Responsabilità del consulente tecnico d’ufficio

Mauro Di Marzio
08 Marzo 2018

La materia — sulla quale si rinvengono scarsissimi riscontri giurisprudenziali — è regolata dall'art. 64 c.p.c., che disciplina la responsabilità del consulente tecnico d'ufficio sia dal versante civile che da quello penale.
Inquadramento

La materia — sulla quale, per le ragioni che vedremo, si rinvengono scarsissimi riscontri giurisprudenziali — è regolata dall'art. 64 c.p.c., che disciplina la responsabilità del consulente tecnico d'ufficio sia dal versante civile che da quello penale, stabilendo che:

  • si applicano al consulente tecnico le disposizioni del codice penale relative ai periti, sicché egli risponde essenzialmente dei delitti, previsti appunto per i periti, contro l'amministrazione della giustizia e contro l'attività giudiziaria, in particolare il delitto di falsa perizia di cui all'art. 373 c.p. (v. Cass. pen., 4 aprile 2007, n. 14101, ove si afferma che il reato di falsa perizia previsto dall'art. 373 c.p. è ipotizzabile anche nei confronti del consulente tecnico d'ufficio nominato nel corso di un procedimento civile);
  • in ogni caso — e si tratta di ulteriore profilo di responsabilità penale — il consulente tecnico che incorra in colpa grave nell'esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l'arresto fino a un anno o con la ammenda fino a euro 10.329; si applica l'art. 35 c.p., concernente la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte; in proposito è stato di recente chiarito che per l'integrazione del reato previsto dall'art. 64, comma 2, c.p.c., è necessario che la colpa grave del consulente conduca ad un risultato erroneo degli accertamenti richiestigli, rimanendo invece prive di rilievo le eventuali erronee scelte metodologiche od operative che non influiscono sull'esito degli stessi (Cass. pen., 3 aprile 2014, n. 29506);
  • «in ogni caso» — questo il segmento del comma 2, concernente la responsabilità civile, di maggiore problematicità sul piano interpretativo, che si è per questo virgolettato, in attesa di soffermarsi sul suo significato — «è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti».

Accanto alla responsabilità penale e civile occorre rammentare che il consulente è esposto a quella disciplinare prevista per i consulenti appartenenti a categorie professionali assoggettate ad apposite normative disciplinari.

Natura della responsabilità civile del CTU

È opinione del tutto prevalente quella secondo cui la responsabilità del consulente tecnico d'ufficio è responsabilità aquiliana: il che trova ovvio fondamento sulla intuitiva considerazione che è il giudice ad affidare l'incarico al consulente, suo ausiliare, il quale non intrattiene, e naturalmente non può intrattenere, alcun rapporto contrattuale con le parti (per tutti Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010, 866).

Analoga l'opinione della Suprema Corte, la quale ha avuto modo di affermare che le disposizioni dell'art. 64 c.p.c. «concernono la responsabilità aquiliana del consulente per i danni cagionati con fatto illecito» (Cass. civ., 21 ottobre 1992, n. 11474). E si è ribadito che l'art. 64 c.p.c., ultima parte, «prevede un'ipotesi specifica di responsabilità aquiliana» (Cass. civ., 17 aprile 2012, n. 6014, la quale ha altresì escluso l'applicabilità dell'art. 2236 c.c. «perché non si verte in ipotesi di responsabilità contrattuale»; di responsabilità aquiliana discorre ancora, da ultimo, Cass. civ., 23 giugno 2016, n. 13010).

Si è tuttavia anche sostenuto che quella del consulente tecnico d'ufficio sarebbe assimilabile alla responsabilità contrattuale, attraverso l'impiego della nozione di responsabilità da contatto sociale (Plenteda, La responsabilità civile del consulente tecnico d'ufficio, in Resp. civ., 2007, 4, il quale rammenta che con tale espressione «ci si riferisce proprio alla (pre)esistenza di un rapporto socialmente apprezzabile e, per questo, giuridicamente rilevante tra il creditore e il debitore della (successiva e conseguente) obbligazione risarcitoria»).

