L'ordinanza in rassegna risolve positivamente la possibilità di individuare margini interpretativi della norma fiscale agevolatrice, nonostante la natura di ius singulare che la caratterizza. A tale conclusione si giunge in ragione dei principi di collaborazione e buona fede di cui allo Statuto dei diritti del contribuente, le cui norme sono qualificate espressamente come principi generali dell'ordinamento tributario e che costituiscono, in quanto espressione dei principi immanenti dell'ordinamento, criteri guida per il giudice nell'interpretazione delle norme tributarie.
Premessa
L'ordinanza in commento interviene in materia di trasferimento di beni immobili in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, relativamente alle imposte di registro, ipotecarie e catastali, ed in particolare, fa luce sull'applicazione della misura agevolativa prevista, in tali casi, dall'art. 33, comma 3 della l. n. 388 del 2000.
Nel caso di specie, una società barese, con distinti atti di compravendita, aveva acquistato suoli edificatori siti nel comune di Bari, ricadenti in zona tipizzata “rinnovamento urbano B/7”, per la quale, in base al vigente PRG, l'intervento era subordinato all'approvazione dei piani particolareggiati estesi a ciascuna delle aree delimitate nello strumento urbanistico, redatti in conformità ai programmi di attuazione adottati dall'Amministrazione. L'intervento era altresì autorizzato, previa cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e l'assunzione a carico dei proprietari degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione secondaria relative all'area o alle opere necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi.
Su tali presupposti, la società riteneva applicabile la norma agevolativa di cui dell'art. 33, comma 3, legge n. 388 del 2000, nonché dell'art. 76 della legge n. 448 del 2001 e, pertanto, proponeva istanza per il pagamento dell'imposta di registro nella misura dell'1% e delle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, come previsto dal combinato disposto delle richiamate norme. All'atto della registrazione, tuttavia, l'Agenzia delle Entrate pretendeva il pagamento delle imposte in misura ordinaria per cui la società, dopo aver pagato l'importo richiesto senza agevolazione, presentava varie istanze di rimborso delle somme relative alle maggiori imposte versate. Stante il silenzio rifiuto da parte dell'Agenzia delle Entrate seguito alla presentazione delle istanze di rimborso, la società proponeva altrettanti ricorsi alla CTP di Bari che, dopo averli riuniti, pronunciava sentenza favorevole al contribuente, successivamente appellata dall'Amministrazione finanziaria.
La CTR della Puglia accoglieva l'impugnazione avendo escluso, ai fini dell'applicazione dell'agevolazione, l'equipollenza fra le cessioni gratuite di aree destinate a strada ovvero a parcheggio al Comune - così come richiesto dal P.R.G. -, ai piani particolareggiati.
La società ritenendo illegittima l'omessa applicazione dell'agevolazione ex art. 33, comma 3, legge n. 388 del 2000 alla propria fattispecie, operata dall'Agenzia delle Entrate e confermata dalla sentenza dei giudici di secondo grado, propone ricorso per Cassazione censurando la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione, fra l'altro, del combinato disposto di cui agli artt. 33, comma 3, legge. 388 del 2000 e art. 76 legge n. 448 del 2001.
Gli Ermellini, decidendo nel merito, accolgono il ricorso proposto dalla società barese e, cassando la sentenza impugnata, pronunciano l'ordinanza in rassegna secondo cui, avendo la CTR escluso l'equiparazione dell'atto unilaterale di obbligo con cessione gratuita di aree al Comune, ai piani particolareggiati, non ha rispettato la ratio legis della norma e non si è uniformata ai principi enunciati nello Statuto dei diritti del contribuente, in particolare a quelli di collaborazione e buona fede.
La ratio legis quale bussola per la corretta identificazione dei margini interpretativi possibili anche in caso di norma fiscale agevolatrice
L'art. 33, comma 3 della Legge n. 388/2000 rubricato “Disposizioni in materia di imposta di registro e altre imposte indirette e disposizioni agevolative” stabilisce che “I trasferimenti di beni immobili in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, comunque denominati regolarmente approvati ai sensi della normativa statale o regionale, sono soggetti all'imposta di registro dell'1 per cento e alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, a condizione che l'utilizzazione edificatoria dell'area avvenga entro cinque anni dal trasferimento”.
