La procedura di allerta tra il D.L. n. 83/2015, la legge delega di riforma e le bozze di decreti attuativi

Andrea Ferri
19 Marzo 2018

È ancora aperto il dibattito sulla Legge Delega Orlando, con particolare riferimento alla procedura di allerta per l'emersione tempestiva della crisi, normata all'art. 4 e agli artt. 15 e seguenti del progetto di Codice della crisi e dell'insolvenza.
Premessa

È ancora aperto il dibattito sulla Legge Delega Orlando, con particolare riferimento alla procedura di allerta per l'emersione tempestiva della crisi, normata all'art. 4 e agli artt. 15 e seguenti del progetto di Codice della crisi e dell'insolvenza.

I riformatori vedono nel progetto norme tese a rendere più virtuoso e professionale l'imprenditore “nazionale”, mentre i conservatori vedono un atteggiamento del Legislatore tipicamente “dirigista”, con possibile inerenze del Giudice sulla cosiddetta “business judgment rule” e sul libero arbitrio di accedere al concordato preventivo sempre e comunque, anche dopo la deadleane dell'art. 2486 c.c.

Come di frequente, la verità sta nel mezzo, ma è doveroso sottolineare che l'impianto della procedura di allerta esiste già nel nostro ordinamento, delineando, in un'ottica de jure condito, parallelamente ai redigendi decreti attuativi della Delega, i percorsi di risanamento.

Il concordato preventivo non è più la procedura concorsuale principale e lo strumento da poter adottare, in primis, anche ad insolvenza acclarata (quanto meno dopo l'introduzione del D.L. 83/2015) e la procedura di allerta si rappresenta, come vedremo in questo contributo, in una serie di norme con risvolti di tipo punitivo.

Quanto più l'imprenditore si allontana dalla situazione di crisi ed entra in quella di insolvenza, quanto più peseranno nel piano di risanamento le azioni di responsabilità ed i risvolti di tipo penalistico legati all'ingresso tardivo in procedura ed allo svilimento del valore aziendale; questo è stato il teorema del Legislatore prima della riforma Rordorf/Orlando (Atti del convegno di Bologna 27 luglio 2015, ODCEC).

Una riforma epocale, scompare il termine fallimento e diviene liquidazione giudiziale; ma non è solo l'identificazione del termine fallimento e fallito a scomparire: stiamo per entrare in un nuovo mondo di gestione dell'insolvenza.

Se sembrò una riforma epocale quella del D.L. n. 83/2012, che dipinse le nuove metodologie di protezione dell'impresa, l'automatic stay, il pre-concordato, il voto all'adunanza dei creditori col silenzio assenso, questa novella porterà ancor di più in primo piano il ruolo della cellula aziendale da salvare e preservare, grazie alla procedura di allerta per l'emersione tempestiva della crisi.

Il Legislatore “estivo” del 2015 ha stravolto la riforma del 2005/2006, forte dei primi dati statistici, fortemente negativi, soprattutto sui risultati, a consultivo, dell'adempimento e della ripartizione a favore del ceto chirografario, sul concordato preventivo al Tribunale di Milano.

Sulle decisioni di quel Legislatore hanno poi pesato tutti i dati (più recenti) e le notizie sull'abuso (inutile, peraltro, al fine della conservazione della unità aziendale in mancanza di un piano di risanamento) del pre-concordato, varato dal “vecchio” D.L. 83 quello del 2012 (Convegno ODCEMI 27.06.2013, “Andamento delle procedure di concordato preventivo presso il Tribunale di Milano” 2008/2009, rel. dott. Roberto Fontana).

Non sono ancora sedimentate le rilevanti modificazioni del D.L. 83 del 2015 e, ancor di meno quelle del D.L. n. 59/2016 e oggi pare intervenire, con la legge delega Orlando, una eliminazione profonda di tutto quel tessuto sanzionatorio – vessatorio che sta attorno alla procedura di fallimento, sia in termini di azioni di responsabilità che di bancarotta semplice in capo agli organi di governo e di controllo, se la nuova liquidazione giudiziale viene attivata dal debitore durante la fase di allerta (art. 15 del CCI).

