Impugnazione del riconoscimento di paternità e tipologia della prova
28 Febbraio 2018
Massima
Dopo le modifiche normative apportate al diritto di famiglia nel 2012 e nel 2013 non può più seguirsi la concezione per cui l'impugnazione del riconoscimento, avente natura confessoria, richiede la prova dell'assoluta impossibilità di procreare nel soggetto autore del riconoscimento; essendo l'indagine genetica l'unica forma di accertamento attendibile in ogni fattispecie di ricerca, in giudizio, della filiazione. Il caso
Nel giudizio di primo grado fu dichiarata fondata l'azione di impugnazione del riconoscimento di paternità che lo zio dell'attore aveva in tempo risalente effettuato nei confronti di tre persone, dichiarate, con atti trascritti nel registro delle relative nascite, come suoi figli naturali. Su gravame di uno di costoro (avendo gli altri effettuato acquiescenza alla pronuncia), la Corte di appello confermò la decisione sulla base di una pluralità di elementi di prova, tra i quali: il rifiuto dei convenuti a consentire l'indagine del DNA sul corpo del defunto; la mancata menzione dei supposti figli naturali nel testamento del predetto, contenente disposizioni a solo favore del nipote; l'esistenza di una procura rilasciata con atto notarile nella quale il deceduto dichiarava di essere celibe e di non avere figli. La sentenza della Corte territoriale è stata impugnata sotto diversi profili, dei quali il principale trae argomento da una interpretazione di norme consolidata nella giurisprudenza di legittimità. Il ricorrente ricorda che nelle azioni per riconoscimento di paternità o maternità e di contestazione della legittimità la prova a carico di chi agisce non ha un contenuto predeterminato mentre, per indirizzo interpretativo costante, nell'azione di impugnazione del riconoscimento occorre dimostrare l'assoluta impossibilità di procreazione nella persona dell'autore del riconoscimento. Nella vicenda di specie questa prova rigorosa non era stata fornita, dall'attore, mentre il giudice di appello aveva applicato i criteri di giudizio valevoli per le azioni di stato diverse da quella di impugnazione dell'atto di riconoscimento. Per tal modo, si è asserito, la decisione risultava affetta dalla violazione e/o falsa applicazione degli artt. 263, 235 e 2697, comma 1, c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.. La questione
Il ricorrente ha censurato la pronuncia della Corte di appello per aver essa ritenuto applicabili criteri di giudizio utilizzabili in relazione ad istituti giuridici diversi rispetto a quello cui si riferiva il giudizio. Valgono, si sostiene, per le azioni di riconoscimento o disconoscimento di paternità regole interpretative e applicative difformi da quelle concernenti l'impugnazione del riconoscimento. Nelle azioni di riconoscimento o di disconoscimento la prova a carico dell'attore è libera. Per l'azione di impugnazione si è sempre ritenuto che l'onere probatorio per chi propone la domanda è più rigoroso e comporta la prova di una impossibilità, in assoluto, della capacità a procreare nell'autore del riconoscimento che si pretende sia inveritiero. Ritenere sufficiente, come è avvenuto nel caso di specie, una prova di contenuto più generico significa, nell'assunto sottoposto all'esame della Suprema Corte, aver travisato il disposto legislativo e aver ignorato l'elaborazione giurisprudenziale. Le soluzioni giuridiche
La Corte ha riconosciuto che, nel risolvere questioni del genere di quelle oggetto del processo, la giurisprudenza si era per anni conformata (sin dalla pronuncia di sez. I, 2 agosto 1990, n. 7700) all'orientamento interpretativo cui si era riferito il ricorrente nei suoi motivi di gravame. Si affermava, in effetti, costantemente che l'impugnazione del riconoscimento di paternità poteva essere accolta soltanto ove fosse fornita la prova dell'assoluta incapacità a procreare dell'autore del riconoscimento impugnato. Il relativo orientamento traeva giustificazione dall'attribuzione al riconoscimento di paternità o maternità di una natura confessoria, posto che il suo autore ammetteva, con esso, un fatto a sé sfavorevole e, in sostanza, una circostanza colpevole: quella di avere avuto un figlio fuori dalla legittimità del matrimonio. Per questa ragione, il riconoscimento avrebbe potuto essere superato (facendone constare il difetto di veridicità) unicamente dalla risultanza dell'assoluta impossibilità biologica a diventare padre nel soggetto dichiaratosi genitore. Nel discostarsi dal ricordato orientamento interpretativo, con l'innovativa sentenza si afferma che, successivamente alle riforme del diritto di famiglia apportate negli anni 2012 e 2013, la concezione precedentemente seguita non può più essere confermata. Occorre, infatti, prendere atto dell'avvenuto avvicinamento di disciplina legislativa delle azioni di riconoscimento e di disconoscimento con quella di impugnazione del riconoscimento. Per quest'ultima è stato soppresso il precedente regime di sua imprescrittibilità, se azionata da soggetti diversi dal figlio, con conseguente eliminazione di un aspetto che la differenziava dalle altre citate azioni in tema di status. Le modificazioni normative in tal senso giustificano oggi anche l'allineamento dell'orientamento giurisprudenziale in tema di prova nell'ambito di tutte le azioni di stato: dovendosi affermare che il diritto vigente richiede che sia il favor veritatis ad orientare le valutazioni da compiere in ogni ipotesi di accertamento o disconoscimento della filiazione, salvi soltanto i casi in cui è la legge a prevedere altrimenti. Per quanto specificamente concerne la prova, si conclude, già era stato osservato dalla Corte che l'indagine genetica è l'unica forma di accertamento attendibile nella ricerca della filiazione. Questa circostanza appare idonea a consentire di valorizzare il contegno della parte che (come era avvenuto nella specie) si opponga all'espletamento della consulenza tecnica, in ciascun tipo di azione concernente la verità della filiazione come evento riferibile ad un preciso soggetto. Osservazioni
