Difetto di immediatezza della contestazione disciplinare: le Sezioni Unite fanno il punto sui regimi di tutela

Luigi Di Paola
02 Marzo 2018

All'indomani dell'entrata in vigore della Legge Fornero si è posta la questione dell'individuazione della tutela applicabile nell'ipotesi di violazione della regola della “immediatezza” o “tempestività” della contestazione disciplinare. Diversi sono gli orientamenti sulla questione. L'Autore ne offre un'analisi accurata, concentrandosi su quello seguito dalle Sezioni Unite della Cassazione.
Introduzione

All'indomani dell'entrata in vigore della Legge Fornero si è posta la questione dell'individuazione della tutela applicabile nell'ipotesi di violazione della regola della “immediatezza” o “tempestività” della contestazione disciplinare.

Secondo un primo orientamento, quello dell'immediatezza della contestazione costituirebbe un requisito “procedurale”, sicché verrebbe in considerazione la previsione dell'art. 18, co. 6, St.Lav., che ricollega alla violazione della procedura ex art. 7 St. Lav. la tutela indennitaria “debole” (la quale si risolve, nella sussistenza dei requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi ottavo e nono, nell'attribuzione al lavoratore di una posta risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto).

Secondo un altro orientamento, in realtà composito, il vizio sarebbe invece di natura sostanziale, perché la violazione pregiudicherebbe non tanto l'interesse del prestatore ad un corretto svolgimento del procedimento disciplinare, quanto quello, da un lato, all'esercizio adeguato del diritto di difesa nel predetto procedimento nonché nell'eventuale processo avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento, e, dall'altro, alla salvaguardia dell'affidamento (nella rinuncia all'esercizio del potere disciplinare) ingenerato dall'inerzia del datore, la cui tardiva iniziativa determinerebbe la lesione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro e sarebbe, al contempo, espressione della irrilevanza disciplinare della condotta posta in essere. Nell'ambito di quest'ultimo orientamento vi è poi chi opta, ove la tardività della contestazione sia consistente, per la tutela reintegratoria “attenuata”, ritenendo che nell'ambito previsionale dell'art. 18, co. 4, St.lav., debba rientrare non solo l'ipotesi “dell'insussistenza del fatto contestato”, ma anche quella, equiparabile, del fatto “non specificamente e tempestivamente contestato”.

Vi è chi, invece, ritiene, giudicando non corretta l'equiparazione tra le due ipotesi, che debba applicarsi la tutela indennitaria “forte” di cui all'art. 18, co. 5, St.lav., prevista per i casi di ingiustificatezza non qualificata (la quale si risolve, nella sussistenza dei requisiti dimensionali di cui all'art. 18, commi ottavo e nono, nell'attribuzione al lavoratore di una posta risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto).

Tale ultima opzione è quella accolta dalle Sezioni Unite della Cassazione, con una sentenza non priva di implicazioni.

Il contrasto di giurisprudenza circa la natura del vizio e la conseguente tutela applicabile

Il contrasto di giurisprudenza nell'ambito della Sezione lavoro della Suprema Corte è sintetizzabile come segue.

Con una prima sentenza (Cass. 6 novembre 2014, n. 23669) è stato precisato che la violazione della tempestività della contestazione è vizio procedurale.

Successivamente è stato puntualizzato (da Cass. 9 luglio 2015, n. 14324) che la violazione in questione non rientra nell'ambito applicativo del novellato art. 18, c. 4, St.lav., né in nessun'altra delle ipotesi contemplate in tale articolo che prevedano la condanna della parte datoriale alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; pertanto, la tutela accordata è limitata al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva.

E' stato infine affermato (da Cass. 31 gennaio 2017, n. 2513) che «un fatto non tempestivamente contestato dal datore non può che essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18 St.Lav, come modificato dalla L. n. 92/2012, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori»; infatti, «non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7, il “fatto” è “tamquam non esset” e quindi “insussistente” ai sensi dell'art. 18 novellato. Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del “fatto contestato” (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l'ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente e cioè in aperta violazione dell'art. 7».

In realtà solo la prima e l'ultima sentenza menzionate prendono posizione sulla questione della natura del vizio e (la prima in via implicita) su quella del regime sanzionatorio; la seconda, invece, escludendo solo l'applicabilità della tutela reintegratoria “attenuata”, lascia impregiudicata la questione della natura procedurale o sostanziale della violazione.

La soluzione "intermedia" prescelta dalle Sezioni Unite

Secondo Cass., SU, 27 dicembre 2017, n. 30985, «La dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare, conseguente all'accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base del provvedimento di recesso, ricadente ratione temporis nella disciplina dell'art. 18 St.Lav., così come modificato dal co. 42 dell'art. 1 della L. n. 92/2012, comporta l'applicazione della sanzione dell'indennità prevista dal comma 5 dello stesso art. 18 St.Lav.».