La legislazione europea impone al nostro Legislatore di passare da una concezione punitiva del debitore inadempiente, che determina una sanzione patrimoniale e civile, ad una concezione più di politica economica, secondo la quale ogni responsabilità va soppesata in termini di reale capacità risarcitoria (capienza patrimoniale del debitore che va comunque esdebitato almeno una volta nella vita – cosiddetta “second chance”) .

Sarà una modificazione enorme del modo di pensare dei professionisti della crisi e dell'imprenditore che si approccia al suo piano di risanamento. E' possibile ipotizzare che nessun imprenditore acculturato e virtuoso si “arrampicherà sugli specchi” (tardivamente) ad impostare una procedura di concordato in continuità non retta da un piano di risanamento fattibile e sostenibile.

Le misure premiali apporteranno quel “quid juris” in più, in ottica depenalizzante e con esenzione delle azioni di responsabilità, compensando il disagio reputazionale, che tipicamente potrebbe emergere all'avvio della procedura di allerta.

L'accesso alla procedura di allerta, presso le Camere di Commercio, all'organismo denominato OCRI, o all'OCC degli Ordini professionali, per le crisi dei soggetti minori, parrebbe garantito da riservatezza e confidenzialità, avverbi che non hanno precedenti in materia giuridica, a dimostrazione della grande attenzione volta dal Legislatore al tema reputazionale (art. 15, comma 2, del CCI : “Il debitore, all'esito dell'allerta, o anche prima della sua attivazione, può accedere al procedimento di composizione assistita della crisi, che si svolge in modo riservato e confidenziale, dinanzi all'Organismo della crisi d'impresa disciplinato dall'art. 19”).

Potrà anche accedere alla liquidazione giudiziale, senza costi aggiuntivi pre-dedottti e se la sua azione sarà tempestiva e permetterà una rapida cessione dell'azienda, con indubbi benefici per i creditori e per i lavoratori, la sua azione di responsabilità sarà calmierata ed adeguata ai benefici arrecati.

Se poi sarà passato, senza indugio al palesarsi di quegli indici di crisi che segnalano “la richiesta di aiuto”, allora sarà esentato da ogni sanzione civile e penale, connessa alla successiva insolvenza, questo almeno traspare dal tenore degli artt. 4 e segg. della legge delega.

Se quell'imprenditore si è rivolto per tempo all'OCRI, è probabile che abbia già risolto la sua crisi con un semplice piano attestato ex art. 67 l.fall., oppure con un accordo di moratoria 182-septies con i principali istituti di credito, o in ultima istanza un 182-bis.

Oppure, sempre nell'ambito della procedura di allerta, che già prevede una prima attestazione sulla veridicità dei dati contabili, potranno essere avvalorate, rectius, deliberate, singole mediazioni (falcidie o postergazioni) con singoli creditori. In questi aspetti, l'allerta presenta molte analogie con gli accordi di moratoria (cfr. Riccardo Ranalli - Accordi di ristrutturazione bancari e convenzioni di moratoria, Giuffrè, 2016).

Probabilmente il numero di concordati preventivi subirà una ulteriore, brusca frenata (già innescata dal D.L. 83/2015) ed aumenteranno gli accordi di ristrutturazione del debito.

L'esenzione da azioni di responsabilità per amministratori e sindaci, la non assoggettabilità ad ipotesi di reato di bancarotta semplice, nel caso in cui la procedura di allerta sia stata attivata per tempo, inducono a ritenere fondamentale la gestione di una pre-crisi o declino, volta a dirimere le questioni di governance strategica emerse in sede di 2381 c.c. (piano di risanamento).

E' sempre il business plan a determinare le scelte imprenditoriali, abbinato al controllo di gestione, budget e forecast degli esercizi a venire, monitorati con i consultivi, unitamente alla gestione di tesoreria ed al rendiconto finanziario; questi sono i processi aziendali ed amministrativi, che la riforma vuole rendere, di fatto, obbligatori. Se qualche dato o ratios distorge, se l'EBIDTA va in diminuzione costantemente, allora il 2381 c.c. permette di trasformare, in abbinamento al 2486 c.c., ed all'art. 152 l.fall., il business plan in piano di risanamento trasferendo tutti gli strumenti di risoluzione della crisi all'interno della nuova fase di allerta, nell'ambito dei poteri-doveri dell'organo di governo societario.

