che possa successivamente porli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro: una fase, quindi, antecedente rispetto al pieno accesso al mercato del lavoro. Il Collegio sottolinea che dette considerazioni legate all'accesso al mercato del lavoro sono applicate ai giovani alla ricerca di un primo impiego e, pertanto, ad una delle categorie di persone più a rischio di esclusione sociale e che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell'occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favorire l'accesso dei giovani all'esercizio di una professione (il richiamo è a Corte Giust. 21 luglio 2011, Fuchs e Kohler, causa C – 159/10).

Punto centrale diventa, allora, la questione inerente il se i mezzi adoperati per perseguire detta finalità siano appropriati e necessari e sappiamo già come la Corte di giustizia l'abbia risolto.

Come accennato nell'incipit di questo contributo, la competenza esclusiva della Corte di giustizia in ordine all'interpretazione del diritto dell'Unione rappresenta il leit motiv della sentenza resa in sede di rinvio ed essa rileva anche in ordine ad eventuali deroghe in relazione a specifici obiettivi di politica sociale, in particolar modo alla luce del punto 6.1 della Direttiva 2000/78/CE che consente agli Stati di derogare al principio di uguaglianza di trattamento per ragioni di età in relazione al perseguimento da parte della legislazione nazionale di una “finalità legittima ivi compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale”.

Rientrava, quindi, ad avviso del Collegio, nei poteri della Corte valutare direttamente la sussistenza dei presupposti della deroga alla luce della portata complessiva della normativa europea antidiscriminatoria, nonché degli effettivi scopi perseguiti dal legislatore statale e da quello sovranazionale. Il Trattato di Lisbona, d'altro canto, ha rafforzato i compiti dell'Unione in ambito antidiscriminatorio mediante i già citati artt. 2 TUE e 10 TFUE mentre l'attribuzione disposta dall'art. 6 TUE alla Carta dei diritti fondamentali e, quindi, al suo art. 21, dello stesso valore giuridico dei Trattati ha fatto il resto. Su questo punto, nodale per le ragioni già accennate, bisognerà ritornare.

Il Collegio ricorda che l'art. 4 del TFUE rende “concorrente” tra Stati ed Unione la competenza a legiferare nelle politiche sociali, ma aggiunge che l'art. 2 precisa che gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l'Unione non abbia esercitato la propria e che, pertanto, anche in ambito sociale, una volta intervenuta una normativa sovranazionale, è il contesto europeo – con i suoi obiettivi e le sue finalità - che va prioritariamente vagliato ai fini dell'accertamento della legittimità di una disciplina nazionale. Ed è proprio l'insieme di innovative disposizioni riconducibili al Trattato di Lisbona che ha indotto la Corte di giustizia ad esaminare direttamente tutti i contorni della vicenda compreso lo stesso merito delle scelte legislative interne e le concrete modalità della legge nazionale, secondo quello che è il suo potere nei rapporti fra gli ordinamenti, anche alla luce dell'art. 19 del Trattato, che impone agli Stati membri l'adozione dei rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione.

La Corte di cassazione allora, alla luce dell'art. 267 TFUE e dell'obbligo di collaborazione sancito dall'art. 4 comma terzo TUE in base al quale gli Stati membri adottano ogni misura atta a garantire l'esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione (disposizione, questa, su cui anche torneremo fra poco), nonché dello stesso art. 19 TUE, non può che attenersi a quanto accertato dalla Corte di giustizia, non avendo il potere di darne una interpretazione diversa, in quanto il giudizio di rinvio non si configura come una sede nella quale sia possibile contestare od impugnare quanto deciso dalla Corte di giustizia; quest'ultima, peraltro, a differenza di quanto fa in moltissimi altri casi, in quello di specie non ha demandato al Giudice del rinvio alcuna ulteriore verifica, avendo, infatti, esaminato tutti gli aspetti della vicenda sottopostale ex art. 267 senza seguire, sul punto, la strada profilata dall'Avvocato Generale.

Nell'esaminare, poi, le censure avanzate dalla difesa del lavoratore, il Collegio esclude la possibilità di ricorrere nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, per avere quest'ultima esaminato tutti gli aspetti rilevanti in sede sovranazionale della vicenda e ritenuto la disposizione oggetto di censura “appropriata e necessaria”. Ma il Collegio ritiene, altresì, di disattendere anche la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, alla luce dell'art. 3 Cost., sottopostale per difetto di ragionevolezza della previsione di estinzione del rapporto. A prescindere dalla genericità della prospettazione, che si limita a far valere l'irragionevolezza di un trattamento differenziato a cagione delle “condizioni personali” dei giovani, fra le quali rientrerebbe l'età, il Collegio evidenzia ancora una volta come la deroga al principio della parità di trattamento sia giustificata da finalità di natura sociale come previsto direttamente dalla Direttiva 2000/78/CE escludendo i dedotti profili discriminatori.