La tesi, tuttavia, non convince. Difatti, la responsabilità da contatto sociale è una forma particolare di responsabilità, per così dire para-contrattuale, che sorge non da un contratto, bensì, per l'appunto, dal «contatto sociale», ossia da un rapporto che si instaura tra due soggetti in virtù non di un accordo, ma, per lo più, di un preesistente obbligo legale: si tratta, in breve, di una relazione riconducibile all'ambito dei c.d. rapporti contrattuali di fatto. Ora, nel caso del consulente tecnico d'ufficio, nessuna relazione si instaura, neppure a seguito della nomina da parte del giudice, tra le parti in causa ed il consulente tecnico d'ufficio, il quale — a differenza di quanto accade nel caso del «contatto sociale» — non è tenuto ad alcunché nei confronti delle parti, che nulla possono esigere dal consulente, ma soltanto nei riguardi del giudice. Tra le parti in causa ed il consulente tecnico d'ufficio non si instaura mai ed in nessun caso, insomma, un rapporto di credito-debito: non si instaura anzi alcun rapporto. E ciò è tanto vero che, finanche in ipotesi di consulenza nulla, la pretesa di restituzione di somme corrisposte al consulente tecnico d'ufficio si fonda non già sull'attribuzione al medesimo di una condotta di inadempimento, bensì sulle regole della ripetizione dell'indebito oggettivo (Cass.civ., 21 ottobre 1992, n. 11474).

La Suprema Corte, difatti, ha da tempo chiarito che all'attività del consulente tecnico non possono applicarsi gli schemi privatistici dell'adempimento e dell'inadempimento, quasi che egli fosse vincolato alle parti da un rapporto di prestazione d'opera, giacché egli svolge nell'ambito del processo una pubblica funzione quale ausiliare del giudice, nell'interesse generale e superiore della giustizia, con responsabilità oltre che penale e disciplinare, anche civile, la quale importa l'obbligo di risarcire il danno che abbia cagionato in violazione dei doveri connessi all'ufficio (Cass. civ., 25 maggio 1973, n. 1545, la quale ne ha dedotto che l'obbligo per le parti di anticipare il compenso al consulente non è collegato all'esatto adempimento dell'incarico o al risultato conseguito, ma è fondato sull'art. 90 c.p.c., ossia è condizionato alla sola esistenza dei presupposti della nomina del consulente da parte del giudice e della esecuzione dell'incarico).

Il presupposto soggettivo della responsabilità

La fattura non propriamente cristallina della norma ha suscitato altresì il quesito se il consulente tecnico d'ufficio risponda soltanto per dolo o colpa grave o, altresì, anche per culpa levis. Il dubbio sorge dall'inciso «in ogni caso», che precede il periodo «è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti», inciso che può essere sintatticamente inteso sia come riferito alla sussistenza del reato derivante dall'esecuzione con colpa grave degli atti che sono richiesti al consulente tecnico d'ufficio (sicché la norma, in presenza del requisito minimo della colpa grave, intenderebbe sancire, oltre a quella penale, la responsabilità risarcitoria del consulente), sia come riferito alla sussistenza dei requisiti di ordine generale della responsabilità aquiliana, dolo o colpa in tutte le sue gradazioni (per l'estensione della responsabilità anche al caso di colpa lieve v. Franchi, Del consulente, del custode e degli altri ausiliari del giudice, nel Comm. Allorio, I, 1, Torino, 1973, 718; a favore della limitazione della responsabilità alla sola ipotesi di colpa grave «indipendentemente dalla difficoltà o meno della consulenza», v. p. es. Protettì-Protettì, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, 1994, 141; Giorgetti, Art. 64, in Comoglio-Vaccarella (a cura di), Codice di procedura civile commentato, Torino, 2010).

Nel primo senso, per l'opinione cioè restrittiva, si è pronunciata la Suprema Corte, la quale, seppure in obiter, si è riferita alla colpa grave come alla «sola che giustificherebbe la sua [del consulente: n.d.r.] condanna al risarcimento dei danni causati alla parte, a norma dell'art. 64 c.p.c., cpv» (Cass. civ., 20 ottobre 2003, n. 15646). Anche nella giurisprudenza di merito si è affermato che la responsabilità del consulente tecnico d'ufficio è regolata dall'art. 64 c.p.c., al di fuori di ogni vincolo privatistico, atteso che il consulente è un ausiliario del giudice ed opera in funzione dell'accertamento che al giudice è demandato ovvero in funzione del superiore interesse della giustizia, sul metro della colpa grave, che assume in ambito civilistico il ruolo di criterio identificatore del profilo soggettivo dell'illecito, da coniugarsi, ai fini della sua sussistenza, al danno e al nesso di causalità. Il consulente, quindi, risponde dei danni cagionati alla parte che siano in rapporto di causalità con le sue attività, nel compimento delle quali sia riconoscibile in capo all'operante il requisito della colpa grave. Ferma perciò la connotazione aquiliana dell'illecito, al danneggiato compete la prova, oltre che del danno, del nesso di causalità tra esso e la condotta del consulente e la caratterizzazione della colpa in capo a costui in termini di gravità (Trib. Bologna 15 marzo 2010, in Il civilista, 2011, 12, 58, con nota di De Stefani).

