Questioni in tema di poteri istruttori ufficiosi del giudice
28 Febbraio 2018
I poteri istruttori del giudice civile e il principio dispositivo
Il numero dei casi in cui il giudice può attivarsi con finalità istruttoria è anche nel rito ordinario, estremamente significativo, tanto da far dubitare a parte della dottrina, che il processo civile possa dirsi effettivamente dominato così come sembrerebbe dalla lettera dell'art. 115 c.p.c., dal principio della “indisponibilità delle prove”. In particolare si pensi nel processo civile ordinario alle seguenti ipotesi: interrogatorio libero delle parti (art. 117 e 183 c.p.c.); ordine di esibizione, rivolto ad un imprenditore che sia parte in causa, dei libri e delle scritture contabili (la cui tenuta è obbligatoria per le imprese soggette a registrazione) nonché di lettere, telegrammi e fatture (art. 2711 c.c.); la nomina del consulente tecnico (artt. 61 e 191 ss. c.p.c.) nei limiti in cui la consulenza tecnica sia mezzo di prova; la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione (art. 213 c.c.); il giuramento suppletorio e quello di estimazione (artt. 240 e 241 c.p.c.); la prova testimoniale in talune specifiche ipotesi (arrt. 253, comma 1 c.p.c., art. 257, comma 2, c.p.c. e art. 281-ter c.p.c.). Inoltre nei procedimenti di interdizione e inabilitazione il giudice, ai sensi dell'art. 714 c.p.c. «…procede all'esame dell'interdicendo e dell'inabilitando, stante il parere della altre persone citate, interrogandole sulle circostanze che ritiene rilevanti ai fini della decisione» e può disporre anche d'ufficio l'assunzione di ulteriori informazioni, esercitando tutti i poteri istruttori previsti dall'art. 419 c.c. il quale prevede a sua volta che il giudice può farsi assistere da un consulente tecnico nell'esame dell'interdicendo o dell'inabilitando e può anche d'ufficio disporre i mezzi istruttori utili ai fini del giudizio, interrogare i parenti prossimi dell'interdicendo o dell'inabilitando e assumere le necessarie informazioni (art. 419 c.c.). Nei procedimenti cautelari, il giudice sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, mentre quando provvede con decreto lo fa «assunte ove occorra sommarie informazioni» (art. 669-sexies, commi 1 e 2, c.p.c.) e in sede di reclamo «può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti». Nel processo di separazione personale e di divorzio: in particolare, per il primo grado, ove le informazioni fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate il giudice può disporre anche d'ufficio accertamenti della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto di contestazione anche se intestati a soggetti diversi (art. 155, comma 6, c.c.). Nel processo minorile, il giudice provvede in camera di consiglio assunte informazioni e sentito il pubblico ministero (ex art. 336 c.c. e ex art. 10 legge n. 184/1983). In sede di istruttoria prefallimentare il giudice delegato provvede senza indugio e nel rispetto del contraddittorio all'ammissione e all'espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d'ufficio (art. 15 R.d. n. 267/42). Nel giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative, il giudice dispone anche d'ufficio i mezzi di prova che ritiene necessari (art. 23 l. n.689/81). Così nel giudizio di opposizione ai provvedimenti del garante sulla privacy (art. 152, comma 9, d.lgs. n. 196/2003) o nella procedura giudiziale di rettificazione degli atti dello stato civile (art. 96, comma 1, d.P.R. n. 396/2000) . La giurisprudenza ha evidenziato che rispetto alla (peraltro non indifferente) disponibilità della prova concessa al giudice nel rito ordinario (arrt. 61, 116, comma 2, 118, commi 1 e 2, 197, 213, 240, 241, 253, 257, 317) detta disponibilità nel rito del lavoro è più accentuata. Il legislatore ha scelto, infatti, in questo ambito di conferire al giudice poteri istruttori più ampi. Il nucleo centrale di questa scelta legislativa è contenuto nell'art. 421, comma 2, c.p.c. secondo cui il giudice «può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile». Come ribadito dalla Suprema Corte (Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 761/2002 e Cass. civ., Sez. Un., n. 11353/2004) il legislatore ha voluto ribadire che la caratteristica precipua del rito del lavoro consiste nel «contemperamento del principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, dove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni e decadenze in danno delle parti». La ratio della previsione si rinviene, in sostanza, nella natura ed oggetto del contenzioso, ovvero i diritti spettanti al lavoratore, meritevoli di una tutela differenziata sul piano processuale in ragione della loro natura e del rilievo socio-economico. Trattasi di diritti che, in molti casi, infatti ricevono anche una copertura a livello costituzionale (es. nell'art. 4 Cost. il diritto al lavoro, nell'art. 32 il diritto alla salute ed all'integrità fisica, nell'art. 36 alla retribuzione, al riposo settimanale ed alle ferie, nell'art. 37 il divieto di discriminazione nei confronti della donna, acquisendo rilevanza generale quali diritti fondamentali inerenti alla persona): per tale ragione le situazioni soggettive derivanti dal rapporto di lavoro assumono una considerazione che va oltre la relazione obbligatoria tra prestatore e datore di lavoro, sino ad ottenere il valore di diritti relativamente indisponibili. La rilevanza “generale” e non solo particolare degli interessi incisi dalla controversia e dal suo esito impone, quindi, che il rito speciale del lavoro contemperi il principio dispositivo con l'esigenza di ricerca della cd. verità materiale. Ecco allora che il dato normativo pone problemi di armonizzazione con i principi generali del processo civile e su alcuni aspetti sopravvivono indirizzi contrastanti ma su molti punti possono considerarsi acclarati dei principi condivisi.