Queste, in sintesi, le argomentazioni di sostegno: a) la contestazione tardiva costituisce inadempimento contrattuale del datore per violazione dei principi di buona fede e correttezza, onde è vizio funzionale e non genetico; b) la violazione, escluso in radice che possa dar luogo ad una ipotesi di nullità, non ricade neppure nella previsione dell'art. 18, co. 4, St.lav., applicabile solo in presenza di licenziamento gravemente infondato in considerazione dell'accertata insussistenza del fatto; c) quando il ritardo nella formulazione della contestazione è notevole e non giustificato, esso è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell'ambito del procedimento disciplinare; e tale garanzia non può essere vanificata da un comportamento del datore non improntato al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.; d) l'inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per fatti concludenti, dell'insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse, sicché la tardiva contestazione assume il valore di un inammissibile “venire contra factum proprium”.

Il pronunciato delle Sezioni Unite, però, non si ferma qui, perché è aggiunto - pur se l'affermazione non è contenuta nel principio di diritto posto a chiusura della sentenza - che «diversamente, qualora le norme del contratto collettivo o la stessa legge dovessero prevedere dei termini per la contestazione dell'addebito disciplinare, la relativa violazione verrebbe attratta, in quanto caratterizzata da contrarietà a norma di natura procedimentale, nell'alveo di applicazione del sesto comma del citato art. 18 che, nella sua nuova formulazione, è collegato alla violazione delle procedure di cui all'art. 7 della legge n. 300/1970 e dell'art. 7 della L. n. 604/1966».

Tale ultimo passaggio, per come si vedrà, assume un rilievo non trascurabile.

Quesiti ed implicazioni

L'operatività della tutela indennitaria “forte”, avuto riguardo all'impianto concettuale della sentenza, presuppone che il ritardo nella contestazione sia “notevole” e “ingiustificato”.

Si tratta quindi di stabilire: a) quando un ritardo possa reputarsi “notevole”; b) se un ritardo apprezzabile, ma non “notevole”, integri comunque la violazione del principio di immediatezza od escluda addirittura la tardività della contestazione; b') nel primo caso, se possa applicarsi la tutela indennitaria “deboleex art. 18, c. 6, St.lav. anche in difetto di termini previsti da legge o contratto collettivo per la formulazione della contestazione; c) quando il ritardo possa dirsi ingiustificato; d) quale è il regime di distribuzione dell'onere della prova in materia.

Al quesito sub a) non può offrirsi risposta netta e valevole, indistintamente, per tutti i casi, poiché, dovendo il requisito della tempestività intendersi in senso relativo, occorrerà aver riguardo alle dimensioni dell'impresa, al grado di conoscenza dell'infrazione (che, se per nulla circostanziato, può legittimare un indugio del datore motivato dall'esigenza di effettuare ulteriori riscontri istruttori, oppure, se elevato, imporre la formulazione della contestazione), alle circostanze fattuali e via dicendo; tuttavia dalla casistica giurisprudenziale sembra evincersi che, pur con qualche oscillazione, il lasso temporale oltre il quale l'inerzia datoriale inizia ad assumere peso, si attesta, mediamente, sui sei mesi.

Pertanto, volendo tentare una schematizzazione, è plausibile ritenere, in via molto approssimativa, che - ferma restando una valutazione caso per caso - la soglia di “tolleranza” possa essere fissata in qualche mese per le piccole aziende e oltre i sei mesi per quelle grandi ad organizzazione complessa, con valorizzazione del periodo “di mezzo” per le aziende di ordinarie dimensioni.

Altrettanto problematica è la risposta al secondo quesito.

Infatti, sarebbe agevole sostenere che un ritardo non notevole non possa integrare alcuna violazione, per non esser configurabile in assoluto un difetto di tempestività.

Tuttavia, per come sopra visto, le Sezioni Unite ritengono - così aderendo, in buona sostanza, alla tesi della duplice natura del vizio - che, laddove la contestazione sia “fuori termine” per esser stata formulata una volta spirato il momento ultimo eventualmente stabilito dalla legge oppure dal contratto collettivo, si applica comunque (e, probabilmente, anche in presenza della natura solo ordinatoria del termine), la tutela indennitaria “debole”, pur se, in alcune ipotesi, potrebbe configurarsi un ritardo tutt'altro che significativo (si pensi al caso della disposizione collettiva che imponga la formulazione della contestazione entro venti giorni dall'avvenuta cognizione del fatto da parte del datore).