Tale articolo consente, dunque, le agevolazioni ai trasferimenti di immobili in piani urbanistici particolareggiati, diretti all'attuazione dei programmi prevalentemente di edilizia residenziale convenzionata pubblica, comunque denominati, realizzati in accordo con le amministrazioni comunali per la definizione dei prezzi di cessione e di canoni di locazione, a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga entro cinque anni dal trasferimento.
La Corte di Cassazione, con numerose decisioni (ex plurimis v. Cass. civ., n. 16835/2008; id. n. 11786/2008, ¡d. n. 28010/2009, id. n. 829/2012; ord. n. 7438 del 2009, sent. n. 29612/2011) ha individuato la ragione della norma nella inequivoca intenzione del legislatore di agevolare non solo l'attività propriamente edificatoria (per i noti riflessi economici anche collettivi), ma anche di favorire, apprestando un incentivo fiscale, lo sviluppo equilibrato del territorio (Cass. civ., n. 20864/2008, ord. n. 7438/2009; Cass. civ., VI-T, n. 722 del 16 gennaio 2015).
Scopo dell'agevolazione fiscale sull'imposta di registro è, dunque, quello di favorire l'armonica urbanizzazione di lotti inutilizzati attraverso l'attuazione di piani edilizi convenzionati incentivando, così, lo sviluppo del territorio secondo i parametri e gli schemi individuati dall'ente locale nello strumento urbanistico. Su tali premesse, la Corte ha seguito, nel tempo, un indirizzo costante per cui “II beneficio dell'assoggettamento dell'imposta di registro nella misura dell'1 per cento ed alle imposte ipotecarie e catastali in misura fissa, previsto dall'art. 33, comma 3, della Legge n. 388/2000 per i trasferimenti di immobili situati in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati, comunque denominati, si applica a condizione che l'utilizzazione edificatoria avvenga, ad opera dello stesso soggetto acquirente, entro cinque anni dall'acquisto.” (Cass. civ., n. 7438/2009, n. 18679/2010, n. 722/2015).
Nella ordinanza in commento gli Ermellini, condividendo espressamente la precedente giurisprudenza di legittimità, evidenziano come la disposizione contenuta nel predetto comma del citato art. 33 non intenda dare rilievo al riscontro puramente formale dell'insistenza dell'immobile in un'area soggetta a piano particolareggiato, bensì alla circostanza che esso insista in un' area edificabile, come sono, di fatto, le aree soggette a piano particolareggiato.
Alla luce della ratio legis, la Corte perviene alla conclusione che la norma agevolatrice deve ritenersi applicabile tutte le volte in cui l'immobile si trovi in un'area soggetta ad un piano urbanistico che consenta, ai fini dell'edificabilità, gli stessi risultati del piano particolareggiato, “non rilevando che si tratti di uno strumento di programmazione secondaria e non di uno strumento attuativo, essendo possibile che il piano regolatore generale esaurisca tutte le prescrizioni e non vi sia la necessità di un piano particolareggiato, con la conseguenza che, in tal caso, il piano regolatore generale, ai fini in esame, funge anche da piano particolareggiato” (Cass. civ., n. 26046/2011).
Gli Ermellini, precisano altresì che, secondo la disposizione agevolatrice, stante la centralità assegnata dal legislatore al fatto che la vocazione edificatoria trovi concreta attuazione attraverso l'utilizzazione edificatoria stessa, a cura del medesimo soggetto acquirente, peraltro con condizione legale risolutiva entro cinque anni dall'acquisto (Cass. civ., n. 16835/2008, n. 28010/2009, n. 26046/2011, n. 5933/2013), non rileva che tanto sia posto in essere sulla base di uno strumento di programmazione piuttosto che di uno strumento attuativo.