E' evidente, secondo la Corte, che qualora il rapporto lavorativo potesse proseguire oltre il venticinquesimo anno di età e potesse essere sciolto solo secondo i criteri generali, sarebbe compromessa la ratio della disposizione globalmente intesa nel senso di favorire l'impiego attraverso l'utilizzazione del lavoro intermittente, ratio questa vagliata dalla Corte di Lussemburgo che l'ha ritenuta legittima alla luce della direttiva nonché dello stesso art. 21 CDFUE.

Non vi sono ragioni, afferma il Collegio, per ritenere che la Carta costituzionale offra una tutela antidiscriminatoria più incisiva di quella derivante dalle fonti sovranazionali, soprattutto alla luce delle più recenti evenienze legislative, volte a rafforzare le politiche e gli strumenti di contrasto alla discriminazione sul lavoro, facendone un momento prioritario di regolazione da parte dell'Unione, oltre che oggetto di supervisione mediante l'Agenzia per i diritti fondamentali e i periodici Report della Commissione e del Parlamento sul rispetto della Carta dei diritti.

Il Collegio richiama, a questo punto, le più recenti ed accreditate opinioni dottrinali per affermare che, proprio nel settore del contrasto alla discriminazione deve ritenersi verificata una “fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l'art. 14 della CEDU), reso più spontaneo ed efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall'Unione …Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione della questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo della irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perché nel settore le politiche dell'Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale”.

Osservazioni

Questo, a parere di chi scrive lo straordinario punto di sutura della sentenza in esame, quello che consente davvero di far apparire un bagliore nella nebbia dei rapporti interordinamentali innegabilmente creatasi a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 14 dicembre 2017.

Scriveva autorevole dottrina (Bin) un po' di tempo fa che ognuna delle Corti ha una propria irriducibile opinione e quello che noi amiamo chiamare dialogo è anzi un'actio finium regundorum o addirittura un atto interruttivo dell'usucapione. L'usucapione è, ovviamente, riferita alle originarie competenze delle Corti ed al rischio strisciante di erosione dovuto alla compresenza nello stesso spazio giuridico di ben tre Carte dei diritti non gerarchizzabili tra loro.

Con la sentenza n. 269 la Corte Costituzionale sembra proprio aver posto in essere tale atto interruttivo: con il famoso punto 5.2 la Corte ammonisce circa l'impossibilità di ricorrere al sindacato diffuso di costituzionalità con effetti disapplicativi operato per il tramite della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e cioè afferma chiaramente che ogni qualvolta in sede interpretativa sia necessario intervenire disapplicando, sulla base della Carta, la normativa nazionale, i giudici comuni non potranno che far ricorso al sindacato incidentale di costituzionalità.

Viene da chiedersi se fosse proprio necessario. Per coloro che sono cresciuti a “pane e Simmenthal” il principio era uno solo, quello in base al quale il giudice nazionale incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le norme del diritto dell'Unione ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando ove occorra, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.

Come è stato congruamente osservato (Rossi), d'altro canto, «una limitazione del potere/dovere dei giudici nazionali di rinviare alla CGUE per chiedere lumi sull'interpretazione e sulla portata della Carta si porrebbe in diretto contrasto con la sentenza Simmenthal e con il principio di leale cooperazione di cui all'art. 4 TUE».

Eppure la sentenza della Corte costituzionale - che non sembra far correre questo ultimo rischio alla luce dell'inciso finale dello stesso punto 5.2 - lascia residuare delle perplessità.

La svolta connessa all'ormai famoso obiter dictum non è del tutto chiara, soprattutto in quanto si inserisce come osservato, (Conti), in un contesto in cui il giudice nazionale dialoga perfettamente con la Corte di giustizia, potendo contare in tempi rapidi sull'ausilio della Corte che, ce lo dice chiaramente la sentenza Melki, vede le vicende inerenti il contrasto fra norma interna e norma comunitaria (utilizzo volutamente improprio del termine ma giustificato tenendo a mente l'art. 2) assistite da una “presunzione di rilevanza” giungendo ad escludere la propria competenza solo qualora la questione stessa si presenti manifestamente disancorata rispetto al diritto dell'Unione o sia meramente ipotetica, ovvero la Corte non disponga di elementi di fatto o di diritto che le consentano di decidere la causa.