Il che potrebbe indurre a ritenere, per ragioni di ordine logico, che, anche in difetto di un termine legale o contrattuale per la formulazione della contestazione, un ritardo apprezzabile (ad esempio quattro mesi, con riguardo ad azienda medio-grande) integri una tardività che, pur non dando luogo alla tutela indennitaria “forte”, debba esser sanzionata con la tutela indennitaria “debole”.

Tuttavia è lecito ipotizzare che una tale ricostruzione, troppo farraginosa poiché imperniata sulla progressiva degradazione del vizio a seconda dell'entità del ritardo, non troverà consensi, con la conseguenza che la violazione procedurale potrà realizzarsi solo nei casi in cui o la legge o il contratto collettivo prevedano, espressamente, un termine entro il quale formulare la contestazione.

Resta fermo, ovviamente, in questi casi, che se la contestazione dovesse pervenire dopo un anno dalla scadenza del termine, il vizio acquisirà comunque, mutando veste, natura sostanziale, dando luogo alla tutela indennitaria “forte”.

Più semplice la risposta al terzo quesito, nel senso che il ritardo potrà ritenersi ingiustificato ove emerga che la tardività sia dipesa non da reali ed effettive esigenze di “approfondimento” del quadro istruttorio, bensì da semplice inerzia dovuta, ad esempio, alla disorganizzazione degli uffici preposti alla gestione del procedimento.

Quanto alla distribuzione dell'onere della prova, si applicheranno plausibilmente le regole generali.

Sicché al lavoratore basterà dedurre la violazione del principio di tempestività con indicazione del lasso di tempo trascorso dal momento di avvenuta cognizione dei fatti da parte del datore - ma secondo quanto può presumere il lavoratore, il quale, verosimilmente, indicherà la data di accadimento dei fatti -, essendo escluso che sul lavoratore medesimo gravino oneri di allegazione aggiuntivi, quali ad esempio, quello incentrato sul forte pregiudizio alla difesa, od altri analoghi; al datore toccherà invece dimostrare o che il ritardo non è quello indicato dal lavoratore (perché ad esempio la cognizione dei fatti è avvenuta successivamente a quanto dedotto in ricorso), o che lo stesso trova adeguata giustificazione (non essendo invece sufficiente una difesa incentrata sull'inidoneità, in concreto, del ritardo a pregiudicare le esigenze difensive del lavoratore).

Può porsi la questione se la tardività possa essere rilevata di ufficio dal giudice, sul rilievo che l'immediatezza della contestazione è requisito costitutivo del licenziamento per giusta causa (secondo quanto stabilito, ad esempio, da Cass. 18 gennaio 2007, n. 1101); al quesito sembra doversi dare risposta negativa, poiché, come chiarito oggi dalle Sezioni Unite, la tardività della contestazione integra un mero inadempimento. Tuttavia, qualora volesse optarsi per l'affermativa, le parti dovrebbero essere messe in condizione di interloquire sul punto.

L'essere o meno in ritardo notevole è oggetto di un giudizio che, in via di principio, spetta all'organo giudicante, sul quale, ovviamente, possono incidere fattori vari, quali ad esempio la complessità dell'organizzazione aziendale e così via, in sintonia con l'idea che la tempestività debba intendersi, per come sopra anticipato, in senso relativo.

Quanto alle implicazioni, vi è da dire che l'accertamento giudiziale dei vizi postula, oggi, una sorta di inversione dell'ordine logico di trattazione delle questioni; ed infatti il giudice:

a) dovrà in primo luogo verificare se il fatto sia, o meno, sussistente;

b) ove l'accertamento abbia dato esito positivo, dovrà indagare sulla tempestività, o meno, della contestazione.

Il che significa che, pur a fronte di un licenziamento di cui sia stata accertata in giudizio la fondatezza per essere stato dimostrato l'addebito, nei suoi profili oggettivi e soggettivi, il datore, a causa del proprio inadempimento, sarà assoggettato alla declaratoria di illegittimità del licenziamento, con condanna al pagamento dell'indennità di cui all'art. 18, co. 5, St.Lav.

Il meccanismo (determinato dallo “sdoppiamento” sanzionatorio voluto dal legislatore) è tale per cui la tardività della contestazione non rende il licenziamento semplicemente illegittimo a causa di un inadempimento che gioca, per così dire, “dal di fuori”, bensì lo rende ingiustificato, ossia privo di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, operando, così, all'interno della fattispecie.

Il principio di assorbimento potrà però operare, ad esempio, ove il licenziamento sia reputato illegittimo per difetto di proporzionalità (ove venga confermato l'orientamento che ritiene, in tal caso, applicabile, salvo ipotesi particolari - su cui v. Cass. 25 maggio 2017, n. 13178 -, la tutela indennitaria “forte”); qui, infatti, non sarà necessario, per il giudice, indagare sulla tempestività o meno della contestazione, poiché l'illegittimità sostanziale può essere ragionevolmente sanzionata una sola volta.