In tale contesto argomentativo, dunque, la Corte si orienta usando come bussola la ratio legis della norma in esame, che è quella di agevolare l'attività edificatoria e favorire lo sviluppo equilibrato del territorio rilevando che, nel caso di specie risultava, come dato acquisito, il fatto che non era stato approvato un piano particolareggiato a cura dell'amministrazione comunale, ma la società ricorrente si era obbligata ad asservire a titolo gratuito al Comune di Bari, una superficie di circa mq. 2.711, 96 mercè la stipula di un atto pubblico di cessione gratuita di area destinata a strada, ed un ulteriore atto pubblico d'obbligo di asservimento per vincolo a parcheggio e vincolo ad autorimessa. La Corte, inoltre, rileva che nel caso di specie si era formato giudicato interno sull'effettivo inserimento dei beni immobili in oggetto in Area di Rinnovamento Urbano di tipo B7 per il quale, in base al vigente PRG del Comune di Bari, l'intervento era subordinato all'approvazionedi piani particolareggiati ed era autorizzato previa cessione gratuita delle aree necessarie per opere di urbanizzazione primaria, oltre all'assunzione a carico dei proprietari degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione secondaria, e delle opere necessarie per allacciare le zone ai servizi.
Cenni sulla natura giuridica dell'atto unilaterale d'obbligo. I modelli di amministrazione per accordi
Ai fini di una completa esposizione motivazionale, l'ordinanza delinea brevemente la natura giuridica dell'atto unilaterale d'obbligo, definendolo come “l'impegno con il quale il cittadino si obbliga nei confronti della Pubblica Amministrazione ad eseguire determinate opere”.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13091/2013, aveva già affermato, richiamando al riguardo la consolidata giurisprudenza di legittimità, che la convenzione stipulata tra un Comune ed un privato costruttore con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di una concessione o di una licenza edilizia, si sia obbligato ad un facere o a determinati adempimenti nei confronti dell'ente pubblico, non costituisce un contratto di diritto privato, e dunque l'atto d'obbligo che la consacra non può avere natura di contratto preliminare poichè l'atto di trasferimento successivo non ha causa giuridica omologabile al contratto di scambio.
L'ordinanza in commento, richiama espressamente l'indirizzo della predetta sentenza del 2013 specificando che l'atto d'obbligo stipulato tra un comune ed un privato costruttore con il quale questi, al fine di conseguire il rilascio di una concessione o di una licenza edilizia, si sia obbligato ad un facere o a determinati adempimenti nei confronti dell'ente pubblico, si inserisce nel procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale dal quale promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione, la quale è portatrice di interessi essenzialmente pubblici e non di protezione di quelli privati (Cass. civ., n. 742/2012; Cass. civ., n. 24572/2006, Cass. civ., ss.uu. n. 4016/1998).
Così la convenzione urbanistica, pur essendo un contratto ad oggetto pubblico, si inserisce nel solco del procedimento amministrativo volto ad esercitare il potere pubblicistico di assetto territoriale da parte del Comune, per cui resta "nel versante pubblico della cura dell'interesse urbanistico, finendo con il costituire al tempo stesso, presupposto per l'emissione del successivo provvedimento comunale di concessione e parte del contenuto di tale provvedimento, per quanto riguarda gli obblighi assunti dai privati -------" ( Cons. Stato n. 1046/1994).
L'atto unilaterale d'obbligo costituisce, dunque, uno di quei moduli convenzionali in urbanistica o, meglio delle convenzioni urbanistiche, che presenta una sempre più indiscutibile rilevanza pratica e un notevole interesse storico, in quanto investe l'evoluzione del concetto stesso della proprietà fondiaria e dei poteri pubblici di conformazione della stessa.
Si tratta, in definitiva, di uno dei modelli di amministrazione per accordi che ha trovato il suo primo terreno di coltura proprio nella materia urbanistica, per poi interessare tutto lo scenario dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino. La materia urbanistica, infatti, ha tradizionalmente costituito – e costituisce tuttora – il laboratorio nel quale si sperimenta il nuovo modo di amministrare per consenso. In questi ultimi anni si è assistito ad un processo di profonda innovazione della Pubblica Amministrazione in tale direzione, passando da un modello culturale e organizzativo che potremmo definire “burocratico” ad uno spiccatamente “collaborativo”, orientato al raggiungimento degli obiettivi utili al cittadino pur sempre nell'imprescindibile rispetto del primario interesse pubblico. Al cittadino/utente, attraverso gli attuali moduli consensuali è riconosciuto un diritto un tempo impensabile: quello di partecipare al processo decisionale della volontà pubblica, in modo semplice ed agevole.