Ma il vero nodo che sarà da sciogliere, una volta che l'imprenditore si rivolga all'OCC delle camere di commercio, è: l'OCRI, sarà in grado, come mediatore della crisi (composto da un collegio di tre professionisti, uno nominato dalla CCIAA, l'altro dal presidente del Tribunale delle Imprese e l'altro dalla associazione di categoria competente, “pescati dall'art. 28 l.fall. ora, e poi dall'albo dei curatori e dei commissari nazionale) di tranquillizzare gli stackeholders di una società ancora sana, in difficoltà economica finanziaria, ma perfettamente in bonis, in continuità aziendale?

Riuscirà l'Organismo di mediazione della crisi a contenere “l'ebrezza da alta quota”, che inevitabilmente colpisce in una situazione così complicata, dove il sottile filo che divide la perdita della continuità aziendale dalla crisi e dal declino, necessita di alte professionalità aziendalistiche, volte a dirimere tensioni anziché crearne?

Non si tratta di gestire un moribondo in un concordato depositato al sorgere dell'insolvenza o di un esercizio provvisorio fallimentare, ma di un soggetto sano che ha preso l'influenza; lo strumento non sarà il bisturi, ma solo il misurino della febbre e pochi antiinfluenzali, ben calibrati al caso di specie.

Si segnala, sottolineandone la portata innovativa, la riscritturazione dell'art. 2086 c.c., che parrebbe rendere obbligatorio il controllo di gestione, con budget e forecast rapportati, a consuntivo, al bilancio d'esercizio, anche per i piccolissimi imprenditori sotto soglia di fallibilità (rectius liquidazione giudiziale).

L'allerta oggi, de jure condito, dopo il D.L. n. 83/2015

Come si determina lo stato di crisi, che necessariamente è uno stadio che precede la perdita della continuità aziendale, che a sua volta precede la situazione di insolvenza che determinerà il nuovo istituto della liquidazione giudiziale?

L'atteggiamento del Legislatore, volto a normare quanto già usuale nelle prassi delle Corti, è chiaramente proteso verso un'ottica di emersione precoce della crisi.

Se l'emersione della crisi fosse tempestiva, anche gli impianti e gli stabilimenti troverebbero una collocazione, stante l'appetibilità di quel business nel mercato di riferimento e la necessità di quegli assets e di quelle maestranze per realizzare quel fatturato.

Per gli interpreti del diritto, ma anche per gli aziendalisti, la sensazione immediatamente successiva al giugno del 2015 fu quella di un Legislatore che, con un fragoroso giro di boa, aveva ripristinato un ruolo attivo dei creditori (dopo circa 10 anni di trattative privatistiche tra il debitore e gli “inermi” creditori), nell'interesse del salvataggio del compendio aziendale, così sottoponendo il debitore in concordato preventivo alle iniziative concorrenti dei creditori (e dei terzi), sulla falsariga di quanto già normato per il concordato fallimentare (apertura ai terzi del mercato della crisi).

La riforma del 2015 non si limitava a ripristinare il ruolo del fallimento a procedura principale, ma poneva fine, altresì, alla stagione dei concordati “facili”, agevolati dal DL 83 del 2012, cosiddetto Decreto Sviluppo, che consentiva di approvare il piano concordatario a maggioranza, sulla base del principio del silenzio assenso, qualunque fosse la percentuale di ripartizione prevista per il ceto chirografario, come sosteneva certa dottrina, quanto meno fino all'introduzione nell'Ordinamento del D.L. 83/2015.

Si chiudeva, dunque, la stagione del concordato in bianco - e del più volte denunciato abuso del diritto - utilizzato esclusivamente per annichilire i creditori più aggressivi conferendo una protezione al debitore (automatic stay) che, il più delle volte, non era supportata da una vera strategia di risanamento.

La raccomandazione della Commissione UE del 12 marzo 2014 invitava gli Stati membri ad adottare, entro il 14 marzo 2015, talune regole sulla crisi d'impresa tra cui l'emersione tempestiva della crisi, l'agevolare i negoziati sui piani di ristrutturazione, dare più tutela ai nuovi finanziamenti, agevolare la concessione di una seconda opportunità al debitore fallito.

