Quando il teste che può partecipare al giudizio è incapace?

Alessandro Farolfi
19 Marzo 2018

Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte si è occupata della questione inerente l'incapacità a deporre prevista dall'art. 246 c.p.c..
Massima

L'incapacità a deporre prevista dall'art. 246 c.p.c. si verifica quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, tale da legittimarlo a partecipare al giudizio nel quale è richiesta la sua testimonianza con riferimento alla materia che ivi è in discussione.

La valutazione della sussistenza o meno dell'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare è rimessa – così come quella inerente l'attendibilità del teste e la rilevanza della deposizione – al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivata.

Il caso

La vicenda processuale è semplice e, proprio per questo, paradigmatica. Ribaltando la decisione di primo grado, la Corte d'appello di Lecce accoglie l'actio negatoria servitutis avanzata dalla comproprietaria del presunto fondo servente e rigetta, al contempo, la domanda riconvenzionale di intervenuta usucapione della servitù di passaggio avanzata da una confinante. Il fulcro di tale decisione può ravvisarsi nella opposta valutazione delle prove testimoniali. Infatti, mentre il giudice territoriale di primo grado aveva valorizzato la deposizione di due testimoni, i giudici del gravame ne affermano la incapacità, con ciò ritenendo l'insufficienza probatoria della domanda riconvenzionale volta a vedere riconosciuto l'acquisto per usucapione del diritto reale minore in re aliena.

La questione

I motivi di impugnazione avanzati nei confronti della decisione di secondo grado si concentrano proprio su quest'ultima valutazione di incapacità, e concernono, in estrema sintesi, i seguenti profili:

  • con il primo motivo di ricorso si censura la violazione dell'art. 246 c.p.c. (in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.) rilevando che l'azione attorea era stata avanzata unicamente nei confronti dell'attuale ricorrente in Cassazione, da cui si doveva arguire che i due testi mai avrebbero potuto in concreto partecipare al giudizio, essendo portatori di un mero interesse di fatto alla decisione;
  • con il secondo motivo, invece, si rileva la violazione dell'art. 246 c.p.c. (in rapporto all'art. 360 nn. 3 e 5) contestando la fondatezza e logicità del percorso argomentativo utilizzato dalla Corte d'appello per sostenere l'incapacità di uno dei due testi, osservando che lo stesso non era neppure proprietario del fondo dominante, asseritamente servito dalla strada del cui accertamento si discuteva.
Le soluzioni giuridiche

In primo luogo i Giudici di legittimità affrontano (e superano) una questione di carattere pregiudiziale sollevata dalla resistente: quella relativa alla dedotta improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2 c.p.c. del ricorso, in quanto proposto nei confronti di una sentenza notificata di cui non era stata prodotta – unitamente al ricorso – la relativa relata di notifica. La questione, che in effetti aveva agitato un acceso dibattito, viene risolta rinviando al decisum di Cass. civ., Sez. Un., 2 maggio 2017, n. 10648, la quale ha fatto applicazione di un principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione processuale costituita dal divieto di accesso al giudice, osservando che (implicitamente in forza del superiore principio di acquisizione processuale) tale improcedibilità non può essere pronunciata ogni qual volta, nonostante tale omissione, la relata sia comunque nella disponibilità dei giudici, vuoi perché prodotta dalla parte controricorrente, vuoi perché contenuta nel fascicolo d'ufficio acquisito a seguito di apposita istanza. Poiché nella fattispecie in decisione la relata era proprio contenuta nel fascicolo della parte resistente, ecco che i giudici hanno avuto buon gioco nell'applicare direttamente quanto affermato dalle Sezioni Unite appena richiamate.

Superata tale questione pregiudiziale, la decisione in esame rigetta entrambi i motivi di ricorso più sopra sintetizzati.

Da un lato, infatti, nel concordare che l'incapacità del teste non sussiste quando egli possa avere un interesse di mero fatto alla decisione, si precisa che anche in tal caso il giudice deve comunque tenere conto di detta situazione nella valutazione di attendibilità del testimone.