Principi condivisi
Poteri ufficiosi e decadenza delle parti dalla prova
Assai dibattuta tra gli studiosi è la questione se l'esercizio del potere de quo sia ammissibile, nelle ipotesi in cui le parti siano decadute dal potere di dedurre una prova avendovi provveduto tardivamente. Negli ultimi anni la giurisprudenza sembra prevalentemente orientata nel ritenere che i poteri ufficiosi del giudice non troverebbero ostacoli in preclusioni o decadenze già maturate a carico delle parti (Cass. civ., 5 novembre 2012, n. 18924; Cass. civ., 2 ottobre 2009, n. 21124) per cui i poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova rappresenterebbero un “contemperamento” ispirato alla esigenza di coniugare il principio dispositivo con la ricerca della verità reale (Cass. civ., Sez. Un., 17 giugno, 2004, n. 11353) . La soluzione intermedia sembra quella più ragionevole: i poteri istruttori ufficiosi non sarebbero legittimamente esercitabili per supplire una totale carenza di deduzioni probatorie (Cass. civ., 8 agosto 2002, n. 12002) ma, esclusa l'assoluta inerzia delle parti, il potere potrebbe essere esercitato per vincere dubbi istruttori residuati dopo l'assunzione delle prove indicate dai litiganti e, in questo caso, anche a fronte di preclusioni o decadenze già maturate. In Cass. civ., sez. III, sent., 23 giugno 2015, n. 12902 si legge che «nel rito del lavoro l'omessa indicazione dei documenti prodotti nell'atto della costituzione in giudizio (ovvero nella memoria difensiva depositata dall'attore rispetto alla domanda riconvenzionale proposta nei suoi confronti) e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determina la decadenza del diritto alla produzione, che può essere superata solo per effetto dell'esercizio, in presenza di condizioni idonee a giustificarlo, del potere istruttorio officioso previsto dagli artt. 421 e 437 c.p.c. che contengono un contemperamento al principio dispositivo, ispirato all'esigenza della ricerca della verità materiale cui è ispirato il rito del lavoro» (sulla base di tale motivazione la Suprema Corte ha censurato la decisione della Corte d'appello di ritenere tempestiva una produzione di documenti tardivamente effettuata dalla parte ormai decaduta, quando invece il «superamento della decadenza conseguente al mancato rispetto del termine previsto per il deposito avrebbe potuto trovare fondamento soltanto nell'affermazione della ricorrenza di condizioni idonee a giustificare l'esercizio di poteri officiosi»). Poteri istruttori del giudice e prova testimoniale
Valorizzando l'art.421 c.p.c alcune pronunce hanno statuito che il giudice – qualora la parte istante abbia indicato i capitoli di prova testimoniale, ma non le generalità dei testimoni - deve indicare alla stessa la riscontrata irregolarità, assegnando un termine perentorio per porre rimedio a tale vizio con la conseguenza che la mancata ottemperanza a tale termine determina, per effetto del commi 5 e 6 dell'art. 420 c.p.c., la decadenza della parte dal diritto di far assumere le prove. Ancora è stato detto che quando i fatti materiali sono compiutamente enunciati nel ricorso introduttivo della causa, il giudice non può rigettare la richiesta di prova testimoniale solo perché i fatti stessi non siano capitolati ai sensi dell'art. 244 c.p.c. (Cass. civ., 21 marzo 2003, n. 4180; Cass. civ., 17 aprile 2003, n. 6214). Nella medesima prospettiva è stato chiarito che nel rito del lavoro, ai fini dell'ammissibilità della prova per testimoni, è sufficiente che siano articolati i capitoli di prova e indicati i testimoni da escutere, mentre non è richiesto che sia precisato in ordine a quali capitoli i singoli testimoni sono chiamati a deporre, presumendosi che in difetto di specificazione, ognuno di essi potrà rispondere su tutte le circostanze dedotte, né un ostacolo alla ammissibilità sarebbe rappresentato dal fatto che i capitoli di prova non siano disgiunti dalla narrativa di fatto e numerati, qualora la narrativa stessa si componga di capitoli separati nei quali siano schematicamente indicati i fatti su cui la domanda si fonda. In Cass. civ., sent., 22 luglio 2004, n. 13753, con riferimento all'assunzione della prova testimoniale, si ribadisce che nel rito del lavoro è corretto l'operato del giudice che, nell'ambito di una controversia per accertare la