Vale aggiungere che il testo vigente dell'art. 64 c.p.c. deriva dall'art. 25, l. 4 giugno 1985, n. 281. All'origine la disposizione stabiliva che: «In ogni caso, il consulente tecnico che incorre in colpa grave nell'esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è condannato dal giudice a una pena pecuniaria non superiore a lire cinquemila. Egli è inoltre tenuto al risarcimento dei danni causati alle parti». In tale formulazione, per la verità, non pare potesse revocarsi in dubbio che la norma intendesse limitare la responsabilità del consulente tecnico d'ufficio al solo caso di colpa grave (al minimo, e, naturalmente, al caso di dolo): e che, cioè, essa intendesse sommare alla responsabilità penale, nei medesimi casi, quella risarcitoria. Sicché occorrerebbe credere che la novella del 1985 — che, indipendentemente dall'«in ogni caso» con cui è stato sostituito l'«inoltre» della versione precedente, si giustifica per aver previsto la pena detentiva ed avere elevato la misura di quella pecuniaria — volesse altresì incidere sul regime della responsabilità risarcitoria: e che ciò abbia inteso nondimeno fare mediante l'impiego di una formulazione tanto debole, opinabile, nebulosa, opaca. Per giungere ad una simile conclusione, allora, sarebbe almeno necessario identificare una chiara ratio posta a sostegno della svolta. Ratio che, al contrario, non riesce affatto ad individuarsi, mentre appare palese quella che sorregge il testo originario, la quale sembra compendiarsi in ciò, che il consulente tecnico d'ufficio concorre, nella sua qualità, all'esercizio della funzione giudiziaria — nella veste di «occhiale del giudice», per impiegare la locuzione di Piero Calamandrei — e, analogamente a quanto avviene per il giudice, deve essere tenuto al riparo da possibili pressioni esterne: è agevole osservare che, se così non fosse, egli, trovandosi dinanzi due contendenti di diverso peso (ipotizziamo da un lato una grande società difesa da un plotone di principi del foro, dall'altro un cliente di essa, magari mal difeso), potrebbe essere sollecitato a mantenere un atteggiamento difensivo e, dunque, a far pendere il piatto della bilancia dal lato del più forte.

In definitiva, anche per stabilire un regime di approssimativa somiglianza tra la disciplina della responsabilità del giudice e quella del consulente tecnico d'ufficio, sembra debba interpretarsi l'art. 64 c.p.c. nel senso che il consulente risponde soltanto per colpa grave (o dolo). E non può mancare di aggiungersi, dato l'atteggiarsi del contenzioso in Italia e la diffusa tendenza a predicare l'impugnabilità di qualunque provvedimento, che l'apertura alla responsabilità civile del consulente tecnico d'ufficio — proprio perché «in molti casi, il processo lo fanno il consulente del giudice e i consulenti di parte, anziché giudice e avvocati» (Plenteda, op. loc. cit.) — finirebbe per introdurre, sovente, un ennesimo strumento volto ad aggredire in qualche modo la decisione sgradita ad una parte e pur passata in giudicato. Ed infatti, non è difficile ipotizzare il tentativo di introdurre l'errore del consulente tecnico d'ufficio, fatto proprio dal giudice nella sentenza, quale elemento tale da giustificare l'impugnazione per revocazione della stessa sentenza ai sensi dell'art. 395, nn. 2 o 4, c.p.c..