Tali temi venivano recepiti anche dal nuovo regolamento UE sull'insolvenza transfrontaliera 848/2015; con la nuovissima proposta di Direttiva del Parlamento Europeo n. 359 del 22.11.2016, tornavano in evidenza i temi della preventiva ristrutturazione, della seconda opportunità, delle misure per migliorare l'efficienza della gestione della crisi e dell'insolvenza, infine, delle procedure di rimozione e modifica della direttiva 2012/30 EU.

Il debitore, finalmente esdebitato, potrebbe così essere riammesso (se meritevole) nel circuito del credito e dell'economia, ricreando PIL per il proprio paese.

Nell'estate del 2015, il Legislatore Italiano, compulsato, giustamente, dal Legislatore comunitario (visto il ruolo ultra-nazionale delle imprese, che sono holding, filiere, gruppi nel mercato), con l'introduzione della Legge 132/2015 ha cercato - nell'imminenza dei termini imposti dalla UE, in concomitanza con i lavori della Commissione Rordorf - di incentivare l'emersione tempestiva della crisi più che con una norma specifica (ora contenuta nel disegno di legge delega Rordorf), con una serie di comportamenti virtuosi da tenersi al manifestarsi della crisi in capo agli organi di governance e di controllo.

Si trattava di una nuova e più strutturata procedura di allerta per l'emersione tempestiva della crisi, basata su una metodologia punitiva dell'imprenditore, mentre quella prevista nella legge delega Orlando è di tipo premiale, e che si innesca, ampliandola, in ottica de jure condito, sulla struttura già presente nell'art. 2409, commi 1 e 7, c.c. per il collegio sindacale e negli artt. 2392, 2381 e 2486 c.c. per il consiglio di amministrazione.( CNDCEC “Informativa e valutazione nella crisi d'impresa”, p. 22, schematizzazione sullo stadio della crisi).

Per l'imprenditore, vige ora l'obbligo di mantenere determinati indici di continuità aziendale, certi ratios di bilancio, nonché di rapportare il suo business a certi indici macro e micro economici (l'impresa è oramai la stessa in Europa e nel mondo) laddove intenda accedere al concordato in continuità o al concordato liquidatorio (cfr. Antonio Matacena, Convegno ODCE di Bologna del 12.12.2016, “Sovraindebitamento; risolvere la crisi con un nuovo walfare”).

Il mancato rispetto di tali indici comporta l'impossibilità di accedere sia al concordato in continuità, dato che la continuità del business non esiste più ed il piano di risanamento è infattibile, sia al concordato liquidatorio, poiché il piano relativo alla cessione d'azienda non riesce ad “assicurare” il pagamento del 20% ai creditori chirografari.

Esemplificativamente, se al tempo t -1 il piano di risanamento prevede una percentuale a favore del ceto chirografario che scende sotto al 20%, ci sarà un esercizio t -2 ove la soglia viene rispettata ed un tempo t -n (t-3 ad es., antecedente) dove il debitore potrà accedere al concordato in continuità sopra la soglia del 30% al chirografo, o al liquidatorio sopra al 40% e non presterà il fianco alle proposte concorrenti. Al tempo t-4, la falcidia ai creditori e lo svilimento degli assets presentano valori minimali ed il turn around è possibile mediante le procedure “light”, evitando l'esame, da parte del Tribunale, di quelle responsabilità civili e penali in capo alla governance che vengono considerate, oggi, dalla L. 132/2015 nel concordato preventivo.

Ci sono situazioni in cui anche il concordato in continuità dove il debitore assicura ai creditori chirografari ad es. una percentuale di soddisfo pari al 15% non è fattibile (o è palesemente infattibile o ragionevolmente irrealizzabile) poiché il piano di risanamento non è attestabile e quindi non lo è il piano in generale o, se attestato, subisce l'arresto del Tribunale per la non ammissibilità.

Questa fattispecie è riscontrabile nel caso in cui i flussi di cassa attesi dal piano siano insufficienti per i pagamenti ai creditori falcidiati ed a garantire i nuovi investimenti per il ritorno al valore.