natura subordinata del rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se veniva rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore, nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall'art. 421 c.p.c. e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia contestato sia la natura subordinata del rapporto che lo svolgimento di un orario a tempo pieno. Né nel rito del lavoro sarebbe motivo di nullità la circostanza che il giudice abbia interrogato liberamente i testimoni indicati dalle parti, in quanto egli può, nell'assunzione della prova, chiedere ai testi tutti i chiarimenti in ordine ai fatti esposti dalle parti e estendere la prova stessa a nuove circostanze da lui ritenute rilevanti «salva espressa opposizione delle parti motivata da una concreta violazione dei loro diritti di difesa» (Cass. civ., 12 agosto 2011, n. 17272). Parimenti secondo la giurisprudenza (Cass. civ., n. 7465/2002 e Cass. civ., n. 9228/2009) nelle controversie soggette al rito del lavoro è in facoltà del giudice ammettere ogni mezzo di prova anche al di fuori dello specifico limite della prova testimoniale (e correlativamente, di quella presuntiva) ex art. 1417 c.c., in quanto l'art. 421 c.p.c., nel consentire al giudice, nell'ambito del rito suindicato, di ammettere mezzi di prova senza i limiti fissati dal codice civile, si riferisce ai limiti stabiliti per la prova testimoniale dalle relative disposizioni generali degli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c., alle quali si ricollega l'art. 1417 cit., che, d'altronde, fa applicazione, in terna di simulazione, della regola generale, di cui al menzionato art. 2722 c.c., della inammissibilità della prova testimoniale di patti contrari al contenuto di un documento. In particolare la Corte (Cass. civ., sez. lav., 28 ottobre 1995, n. 11255) ha poi affermato che nelle controversie in materia di lavoro e di previdenza, l'art. 421 c.p.c. abilita il giudice ad ammettere la prova testimoniale anche al di fuori dei limiti stabiliti dall'art. 1417 c.c., che limita l'ammissibilità della prova anzidetta ove dedotta nei confronti di terzi da una delle parti contraenti. Analogamente Cass. civ., sez. L, 29 luglio 2009, n. 17614 ha precisato che nella nuova disciplina del processo del lavoro, il giudice ha la facoltà di ammettere la prova testimoniale al di fuori dei limiti generali stabiliti non solo dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c., ma anche dello specifico limite di cui all'art. 1417 c.c. in tema di simulazione (cfr. Cass. civ., 28 ottobre 1989, n. 4525; Cass. civ., 1 dicembre 1983, n. 7197) proprio precisando che l'art. 421, comma 2, parte prima, c.p.c., nell'attribuire al giudice del lavoro la responsabilità ed il potere di ammettere d'ufficio ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, si riferisce non ai requisiti di forma previsti dal codice per alcuni tipi di contatto (sia "ad substantiam" che "ad probationem"), ma ai limiti fissati da detto codice alla prova testimoniale, in via generale, negli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c.. Con riferimento alla previsione dell'art. 208 c.p.c. - assenza in udienza della parte che ha richiesto la prova e mancata citazione testi - applicabile anche nel rito del lavoro perché volto ad accelerare con la previsione della decadenza i tempi del giudizio (Cass. civ., n. 5416/2005): il giudice, ai sensi dell'art. 421 e 437, comma 2, c.p.c. ben può, nonostante la verificatasi decadenza, ammettere la prova, escutendo ad esempio i testi non citati dalle parti, allo scopo di superare le incertezze sui fatti costituitivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò osti il verificarsi di ogni preclusione. Per le medesime ragioni può, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 257 c.p.c. disporre la escussione di un teste (tardivamente indicato) in sostituzione di altro debitamente indicato, che non sia stato possibile esaminare (Cass. civ., 8 settembre 1988, n. 5095). Secondo la giurisprudenza tale deroga opererebbe - come sopra precisato - rispetto agli artt. 2721, 2722 , 2723 c.c. in tema di prova testimoniale e all'art. 1417 c.c. in materia di simulazione. Si ribadisce che, invece, tale deroga non si riferisce ai requisiti di forma previsti dal codice per alcuni tipi di contratto sia