Dall'altro lato, richiamandosi ad un principio ormai consolidato, la Corte ricorda come la situazione di incapacità sussista quanto il teste sia portatore di un interesse personale, attuale e concreto, tale da legittimarlo a poter partecipare al giudizio nel quale è chiamato a deporre, ciò che si verifica quando egli sia direttamente coinvolto nel rapporto controverso, ovvero quando il suo interesse sia riferibile ad ulteriori azioni che per il loro stretto collegamento con la materia del contendere sono tali da determinare un obiettivo e già concreto interesse alla partecipazione nel giudizio di cui si discute.

Inoltre, la valutazione della situazione di incapacità viene ritenuta un giudizio di fatto, demandato ai giudici del merito, come tale incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato.

Sulla scorta di tali concorrenti argomentazioni, ritenuto che le motivazioni della Corte d'appello in proposito fossero logiche e fondate sul titolo di proprietari o comproprietari di fondi confinanti con quelli delle parti, tali da legittimare un intervento litisconsortile volto all'accertamento in proprio favore di un analogo diritto di servitù, è stata confermata la decisione di secondo grado che – nel ritenere l'incapacità dei suddetti due testimoni – ha rigettato la domanda riconvenzionale di intervenuta usucapione della servitù di passaggio.

Osservazioni

Il tema della incapacità a testimoniare è apparentemente risolto nel riferimento alla sussistenza di un interesse giuridico concreto, e non di mero fatto, tale da giustificare ex art. 100 c.p.c. un interesse del testimone a partecipare al giudizio nel quale è chiamato a deporre. In tal caso si ritiene che la situazione di incapacità (che evidentemente va eccepita) sussista.

In realtà, se si passa dalle declamazioni di principio alla disamina dei casi giurisprudenziali più recenti, si può osservare come sussista – anche nella giurisprudenza di legittimità – uno strisciante contrasto difficile da ricomporre ad unità.

Secondo una tesi più rigorosa, infatti, la valutazione di incapacità va condotta sì nel caso concreto, ma a prescindere da quelle circostanze di fatto sopravvenute che nella singola fattispecie potrebbero escludere un residuo ed ulteriore interesse a partecipare al giudizio, ad esempio in caso di transazione o prescrizione del diritto spettante al testimone. Secondo Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16499, ad esempio, la circostanza che il soggetto indicato quale teste dall'attore danneggiato fosse stato già soddisfatto nelle sue pretese creditorie in conseguenza dell'avvenuto versamento della somma in contestazione non è idonea a “riattivare” una capacità di testimoniare che, appunto, va valutata a prescindere da vicende che costituiscano un posterius facti rispetto alla predicabilità ex ante dell'interesse a partecipare al giudizio; analogamente, anche Cass. civ., 28 settembre 2012, n. 16541, la quale ha a sua volta affermato che la vittima di un sinistro stradale è incapace ex art. 246 c.p.c. a deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata nel medesimo sinistro, a nulla rilevando né che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto (nello stesso senso Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2013, n. 3642).

Questo orientamento rigoroso, che finisce per allargare in concreto le maglie della incapacità, è sostenuto da numerose decisioni di merito, proprio nell'importante settore della infortunistica stradale. In questo senso Trib. Bologna, 16 novembre 2017, n. 21015, alla cui stregua il terzo trasportato non è legittimato a testimoniare nel giudizio instaurato dal danneggiato finalizzato al risarcimento dei danni da questi riportati a seguito del sinistro, in quanto titolare di un interesse che ne potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, in qualsiasi veste, non esclusa quella di interventore adesivo; inoltre, secondo i giudici felsinei, tale legittimazione non è riacquistata neanche a seguito di una fattispecie estintiva del diritto quale la transazione o la prescrizione, in quanto l'incapacità a testimoniare va valutata prescindendo dalle vicende che costituiscono un posterius rispetto alla configurabilità dell'interesse a partecipare al giudizio che la determina, con la conseguenza che la fattispecie estintiva eventualmente opponibile non può impedire la partecipazione al giudizio del titolare del diritto che ne è colpito e non può renderlo carente dell'interesse previsto dall'art. 246 c.p.c. come causa di incapacità a testimoniare. Nello stesso ordine di idee anche Giudice di pace Milano, 21 marzo 2017: «la vittima di un incidente stradale è incapace ex art. 246 c.p.c. a deporre nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto».