Dopo che la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 1521 del 23 gennaio 2013, aveva stabilito i confini della valutazione del Tribunale sull'ammissibilità del concordato preventivo ( differenza tra fattibilità giuridica e fattibilità economica), i limiti posti dalla L. n. 132/2015 per accedere al concordato, unitamente al sistema sanzionatorio (di cui all'art. 236 l.fall.) e risarcitorio (di cui all'art. 146 l.fall.) esistenti, fungono da deterrente all'ipotesi concordataria rispetto all'alternativa fallimentare che va soppesata, sanzionando il ritardo nell'attivazione (ingresso) in procedura concorsuale.

Il debitore più tardi arriva a dichiarare il “fermo macchine”, più rilevante appare la falcidia ai creditori e lo svilimento al valore aziendale (deprezzamento degli assets) e maggiore sarà la responsabilità civile e penale degli organi sociali.

Oggi l'attestatore deve quotare nel piano anche l'azione di responsabilità e le azioni revocatorie, effettuando un'analisi comparativa con la procedura fallimentare, ex post, ma visionando, giocoforza, la contabilità dei cinque anni precedenti all'ingresso in procedura (termine prescrizionale del 146 l.fall., 2393 e 2394 c.c. per le operazioni illecite societarie) per l'esame della veridicità dei bilanci sociali, delle operazioni straordinarie, dei pagamenti ai creditori postergati, anche in riferimento all'analisi temporale del dissesto imputabile alle cariche sociali.

Se non lo fa l'attestatore, comparando i due piani del debitore, allora tale valutazione avverrà da parte del commissario, con tutte le conseguenze del caso.

Inoltre, il commissario è onerato di inviare la propria relazione ex art. 172 l.fall. al P.M., con obbligo di segnalazione di tutte le fattispecie penalmente rilevanti.

Quando l'imprenditore “chiede aiuto”, il ginepraio è maledettamente intricato e l'asticella dei controlli in capo al CDA si è palesemente innalzata rispetto al passato.

L'imprenditore, che dopo la riforma Vietti del 2003 è un imprenditore “professionale”, governa e prende decisioni soppesando i confini di una dead line obbligata, il cui superamento sarà foriero di responsabilità se il piano di risanamento non viene elaborato tempestivamente al manifestarsi della crisi.

Sono tutte nozioni tecnico /aziendali, metodi scientifici atti ad affrontare il turn around, ma l'imprenditore è obbligato a studiare le metodologie per affrontare prima il declino e poi la crisi, poichè il grado di diligenza richiestogli non è più quello del buon padre di famiglia del 1176 c.c., ma va rapportato alla “natura dell'incarico ed alla sua specifica competenza”, esplicate dall'art. 2392 c.c., versione “riforma Vietti” (CNDCEC: “Informativa e valutazione nella crisi d'impresa”, 2016, p. 22, schematizzazione sullo stadio della crisi).

Ciò significa che più l'impresa è complessa, fa parte di un gruppo di società, di una filiera microeconomica, più alto deve essere il livello di guardia e di attenzione manageriale e di cultura aziendalistico – giuridica, che deve far parte del bagaglio culturale, ma anche degli atteggiamenti strategici – gestionali, dell'organo di governo societario.

Governare la crisi attenendosi alle regole della novellata Legge fallimentare del 2006 può essere interpretato come atto di ordinaria amministrazione, come desumibile dall'art. 152 l.fall., che, in ogni caso, prevede l'obbligo di formalizzare la decisione del consiglio di amministrazione attraverso un verbale notarile che dovrà essere depositato e iscritto nel registro delle imprese entro trenta giorni al fine di rendere conoscibile ai terzi la delibera del CDA.

L'art. 161 l.fall. prevede che la domanda per l'ammissione alla procedura di concordato preventivo sia proposta con ricorso sottoscritto dal debitore. Al quarto comma, la regola generale della sottoscrizione dell'istanza viene specificata anche in relazione alle società con l'espresso richiamo all'art. 152 l.fall., in tema di concordato fallimentare.

L'art. 152 l.fall. è ritenuto applicabile, in via analogica, anche agli accordi di ristrutturazione dei debiti, tenuto conto sia della identità di ratio, sia della necessità di integrare la disciplina della procedura assai circoscritta, con quella del concordato preventivo (F. Guerrera, sub art. 152 l.f., in A. Jorio, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006-2007, 2205).

Scopo della norma è quello di regolamentare e distribuire all'interno dell'organizzazione sociale il potere decisionale e di rappresentanza, con riferimento alla fase di accesso ad ogni procedura concorsuale, rispetto alla quale l'impresa in crisi conservi una legittimazione attiva.