Il punto nodale della sentenza n. 269 risiede allora nella questione della “sovrapponibilità” tra le disposizioni della Carta UE ed i diritti garantiti dalla Costituzione, sovrapponibilità da cui discenderebbe, in caso di presunta lesione, secondo la Corte, un inammissibile sindacato diffuso che imporrebbe, quindi, il ricorso al controllo accentrato di costituzionalità.

E' evidente che la omogeneità di valori, cui la Corte pare conferire un rilievo nuovo ed assorbente solo oggi, trascorsi diversi anni dal riconoscimento alla Carta, con Lisbona, del rango di diritto primario dell'Unione segna un cambio di passo rispetto alla giurisprudenza Granital e pone in crisi alcune collaudate categorie definitorie.

Nondimeno, la sentenza della Sezione Lavoro in commento riesce a chiudere superbamente il cerchio nel valorizzare (anziché demonizzare) quella “fusione di orizzonti” che conduce ad escludere una più incisiva tutela antidiscriminatoria in sede nazionale.

Un punto, ovviamene va sottolineato: il fulcro del giudizio anche in sede comunitaria era l'art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003; ma la centralità dell'art. 21 della Carta in sede di rinvio pregiudiziale appare di tutta evidenza. Non v'è dubbio d'altro canto che la Corte di giustizia abbia in qualche modo particolarmente enfatizzato il riferimento alla Direttiva 2000/78/CE, per tale via rendendo meno “drammatico” il tema centrale che (allora lo ignorava) avrebbe poi impegnato la Corte costituzionale e la giurisprudenza nazionale e sovranazionale successiva oltre che la dottrina.

D'altro canto, potrebbe dirsi, la Corte di Cassazione in sede di rinvio si è trovata in una situazione privilegiata perché non ha dovuto confrontarsi con uno qualsiasi dei valori espressi dalla Carta, ma si è fortunosamente imbattuta in quel principio di uguaglianza e non discriminazione che assume un ruolo del tutto particolare in ambito interno ma, soprattutto, in ambito comunitario.

Ad oltre dieci anni di distanza da Mangold i percorsi argomentativi compiuti dalla Corte rispetto al D.Lgs. n. 276/2003 non sono dissimili rispetto a quelli concernenti la legge Hartz. Ancora una volta la Corte entra nell'esame diretto e concreto della normativa nazionale valutandone congruità e adeguatezza rispetto alle esigenze di politica occupazionale sottese alle misure discriminatorie adottate dal legislatore interno e, nel farlo, conferma il ruolo dell'uguaglianza come metaprincipio del diritto dell'Unione.

Uguaglianza e non discriminazione emergono come concetti per così dire mainstreaming, del diritto dell'Unione,quelli che non si risolvono in una competenza, ma tagliano trasversalmente tutto il diritto sovranazionale e che, muovendo dalla parità retributiva fra uomini e donne, sono approdati prepotentemente sui divieti di discriminazione per età ampliando enormemente il proprio raggio di azione: secondo la nota immagine di Supiot, in base alla quale, «non tener conto delle ineguaglianze, di fatto, significa lasciare pieno gioco ai rapporti di forza».

In un sistema in cui il contenuto dell'art. 2 TUE rimane “sostanzialmente vago”, il principio generale di uguaglianza appare sempre più significativamente uno dei principi ordinatori della Comunità. Le disposizioni sull'uguaglianza di fronte alla legge, che appartengono alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, si stagliano, nell'interpretazione offertane dalla Corte di Giustizia, quale strumento cardine per la salvaguardia degli european values e per i diritti fondamentali di derivazione domestica.

Ma una domanda finale pur in questo breve commento a caldo della sentenza n. 4223 del 2018 della Corte di Cassazione non può non sorgere a chi si accinga ad uno sguardo della situazione interordinamentale nel suo complesso: cosa sarebbe accaduto se la sentenza n. 269 fosse intervenuta prima della rimessione in via pregiudiziale alla Corte di giustizia?

Almeno tre strade si sarebbero aperte al giudice di legittimità ad avviso di chi scrive.

La prima: “ il braccio periferico” del sistema giurisdizionale europeo (l'espressione, bellissima, è di Cartabia), nella specie, la Corte di cassazione avrebbe potuto tentare uno sforzo ulteriore e, con ruolo protagonista cercato di colmare in via interpretativa l'apparente gap fra normativa interna e normativa antidiscriminatoria sovranazionale.