La crescente competitività che caratterizza il mercato di erogazione dei servizi ma soprattutto la crisi economica hanno portato, peraltro, il legislatore all'uso sempre più spinto degli strumenti collaborativi proprio al fine di velocizzare determinati procedimenti amministrativi principalmente nei settori strategici per l'economia nazionale com'è, appunto, quello dell'edilizia.
A questi nuovi scenari di una pubblica amministrazione collaborativa, mostrano di essere particolarmente sensibili e attenti i giudici di legittimità nel momento in cui, nel passaggio argomentativo di cui alla lettera d) dell'ordinanza, espressamente prevedono che “nella specie, l'atto di cessione gratuita delle aree e l'atto unilaterale d'obbligo realizzano nella sostanza gli stessi effetti di uno strumento urbanistico che consente l'edificazione del terreno in conformità con i parametri urbanistici stabiliti dalla Pubblica Amministrazione”.
Nel successivo passaggio di cui alla lettera e), inoltre, gli Ermellini specificano che “Nella giurisprudenza amministrativa è assai diffusa la tesi che gli strumenti attuativi di iniziativa privata possono essere adottati con “convenzione di lottizzazione o atto unilaterale d'obbligo”, (nella specie, atto di cessione gratuita di un'area destinata a strada, ed obbligo di asservimento vincolo a parcheggio ed autorimessa) rilevandosi una sostanziale equivalenza, in ragione della natura convenzionale dell'atto, ritenuta tale dal giudice di prime cure, alla convenzione stipulata dal privato con il Comune (Consiglio di Stato, sez. trib., n. 3482 dell'8 giugno 2011).
I principi generali dell'ordinamento tributario contenuti nello Statuto del contribuente rappresentano criteri guida per il giudice nell'interpretazione delle norme tributarie
Nell'ultimo punto della parte motiva, l'ordinanza in commento precisa che la conclusione a cui è giunta attraverso il percorso motivazionale sopra esposto “non è preclusa dalla natura di ius singulare che viene generalmente riconosciuta alle norme fiscali agevolatrici, in quanto considerate derogatorie rispetto alle norme impositive, altrimenti applicabili alle fattispecie considerate, tenuto conto che anche le norme agevolatrici possono presentare margini interpretativi in ragione dei principi di collaborazione e buona fede di cui all'art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, le cui norme, emanate in attuazione degli artt. 3,23,53 e 97 Cost., e qualificate espressamente come principi generali dell'ordinamento tributario, costituiscono, in quanto espressione dei principi già immanenti nell'ordinamento, criteri guida per il giudice nell'interpretazione delle norme tributarie”.
Quest'ultima argomentazione fornita dalla Corte di Cassazione rende l'ordinanza in argomento assolutamente innovativa e degna di nota poiché rappresenta l'esito della interpretazione estensiva di una norma agevolativa, a cura di un organo con funzione nomofilattica qual è la Corte di Cassazione. I giudici di legittimità hanno effettuato simile interpretazione ancorandola dapprima, come visto in precedenza, alla ratio legis ma corroborandola successivamente con il richiamo ai principi generali dell'ordinamento tributario, contenuti nello Statuto dei diritti del contribuente, in particolare quelli di collaborazione e buona fede.
E' di tutta evidenza il percorso evolutivo effettuato nel caso di specie dalla Cassazione in un campo blindato, qual è quello delle norme fiscali agevolatrici, aventi pur sempre natura di ius singulare. ll valore aggiunto di cui si veste l'ordinanza in rassegna è rappresentato, inoltre, dal fatto che la Corte trasferisce i principi di collaborazione e buona fede, che generalmente attengono al piano dei rapporti tra fisco e contribuente, ad un diverso piano, più alto ed astratto: quello della interpretazione della norma. Il richiamato art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, rubricato “Tutela dell'affidamento e della buona fede. Errori del contribuente” al comma 1 stabilisce, infatti che “I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. L'intersezione effettuata dalla Corte di Cassazione tra il piano fattuale del rapporto tra fisco e contribuente con quello astratto della interpretazione della norma, rappresenta una illuminata estensione di principi, con una spiccata valenza evolutiva ed applicazione trasversale degli stessi.