Potrebbe verificarsi il caso di scuola in cui il lavoratore deduca in giudizio l'illegittimità del licenziamento solo per difetto di proporzionalità e per mancanza di immediatezza della contestazione.

Stabilire, in tal caso, quale potrà essere l'ordine di trattazione dei due aspetti, concorrenti, potrà dipendere essenzialmente da una prognosi contingente: si tratterà, in primo luogo, di valutare quale dei predetti aspetti sia potenzialmente decisivo senza necessità di istruttoria; altrimenti converrà indagare con priorità sull'aspetto che richiede una verifica più agevole.

Il regime di tutela per i "nuovi assunti" nell'area di operatività del Jobs Act

La pronuncia delle Sezioni Unite disegna implicitamente anche la disciplina valevole, nell'ipotesi di tardività della contestazione, per i c.d. “nuovi assunti” nell'area di operatività del Jobs Act.

Pertanto ove si tratti di tardività della contestazione avente i caratteri indicati nella predetta pronuncia, si applicherà, nella ricorrenza del requisito dimensionale di cui all'art. 18, co. 8 e 9, St.Lav., l'art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015, ai sensi del quale «salvo quanto disposto dal co. 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità».

Nel caso in cui, invece, la contestazione sia formulata oltre il termine stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva, si applicherà, sempre nella sussistenza dei requisiti dimensionali di cui all'art. 18, co. 8 e 9, St.lav., l'art. 4, co. 1, del predetto D.Lgs., ai sensi del quale «nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, co. 2, L. n. 604/1966 o della procedura di cui all'art. 7, L. n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità (…)»

La tardività della contestazione nel settore del pubblico impiego privatizzato

Le Sezioni Unite, per come visto, hanno affermato che la formulazione della contestazione avvenuta in violazione del termine appositamente stabilito da una eventuale previsione legale, renderebbe applicabile la tutela indennitaria “debole”, acquisendo il vizio, in tal caso, veste procedurale.

Tuttavia, in ambito privatistico è arduo immaginare una interferenza del legislatore in un campo da sempre dominato dall'autonomia collettiva; sicchè il settore in cui la disciplina del procedimento è governato da norme di legge rimane, realisticamente, quello del pubblico impiego privatizzato, ove la contestazione “fuori termine” dà comunque luogo alla decadenza del potere disciplinare, sicchè il licenziamento viene ad esser inficiato da invalidità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.

In conclusione

L'opzione seguita dalle Sezioni unite si rivela equilibrata.

Essa, infatti, da un lato, si dimostra non particolarmente penalizzante per il lavoratore, poiché il pregiudizio alla difesa, che troverebbe esigua sanzione nella tutela indennitaria “debole”, riceve, comunque, adeguata contropartita in una indennità di valore consistente (fino a ventiquattro mensilità).

Dall'altro si mantiene in linea con l'idea che la tutela reintegratoria attenuata costituisce, attualmente, ipotesi eccezionale, concedibile solo in presenza di violazioni ritenute dal legislatore particolarmente gravi, la cui irriducibilità esclude che l'interpretazione dell'espressione “insussistenza del fatto contestato” possa essere oltremodo “forzata”, per farvi rientrare anche l'ipotesi del fatto non tempestivamente contestato.

Del resto, la tutela in questione potrebbe rivelarsi effettivamente insufficiente in casi nei quali un adeguato esercizio del diritto di difesa avrebbe consentito al lavoratore di contribuire, con altissima probabilità, alla dimostrazione in giudizio della insussistenza del fatto.

Ma, sul piano statistico, si tratta di casi verosimilmente rari, in quanto plausibilmente caratterizzati da un ritardo davvero eccessivo; ad ogni modo, uno spazio per il riconoscimento di una tutela proporzionata all'entità del pregiudizio subito dal lavoratore potrebbe, in ipotesi, esser recuperato mediante l'eventuale coinvolgimento del giudice delle leggi, invocando a parametro l'art. 24 Cost.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema:

- Di Paola, Difetto di tempestività della contestazione disciplinare: rimessa alle Sezioni Unite la questione concernente la natura del vizio, in il Giuslavorista.it.;

- Di Paola, Difetto di tempestività della contestazione disciplinare: violazione procedurale o sostanziale?, in RIDL, 2017, II, 503 ss.;

- Pisani, “Tardività-ingiustificatezza” e “tardività-vizio procedimentale” del licenziamento disciplinare e relative sanzioni, in MGL, 2014, 289 ss.

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