Gioca qui un ruolo centrale l'interpretazione conforme, quella percorsa tanto strenuamente dalla Corte d'appello ma che poi era culminata nell'extrema ratio della disapplicazione dell'art. 34 D.Lgs. n. 276/2003, ritenuto inconciliabile con la Direttiva 2000 e con l'art. 21 della Carta. Appare allora nella sua immediatezza quello che è stato definito da autorevole dottrina (Ruggeri) il “tallone di Achille” della sentenza 269.

Proprio da quella pronunzia deriverà senza dubbio «...una spinta vigorosa per un uso ancora più insistito e incisivo del canone dell'interpretazione conforme». E' quanto, ad avviso di chi scrive, ritroveremo sicuramente nel futuro dei giudici comuni.

La seconda: una rimessione alla Corte costituzionale come suggerito dalla recente Cass. n. 3831/2018. In quella pronunzia la Corte reputa nel caso di specie necessario, in presenza di doppia pregiudizialità, rimettere la questione alla Corte costituzionale (salva la eventualità che sia quest'ultima a ritenere di adire in via pregiudiziale la Corte di giustizia). Essa precisa, infatti, che la doppia pregiudizialità sarebbe stata risolvibile, alla stregua della giurisprudenza costituzionale anteriore alla sentenza n. 269/2017 (il richiamo è a ord. 18 luglio 2013 n. 207, nonché, da ultimo, ord. 2 marzo 2017 n. 48 e sent. 12 maggio 2017 n. 111), verificando la compatibilità dell'art. 187-quinquiesdecies T.U.F. con l'art. 47 CDFUE; ciò avrebbe potuto verificarsi eventualmente dopo aver richiesto alla Corte di giustizia la sua interpretazione dell'art. 47, mediante rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, obbligatorio per il giudice di legittimità e procedendo, in caso di verifica negativa, alla non applicazione, in parte qua, dell'art. 187 T.U.F., oppure, in caso di verifica positiva, alla instaurazione di un giudizio incidentale di costituzionalità in ordine a parametri diversi da quello di cui agli art. 11 e 117 Cost. in relazione all'art. 47 CDFUE.

Ma il Collegio aggiunge poi che tale modalità operativa va, tuttavia, rimeditata, alla luce della precisazione offerta dalla Corte costituzionale con la sentenza 14 dicembre 2017 n. 269 in ordine all'ipotesi di contrasto tra la norma interna e quelle disposizioni del diritto dell'Unione europea, suscettibili di applicazione diretta, che siano contenute nella CDFUE.

La terza: la Corte avrebbe potuto comunque ritenere di investire la Corte di giustizia in via pregiudiziale ex art. 267 per scandagliare la compatibilità dell'art. 34 D. Lgs. n. 376/2003 con la Direttiva 2000/78/CE nonché con l'art. 21 della Carta, prendendo alla lettera la precisazione della Corte costituzionale che fa salva, anche in caso di coincidenza di valori fra le due Carte, l'interpretazione di quella europea da parte della Corte di giustizia. Avrebbe così il giudice di legittimità salvaguardato il corretto adempimento del proprio obbligo di leale collaborazione di cui all'art. 4.3 TUE e le conseguenze sarebbero state quelle che conosciamo.

Resta, infatti, ciò che sappiamo essere realmente accaduto. La Corte di Cassazione nella sentenza n. 4223 aveva la strada spianata dalla Corte di giustizia, eppure ha, ancora una volta, esercitato egregiamente, chiarendo anche i rapporti con la Carta costituzionale, il proprio gravoso impegno teso a “conciliare l'inconciliabile” (per usare l'icastica espressione dell'Avvocato generale Poiares Maduro nelle conclusioni della causa Arcelor Atlantique et Lorraine) e, nel farlo, ha chiarito anche al giudice comune cosa fare in presenza di un principio fondamentale quale quello di uguaglianza e non discriminazione, sovraordinato ed immediatamente applicabile.

Sembrava impossibile, ai tempi di Mangold, che la nostra legislazione interna potesse formare oggetto di un rinvio pregiudiziale in termini di possibile lesione del divieto di discriminazione per età. La proliferazione normativa e la frammentazione dei tipi contrattuali ha reso evidente, tuttavia, anche per il nostro ordinamento, la continua necessità di verificare la compatibilità dei nuovi strumenti contrattuali con i principi dell'Unione consolidatisi intorno al principio generale di uguaglianza; la Carta, in tale percorso, resta la vera e propria cartina di tornasole circa lo stato di salute dei diritti fondamentali in Europa.

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