Il richiamo effettuato dalla Corte, fra gli altri, all'art. 97 della Costituzione rafforza l'applicazione dei principi di collaborazione e buona fede anche al versante interpretativo, lì dove prevede che gli uffici pubblici sono organizzati, secondo disposizioni di legge, in modo tale da assicurare il buon andamento dell'Amministrazione. In capo a quest'ultima si pone dunque, un vero e proprio obbligo di collaborazione e di comportamento secondo buona fede, in tutti i settori della sua attività.
Quelli della correttezza e della buona fede, infatti, sono “espressione dei principi già immanenti nell'ordinamento”, come puntualmente precisano gli Ermellini, il cui fondamento etico nasce dalla morale solidaristica sposata dalla Costituzione italiana.
In conclusione
L'ordinanza in rassegna delinea una chiara presa di posizione della Cassazione a favore della correttezza sostanziale dei rapporti tra fisco e contribuente e della prevalenza della sostanza sulla forma. Il richiamo ai principi immanenti dell'ordinamento in riferimento ad un contesto, quello dell'interpretazione della norma, apparentemente estraneo alla logica della collaborazione e della buona fede, principi solitamente riferiti allo stretto rapporto fattuale tra fisco e soggetto passivo d'imposta, conferma la diretta applicabilità degli stessi da parte dell'organo giudicante, a prescindere dall'esistenza di una norma positiva che ne preveda l'applicazione al singolo caso. Ma costituisce, soprattutto, un monito forte e chiaro sia per l'amministrazione finanziaria sia per i giudici di merito, a non allontanarsi, nello svolgimento delle rispettive funzioni, da quelli che sono i principi generali del nostro ordinamento tributario, così faticosamente positivizzati dal legislatore con la Legge n. 212/2000, meglio nota come Statuto dei Diritti del contribuente.
Rigoroso appare, altresì, il richiamo alla presupposta comprensione della ratio legis al fine dell'espletamento di una corretta attività interpretativa, volta anche ad individuare la disciplina che il legislatore avrebbe adottato per il caso concreto, qualora lo avesse previsto.
Il percorso logico seguito dal collegio appare, dunque, perfettamente in linea con il pensiero del Bobbio secondo cui “se la ratio legis è la ragion sufficiente della norma giuridica, si dovrà dire, in base al principio di validità del ragionamento per analogia, che l'estensione dal caso regolato al caso non regolato è legittima quando il secondo ha in comune col primo la ratio legis, o per dirla con le parole usate tradizionalmente dai giuristi, quando la somiglianza dei due casi consiste nell'avere entrambe l'eadem ratio” (N. Bobbio, L'analogia nella logica del diritto, Torino).
In tale ottica assai pregevole appare l'argomento affrontato dagli Ermellini relativo alla possibilità di superare lo ius singulare, che caratterizza le norme fiscali agevolatrici derogatorie rispetto alle norme impositive, soprattutto in considerazione che simile argomento sfocia fisiologicamente in un tema assai delicato racchiuso nell'espressione, di origine anglosassone, di tax expenditures. Le agevolazioni fiscali, infatti, traducendosi in una riduzione del gettito, producono sul bilancio pubblico un effetto analogo all'erogazione di una spesa pubblica, di importo pari alle imposte detassate. È evidente, infatti che l'aumento delle norme agevolative o l'eccessivo ampliarsi delle fattispecie ad esse ricondotte, comporta una maggiore “spesa” pubblica dovuta alle agevolazioni stesse. Ne discende un compito gravoso per l'interprete che, in simile contesto dovrà operare con particolare rigore, costituendo ogni trattamenti di favore, una deviazione dalla struttura tipica della tassazione.
In conclusione, è possibile affermare che lo stato di diritto si declina attraverso la certezza della regola che deve tradursi, però, nella certezza del suo significato; tale esigenza si estende “all'ermeneuta perché con l'interpretazione audace e infedele (sotto la suasiva etichetta occorrendo, di interpretazione funzionale, progressiva, correttiva) non pregiudichi la regola nella stessa sua efficacia” (E. Allorio, La certezza del diritto nell'economia ,in Dir. econ., 1956).
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Sommario
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