ad substantiam che ad probationem. In questi la prova testimoniale è ammessa solo quando il contraente ha perso, senza sua colpa, il documento che gli fornisce la prova. Analogamente non sono derogabili le condizioni di ammissibilità stabilite dall'art. 2731 c.c. per la confessione (persona capace di disporre del diritto) e dagli artt. 2737 e 2739 c.c. per il giuramento (non ammesso per diritti indisponibili, sopra un fatto illecito, per negare un fatto che da un atto pubblico risulti avvenuto alla presenza di un pubblico ufficiale, su un contratto per il quale è prevista la forma ad substantiam, e solo su un fatto proprio); né è derogabile la regola di cui all'art. 2704 c.c. sulla certezza della data della scrittura rispetto ai terzi . I poteri istruttori ufficiosi e la prova documentale
Con riferimento alle prove documentali, in Cass. civ., sez. III, sent., 19 dicembre 2016, n. 26117 si legge che «l'esercizio del potere discrezionale del giudice di appello nel rito del lavoro, di acquisire nuovi documenti o ammettere nuove prove, rientra tra i poteri discrezionali riconosciuti dagli artt. 421 e 437 c.p.c. e tale esercizio è insindacabile in sede di legittimità anche quando manchi una espressa motivazione in ordine alla indispensabilità o necessità del mezzo istruttorio ammesso, dovendosi la motivazione ritenere implicita nel provvedimento adottato» (nella specie si trattava della produzione del contratto di locazione mai prodotto nel corso del giudizio di primo grado). Ancora in Cass. civ., sez. III, sent., 8 novembre 2016, n. 22630 si ribadisce il concetto con riferimento alla produzione di un contratto di affitto di ramo di azienda (tardivamente prodotto) in assenza di contestazione in ordine alla esistenza del negozio. In Cass. civ., sez. L, sent., 29 settembre 2016, n. 19305 la natura non meramente discrezionale del potere istruttorio d'ufficio viene argomentata dall'essere esso un potere-dovere da esercitare «contemperando il principio dispositivo con quello della ricerca della verità», sicchè il giudice qualora reputi insufficienti le prove già acquisite e le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, non può arrestarsi al rilievo formale del difetto di prova ma deve provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dal materiale probatorio idonei a superare l'incertezza sui fatti in contestazione, senza che, in tal caso, si verifichi alcun aggiramento di eventuali preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle parti, in quanto la prova disposta d'ufficio è solo un approfondimento, ritenuto indispensabile ai fini del decidere, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo (in applicazione di detto principio la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di riforma di quella del tribunale che aveva fondato il rigetto della prescrizione sull'acquisizione d'ufficio, quale atto interruttivo, della lettera raccomandata di richiesta di differenze retributive, tardivamente depositato dalla lavoratrice solo con le note difensive: in particolare la ricorrente aveva prodotto all'atto del deposito del ricorso la lettera inviata al datore di lavoro con al richiesta di pagamento delle differenze retributive, priva dell'avviso di ricevimento sicchè a seguito dell'eccezione proposta avrebbe dovuto produrre nella prima difesa utile – ovvero alla rima udienza di discussione – l'avviso di ricevimento, prodotto invece, solo nelle note conclusive In Cass. civ., 2 febbraio 2009, n. 2577 si trova l'affermazione secondo cui nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, l'omessa indicazione dei documenti e l'omesso deposito di essi contestualmente all'atto comportano sì la decadenza del diritto ad una produzione tardiva ma trovando, tale rigoroso sistema di preclusioni, un contemperamento ispirato all'esigenza della ricerca della verità materiale nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ove essi siano indispensabili al fine della decisione della causa. Con riferimento ai documenti la Suprema Corte ha precisato che ove sia stato erroneamente prodotto il documento sbagliato, il giudice può acquisirlo d'ufficio ex art. 421 c.p.c, non comportando tale acquisizione una supplenza ad una carenza probatoria su fatti costituitivi della domanda, ma piuttosto il superamento di una incertezza su un fatto indispensabile ai fini del decidere (Cass. civ., sez. L, sent., 8 giugno 2017, n. 25148). Il potere istruttorio ufficioso nel processo ordinario