L'orientamento più rigoroso, inoltre, si riaffaccia con riferimento alla posizione del teste che sia coniuge della parte ed in comunione dei beni. Cass. civ., sez. III, 6 dicembre 2011, n. 26205, ha infatti ritenuto che, seppure l'art. 246 c.p.c. non preveda espressamente l'incapacità a testimoniare del coniuge in comunione dei beni, tale norma esprime tuttavia un principio di carattere generale secondo cui non possono testimoniare persone aventi un interesse nella causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (nella specie, avente ad oggetto la richiesta danni in seguito ad un morso di cane, la Corte ha escluso la capacità di testimoniare della moglie in comunione dei beni del proprietario dell'animale, atteso che la donna aveva chiaramente un interesse giuridico all'esito della causa, essendo i coniugi in comunione dei beni ed avendo richiesto il danneggiato una somma che avrebbe depauperato entrambi i coniugi). In senso restrittivo anche Cass. civ., sez. III, 21 gennaio 2010, n. 988, secondo cui nel caso di regime di comunione di beni fra i coniugi, qualora sia promossa una controversia da parte di uno di essi per l'attribuzione di un bene destinato ad incrementare il patrimonio comune, l'altro coniuge, pur non avendo la qualità di litisconsorte necessario, si trova in una condizione di incapacità a testimoniare, ai sensi dell'art. 246 c.p.c., stante la sua facoltà di intervenire nel processo.

Tale insegnamento si ricollega alla decisione resa da Corte cost. n. 62/1995, la quale ha ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c., sottolineando che «risulta evidente la diversità di situazione in cui i coniugi vengono a versare nelle due ipotesi. Diversità che - sembra appena il caso di notare - non è determinata dalla legge bensì dalla stessa volontà delle parti, cui l'art. 159 c.c. rimette appunto la libertà di optare in favore del regime (convenzionale) di separazione oppure di quello (altrimenti vigente, per norma suppletiva di legge) della comunione dei beni, che comporta, fra le tante conseguenze, anche la cd. incapacità prevista dall'art. 246 c.p.c., fra l'altro (nella specie) per la possibile legittimazione passiva all'azione di responsabilità ex art. 2054, comma 3, c.c.».

Di fronte a tale indirizzo, e in una posizione di non aperto o consapevole contrasto, si pongono invece una serie di decisioni, altrettanto ricorrenti, che adottano una interpretazione più liberale dell'art. 246 c.p.c., finendo per restringere enormemente, in concreto, l'ambito di applicazione della relativa incapacità.

É il caso, ad esempio, di Cass. civ., sez. lav., 21 ottobre 2015, n. 21418, secondo cui l'interesse che determina l'incapacità a testimoniare, ai sensi dell'art. 246 c.p.c., è solo quello giuridico, personale, concreto ed attuale, che comporta o una legittimazione principale a proporre l'azione ovvero una legittimazione secondaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati. Tale interesse non si identifica con l'interesse di mero fatto che un testimone può avere a che venga decisa in un certo modo la controversia in cui esso sia stato chiamato a deporre, pendente fra altre parti, ma identica a quella vertente tra lui ed un altro soggetto ed anche se quest'ultimo sia, a sua volta, parte del giudizio in cui la deposizione deve essere resa. Né l'eventuale riunione delle cause connesse (per identità di questioni) può far insorgere l'incapacità delle rispettive parti a rendersi reciproca testimonianza, potendo tale situazione soltanto incidere sull'attendibilità delle relative deposizioni.

Ma tale posizione è sostenuta anche da Cass. civ., sez. I, 26 gennaio 2015, n. 1344, secondo cui l'interesse a partecipare al giudizio previsto come causa d'incapacità a testimoniare dall'art. 246 c.p.c., si identifica con l'interesse a proporre la domanda e a contraddirvi ex art. 100 c.p.c., sicché deve ritenersi colpito da detta incapacità chi potrebbe, o avrebbe potuto, essere chiamato dall'attore, in linea alternativa o solidale, quale soggetto passivo della stessa pretesa fatta valere contro il convenuto originario, nonché il soggetto da cui il convenuto originario potrebbe, o avrebbe potuto, pretendere di essere garantito (ha ritenuto la Suprema Corte, in applicazione del riferito principio, pertanto, che deve escludersi che l'interesse a partecipare al giudizio possa discendere solo dalla potenziale responsabilità del teste nei confronti degli attori).