Il nesso di causalità

Il numero irrisorio di precedenti nei quali è stata riconosciuta la responsabilità risarcitoria del consulente tecnico d'ufficio si spiega tuttavia non tanto con la limitazione di detta responsabilità in caso di dolo o colpa grave, bensì, come già evidenziava Virgilio Andrioli (Andrioli, Commento al c.p.c., Napoli, 1954, I, 191), con la difficoltà di configurare un danno risarcibile perché ricollegato sul piano eziologico con la condotta del consulente.

Trattiamo ora del danno subito dalla parte per aver perso la causa in conseguenza di una consulenza tecnica sbagliata. La questione è semplice. Pensiamo ad una consulenza tecnica, ad esempio in materia medico-legale, fatta veramente male, in un senso o nell'altro. In genere alla consulenza tecnica seguono le osservazioni critiche delle parti interessate, osservazioni che, nella pratica, non mancano pressoché mai neppure di fronte a consulenze tecniche ineccepibili. Il giudice, poi, come è noto, non è tenuto ad attenersi alle conclusioni del consulente, dalle quali si può senz'altro discostare, essendo egli, come si sul dire, peritus peritorum. È consolidato, al riguardo, l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il giudice, dinanzi a critiche rivolte alla consulenza, deve ad esse congruamente replicare (ex multissimis, di recente, Cass. civ., 21 novembre 2016, n.23637; si può discutere, dinanzi all'attuale formulazione del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., se tale indirizzo sia ancora attuale, ma non è questa la sede per farlo). Dunque, o il giudice aderisce motivatamente alle conclusioni del consulente, o vi aderisce immotivatamente o, infine, se ne discosta. Se ne discosta, l'erroneità della consulenza tecnica rimane evidentemente senza effetto, viene in altri termini neutralizzata. Se vi aderisce, tanto se immotivatamente, quanto a maggior ragione se motivatamente, l'esito della lite è comunque ascrivibile a lui, sicché la sconfitta subita dalla parte penalizzata dalla consulenza tecnica è infine da ascrivere al giudice, non al consulente, alla stregua della regola della causalità giuridica fissata dall'art. 1223 c.c., applicabile nel comparto aquiliano in forza del rinvio contenuto nell'art. 2056 c.c., secondo la quale è risarcibile il solo danno che sia conseguenza «immediata e diretta» della condotta.

Una possibile diversa soluzione può forse prospettarsi in ipotesi di consulenza tecnica d'ufficio cd. «percipiente», la quale si ha quando il consulente accerta direttamente fatti: in tale ipotesi la consulenza ha natura di fonte di prova della quale il giudice, almeno tendenzialmente, non può che prendere atto. In tale situazione sembra potersi prospettare l'ininfluenza dell'apporto del giudice alla decisione, e dunque la sussistenza del nesso di causalità, in termini analoghi a quelli che si sono presentati in caso di stima di immobili in sede di esecuzione forzata, sulla base delle decisioni che tra breve si richiameranno.

Inutile dire infine che la parte risultata vittoriosa in presenza di vizi dell'attività del consulente non potrebbe lamentare alcunché.

Trattiamo ora dei possibili danni diversi da quelli determinati dall'esito della lite. Qui l'intervento del giudice rimane fuori dal recinto delle circostanze da considerare, sicché non vi sono ostacoli alla astratta configurabilità di un danno risarcibile, anche sotto il profilo del nesso di causalità, sia materiale che giuridico. Prendiamo l'esempio già fatto della consulenza tecnica che erroneamente addebita al medico un errore che invece non ha commesso: in questo caso accade che il datore di lavoro del medico lo licenzia, oppure — volendo pensare ad una ipotesi di danno non patrimoniale — che i suoi colleghi gli tolgono il saluto e si rifiutano di lavorare con lui. Qui il danno risarcibile potrebbe effettivamente esserci.

E solo in un simile frangente può condividersi l'affermazione di un giudice di merito secondo cui, ai fini dell'esperimento dell'azione di responsabilità nei confronti del consulente tecnico d'ufficio, non costituisce causa di improcedibilità in concomitante pendenza del giudizio di merito nell'ambito del quale la consulenza tecnica è stata eseguita (Trib. Bologna, 7 novembre 1994, in Foro It., 1995, I, 2998). Al contrario, se il danno lamentato coincide con quello discendente dalla soccombenza, non sembra che la domanda risarcitoria possa essere proposta prima della conclusione del giudizio a quo, giacché, fin quando esso è in corso, nessun danno può essersi ancora cristallizzato, sicché non vi è interesse (art. 100 c.p.c.) ad agire per uno scopo consistente nel mero accertamento dell'erroneità della consulenza tecnica (in questo senso anche la pronuncia bolognese appena citata).