In una società benpensante e osservante dei principi espressivi della così detta buona borghesia, la filiazione naturale costituiva un evento riprovevole perché contrario alla morale delle famiglie. In allora, chi addiveniva a riconoscere taluno come proprio figlio nato fuori dal matrimonio ammetteva di avere trasgredito alle regole e dunque confessava una colpa: e a questa manifesta ammissione non poteva essere spinto da ragione diversa dall'intrinseca verità della circostanza che si induceva a rendere pubblica. In questo contesto si giustificava un orientamento interpretativo che, quando si trattava di esaminare in giudizio la fondatezza di un riconoscimento, sotto forma di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento già effettuato, richiedeva di potersi credere soltanto ad una diversa verità inconfutabile: quella della accertata, oggettiva e assoluta impossibilità fisico-biologica di paternità naturale nel soggetto autore del riconoscimento. Nel conflitto tra l'attendibilità della confessione (un tempo definita la “regina delle prove”) e una difforme realtà storica, quest'ultima non poteva venire a risultare se non da una dimostrazione contraria alla presunzione di veridicità che assiste, in genere, la confessione. Un profondo mutamento nei valori della società e nella posizione della famiglia come istituto fondato sul matrimonio ha indotto il legislatore ad adeguare la legislazione con modifiche delle quali la giurisprudenza ha dovuto prendere atto, sia per quanto concerne il nuovo dettato normativo e sia per quanto riguarda la ratio mutata che di tale dettato costituisce la ragione giustificatrice. Il riconoscimento di un figlio naturale non è più, oggi, l'ammissione di una colpa. Innanzitutto, quel figlio ha pari dignità e diritti di tutti gli altri figli, siano oppur no nati in occasione di matrimonio. Inoltre, il suo riconoscimento giuridico costituisce oggi un atto di responsabilità che è dovuto a chi nasce per atto di procreazione considerato fonte di obblighi giuridici per il fatto stesso di arricchire la società di un nuovo nato. Infine, ogni aspetto di negatività che circondava la nascita illegittima è caduto, nella denominazione accolta nel diritto positivo e, prima ancora e soprattutto, nella considerazione etica generale. I rapporti che legano le persone in nuclei familiari si sono radicalmente trasformati, con l'emersione della necessità di conferire dignità anche giuridica alle convivenze di fatto nonché alle unioni civili tra persone del medesimo sesso. Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha tratto le conseguenze di una evoluzione innegabile. Il motivo formulato dal ricorrente per opporsi all'impugnazione proposta da terzi (un nipote) avverso l'atto che lo aveva riconosciuto come figlio naturale seguiva la corrente interpretativa pluriennale formatasi in proposito e dunque appariva fondato a chi lo formulava, perchè saldamente ancorato a principi recepiti e riaffermati dalla giurisprudenza di legittimità. Ancora Cass. civ., sez. I, n. 3944/2016 e Cass. civ., sez. I, n. 17970/2015, tra le più recenti, avrebbero accolto un siffatto motivo di ricorso, posto che perpetuavano l'orientamento interpretativo che richiedeva, per l'accoglimento dell'impugnazione del riconoscimento, quella prova dell'assoluta impossibilità di procreare nell'autore del riconoscimento che l'attore nel caso specifico non aveva fornito. La pronuncia innovativa ha interrotto e posto fine ad un tale orientamento, che si risolveva in un tralatizio modo di ripetersi; e ne ha posto in evidenza le radici legate ad una realtà non più attuale. Tutte le azioni di stato, si osserva nella decisione, hanno in comune la medesima questione di ricerca e di accertamento della verità della filiazione. Il legislatore può imporre limitazioni e differenze ma unicamente per esigenze che devono avere, comunque, un riscontro costituzionale: esse non sono giustificate quando comprimono questi interessi di grado superiore. Proprio per questa ragione le riforme del diritto di famiglia hanno soppresso l'imprescrittibilità dell'azione di impugnazione del riconoscimento di paternità o maternità, quando esercitata da soggetti diversi dal figlio, in modo da far sì che la contestazione del suo stato resti circoscritta nel tempo, in nome della stabilità della di lui condizione, secondo il prevalente principio del favor filiationis. Ne è seguito un avvicinamento normativo tra tutte le azioni di stato, per le quali, posto che esse hanno in comune la ricerca della verità, si pone come comune anche il problema della prova. Non hanno giustificazione differenziazioni o restringimenti: l'unica e comune prova affidabile è costituita dall'indagine genetica sul DNA. Sul punto la sentenza ricorda la pronuncia di Cass. civ., sez. I, n. 23290/2015.
|