Una applicazione di tale principio all'opposizione allo stato passivo si ritrova anche in Cass. civ., sez. I, 24 maggio 2012, n. 8239, in forza della quale, attesa l'interpretazione restrittiva del divieto di testimoniare, incidente sul diritto di difesa, e la natura dell'opposizione allo stato passivo fallimentare, divenuta giudizio a trattazione singolare con la riforma di cui al d.lgs. n. 169/2007, deve escludersi che il creditore ammesso allo stato passivo sia, in quanto tale, incapace di testimoniare nel giudizio di opposizione allo stato passivo promosso da altro creditore, occorrendo viceversa apprezzare in concreto se l'eventuale intervento ex art. 99, comma 8, l. fall., come sostituito dal d.lgs. n. 169/2007, si correli a un interesse giuridico, personale, concreto ed attuale, alla definizione del predetto giudizio.

Del tutto peculiare, e di fatto senza precedenti editi, il caso affrontato da Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2010, n. 15712, la quale giunge ad escludere la possibilità di teorizzare una incapacità derivata del testimone: «in tema di prova testimoniale, non sono invalide le dichiarazioni rese da un teste capace ed aventi ad oggetto fatti riferiti al medesimo da altro teste precedentemente dichiarato incapace, non potendo configurarsi una sorta di sopravvenuta incapacità riflessa del teste capace, ma dovendo il giudice apprezzare con particolare severità la verità intrinseca di tali fatti, soprattutto se favorevoli all'incapace».

Il panorama giurisprudenziale appare invece univoco in tema di eccezione di incapacità. Infatti, secondo Cass. civ. sez. lav., 21 ottobre 2015 n. 21418, già cit., la nullità della testimonianza resa da persona incapace deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. (salvo il caso in cui il procuratore della parte interessata non sia stato presente all'assunzione del mezzo istruttorio, nella quale ipotesi la nullità può essere eccepita nell'udienza successiva), sicchè, in mancanza di tale tempestiva eccezione, la nullità deve intendersi sanata (in tal senso, tra le tante, Cass. civ., n. 16116/2003; Cass. civ., n. 6555/2005; Cass. civ., n. 403/2006), senza che la preventiva eccezione d'incapacità a testimoniare, proposta a norma dell'art. 246 c.p.c., possa ritenersi comprensiva dell'eccezione di nullità delle testimonianze comunque ammesse ed assunte nonostante quella previa opposizione (Cass. civ., n. 9553/2002 e Cass. civ., n. 15308/2004). Alla stregua di tale principio, parte ricorrente avrebbe dovuto dedurre e dimostrare di avere eccepito la nullità delle contrastate deposizioni testimoniali all'atto stesso della loro assunzione (o immediatamente dopo) (Cass. civ., n. 8358/2007; più di recente: Cass. civ., n. 17713/2013), senza limitarsi ad invocare la peraltro inesistente violazione dell'art. 246 c.p.c..

Del pari Cass. civ., sez. II, 23 novembre 2016, n. 23896, (v. Amendolagine, La sanatoria dell'eccezione di nullità della prova testimoniale per incapacità del teste irritualmente sollevata, in www.ilProcessoCivile.it), ha ritenuto che la nullità della testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c. deve essere contestata subito dopo l'espletamento della prova e qualora detta eccezione venga respinta o comunque ignorata dal giudice di prime cure, la parte interessata ha l'onere di riproporla anche nei successivi atti di impugnazione compreso il giudizio di legittimità, nel quale va altresì allegata la dimostrazione della tempestività della suddetta eccezione, in difetto, dovendo ritenersi sanata l'eventuale nullità derivante dall'incapacità dei testi per l'irritualità della relativa eccezione (in precedenza Cass. civ., Sez. Un., 23 settembre 2013, n. 21670).

Guida all'approfondimento
  • Amendolagine, Infezione nosocomiale e ammissione della prova testimoniale di soggetti estranei al giudizio, in www.ilProcessoCivile.it;
  • Ceccarini, La prova orale nel processo civile, Milano, 2010;
  • Farolfi, Prova testimoniale, in www.ilProcessoCivile.it;
  • Giordano, L'istruzione probatoria nel processo civile, Milano, 2013;
  • Viola, La testimonianza nel processo civile, Milano 2012.
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