Fattispecie

Non sembra casuale, se si considera quanto detto finora, che alcune pronunce recenti si siano cimentate con la responsabilità del consulente in un particolare contesto, ossia quello della stima di immobili da sottoporre a vendita forzata nel quadro della esecuzione per espropriazione: è, difatti, quest'ultima, una situazione in cui l'intervento del giudice nel pronunciare l'ordinanza di vendita sembra ridursi, almeno di regola, ad una mera presa d'atto della valutazione compiuta dal consulente, tale da non interrompere il nesso di causalità giuridica tra l'operato dell'ausiliare ed il pregiudizio subito ad esempio dall'acquirente in executivis per aver pagato un prezzo eccessivo.

È stato così affermato che il perito di stima nominato dal giudice dell'esecuzione risponde nei confronti dell'aggiudicatario, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per il danno da questi patito in virtù dell'erronea valutazione dell'immobile staggito solo ove ne sia accertato il comportamento doloso o colposo nello svolgimento dell'incarico, tale da determinare una significativa alterazione della situazione reale del bene destinato alla vendita, idonea ad incidere causalmente nella determinazione del consenso dell'acquirente (Cass. civ., 23 giugno 2016, n. 13010, che ha però escluso la responsabilità del perito in relazione ai costi sostenuti dall'aggiudicatario per la regolarizzazione urbanistica dell'immobile acquistato, maggiori rispetto a quelli indicati in perizia, evidenziando come gli stessi fossero ricollegabili ad una disattenzione dell'acquirente, che non aveva considerato la mancanza, pur rappresentata dall'ausiliario nel proprio elaborato, di alcuni documenti importanti ai fini della valutazione di tali oneri).

La pronuncia si pone sulla linea già tracciata da un precedente della Suprema Corte secondo cui l'esperto nominato dal giudice per la stima del bene pignorato è equiparabile, una volta assunto l'incarico, al consulente tecnico d'ufficio, sicché è soggetto al medesimo regime di responsabilità ex art. 64 c.p.c., senza che rilevi il carattere facoltativo della sua nomina da parte del giudice e l'inerenza dell'attività svolta ad una fase solo prodromica alla procedura esecutiva (Cass. civ., 18 settembre 2015, n. 18313, che ha confermato la sentenza di condanna dell'ausiliare, che aveva proceduto a stima viziata, per difetto, nel computo della superficie dell'immobile, al risarcimento dei danni in favore di coloro cui era stata revocata, in conseguenza di tale errore, l'aggiudicazione in sede esecutiva). La stessa decisione ha svolto l'importante precisazione secondo cui il consulente tecnico d'ufficio svolge, nell'interesse della giustizia, funzioni ausiliarie del giudice di natura non giurisdizionale, sicché è obbligato a risarcire i danni cagionati in violazione dei doveri connessi all'ufficio senza che sia ipotizzabile una concorrente responsabilità del Ministero della giustizia.

Per quanto riguarda la giurisprudenza penale, è stato infine affermato che non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione il privato danneggiato dal reato commesso dal consulente tecnico che incorra in colpa grave nell'espletamento dell'incarico (art. 64, comma 2, c.p.c.), trattandosi di fattispecie incriminatrice lesiva solo dell'interesse della collettività al corretto funzionamento dell'attività giudiziaria (Cass. pen., 14 maggio 2013, n. 23857, che ha ritenuto che il privato danneggiato dalla consulenza negligente non è titolare dell'interesse leso, ma può assumere esclusivamente la qualità di persona danneggiata dal reato; nello stesso senso Cass. pen., 3 ottobre 2012, n. 43139).

Riferimenti
  • Comoglio, Le prove civili, Torino, 2010;
  • Franchi, Del consulente, del custode e degli altri ausiliari del giudice, nel Comm. Allorio, I, 1, Torino, 1973;
  • Plenteda, La responsabilità civile del consulente tecnico d'ufficio, in Resp. civ., 2007, 4;
  • Protettì-Protettì, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, 1994;
  • Rossetti, Il C.T.U. (“l'occhiale del giudice”), Milano, 2012.
Sommario