Anche nel giudizio ordinario la prova testimoniale si riconduce tendenzialmente fra i mezzi di prova disponibili ad iniziativa di parte e non d'ufficio. Tuttavia il legislatore mostra talvolta una particolare disponibilità a derogare a tale principio, contemperando il potere dispositivo delle parti con poteri di iniziativa istruttoria piuttosto ampi affidati al giudice il quale può:
L'introduzione dell'art. 281-ter ad opera del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 ha determinato una ulteriore attenuazione del principio dispositivo in materia di prove ed un rafforzamento dei poteri dell'organo giudicante. La ratio della disposizione si rinviene, ancora, nella esigenza di ricerca della verità materiale. Dal confronto tra l'art. 281-ter con l'art. 421, comma 2, c.p.c. emerge la maggiore limitatezzadel primo potere istruttorio rispetto al secondo, essendo il primo circoscritto alla sola prova testimoniale e legato alla circostanza che il riferimento a persone capaci di conoscere la verità deve provenire dalle indicazioni operate dalle parti. La prova testimoniale potrà, tuttavia, essere disposta d'ufficio, in ogni caso, solo nei confronti di persone la cui identità, sebbene non indicata con precisione dalle parti, possa agevolmente ricavarsi dal contesto delle attività svolte dalle parti nei loro atti difensivi o in sede di interrogatorio libero. Ulteriore limite al potere ufficioso del giudice monocratico è rappresentato inoltre dalla circostanza che permangono i limiti cd. sostanziali di ammissibilitàdellaprova testimoniale di cui al codice civile (ciò si desume a contrario dall'art. 421 c.p.c.). Inoltre, la prova va dedotta comunque per capitoli; dunque, bisognerà seguire le modalità previste dall'art. 244 c.p.c.. Ai sensi dell'art. 183, comma 8, c.p.c. il giudice può esercitare i suoi poteri istruttori ufficiosi con la stessa ordinanza con cui egli ammette le prove dedotte dalle parti, dunque con un'ordinanza che è successiva al momento ultimo entro il quale le parti possono dedurre istanze probatorie. Sembra allora che il potere ufficioso del giudice possa (e forse debba) essere esercitato solo dopo la chiusura delle barriere istruttorie stabilite per le parti. I poteri istruttori ufficiosi nel rito locatizio
L'art. 447-bis c.p.c. nell'indicare espressamente quali norme del rito del lavoro trovano applicazione alle controversie oggetto del processo locatizio non fa menzione del comma 2 dell'art. 421 c.p.c.. Ne consegue che nel rito locatizio i poteri ufficiosi istruttori saranno ben più limitati di quelli attribuiti al giudice del lavoro. Diversamente, infatti, da quanto possibile nelle controversie in materia di lavoro - non è ammissibile la prova testimoniale oltre i limiti sanciti dall'art. 2721 c.c. e dall'art. 1417 c.c., nè possono essere sottoposte ad interrogatorio libero le persone incapaci a testimoniare ex art. 246 c.p.c.. In conclusione
La disamina delle ipotesi in cui nel nostro ordinamento si attribuiscono al giudice poteri di iniziativa probatoria (latamente intesa) ufficiosa mostra, come molti autori hanno rilevato, che, contrariamente a quanto dispone l'art. 115 c.p.c., il processo ordinario è ben lontano dall'essere un modello improntato ad un puro principio dispositivo e il processo del lavoro non appartiene al tipo completamente inquisitorio. Fondamentale, per l'equilibrio del sistema, è il tema dell'imparzialità e della terzietà del giudice, che deve far escludere che il magistrato possa divenire “supplente” del difensore e/o del lavoratore. Ciò diviene possibile - pur in presenza degli ampi poteri istruttori riconosciuti dall'ordinamento - solo a patto che il giudicante abbia ben presente la distinzione tra la materiale fonte di prova - l'onere di allegazione dei fatti storici, che grava esclusivamente sulle parti - ed il formale mezzo della sua acquisizione al processo. Per evitare che il potere del giudice sfoci nell'arbitrio incostituzionale è necessario e sufficiente il rispetto dei limiti e dei criteri che traverso l'analisi giurisprudenziale si è cercato, senza pretesa di completezza, di esporre.
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