In base all'art. 152 l.f. (parzialmente novellato) la proposta di concordato presentata dalla società deve essere sottoscritta da coloro che ne hanno la rappresentanza legale, quindi dai singoli amministratori.

Al secondo comma del medesimo articolo, è previsto un regime diversificato di approvazione per le società di persone, da un lato, e per le società di capitali e cooperative, dall'altro. Si tratta di un regime “comunque emblematico della tendenza ordinamentale al trasferimento di competenze dall'organo assembleare a quello gestorio” (Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Cottino, Trattato di diritto commerciale, XI, Padova, 2008, 65), fermo restando, però, per tutti i tipi di società, la derogabilità delle scelte operate dal legislatore.

In particolare, nelle società di persone, la proposta e le condizioni del concordato, salva diversa determinazione dell'atto costitutivo o dello statuto, devono essere approvate dai soci che rappresentano la maggioranza assoluta del capitale.

Nelle società di capitali o cooperative, e salva anche in questo caso, diversa determinazione dell'atto costitutivo o dello statuto, la proposta e le relative condizioni devono essere deliberate dagli amministratori e detta delibera deve risultare da verbale redatto da notaio per poi essere depositata e iscritta presso il registro delle imprese ai sensi dell'art. 2436 c.c.

Con il D.lgs n. 5/2006, in coerenza con la tendenza legislativa emersa dalla riforma del diritto societario, si è ritenuto, dunque, di assegnare agli amministratori, anziché all'assemblea (come nel sistema normativo previgente che faceva riferimento all'assemblea straordinaria a meno che quei poteri fossero stati delegati agli amministratori medesimi), il potere di chiedere il concordato, invertendo il rapporto tra regola ed eccezione rispetto a quanto previsto in precedenza.

Tale soluzione consente di consolidare la posizione degli amministratori e risponde all'esigenza di snellimento e accelerazione del processo decisionale in materia di concordato, risultando più coerente al principio di spettanza esclusiva agli amministratori del potere di gestione dell'impresa, previsto dall'art. 2380-bis c.c. (in questo senso si veda la Relazione al d.lgs. 5/2006, sub art. 152). La suddetta esigenza, nel regime previgente, veniva soddisfatta mediante la possibilità di conferire la delega dei relativi poteri agli amministratori, da parte dell'assemblea.

Esiste, tuttavia, un limite: si è precisato, infatti, che la competenza degli amministratori a decidere sulla proposta e sulle relative condizioni non implica anche la competenza a decidere sulle operazioni di ristrutturazione societaria (aumenti di capitale, fusioni, scissioni, ecc.), che dovessero formare oggetto della proposta medesima, per le quali rimangono intatte le competenze dell'assemblea straordinaria (A. Nigro, La riforma organica delle procedure concorsuali e le società, DF, 2006, I, 789).

In questi casi è necessaria una conforme delibera da parte degli organi sociali competenti per legge o statuto (cioè l'assemblea straordinaria o l'organo amministrativo, nell'ambito dei propri poteri o dei poteri delegati) affinchè la proposta sia valida.

Se la proposta concordataria non contempla operazioni di specifica competenza dell'assemblea straordinaria (delibere sulle modificazioni dello statuto, sulla nomina, sulla sostituzione e sui poteri dei liquidatori e su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza), o nel caso in cui determinate competenze dell'assemblea siano state espressamente delegate, per scelta statutaria, all'organo amministrativo (delibere sulla fusione nel caso di fusione per incorporazione artt. 2505 e 2505-bis, istituzione o soppressione di sedi secondarie, riduzione del capitale sociale, trasferimento della sede sociale nel territorio nazionale, emissione di obbligazioni convertibili in azioni, aumento del capitale sociale nei casi previsti dall'art. 2443 c.c.), è possibile affermare che la presentazione della proposta di concordato rientri tra gli atti di ordinaria amministrazione della società.

Prima della fatidica delibera del CDA dell'art. 152 l.fall., la fa da padrone il 2381 c.c., prevenendo, con una gestione virtuosa, il declino e la crisi (industriale). Recita il 4° comma: “Sulla base delle informazioni ricevute (il cda) valuta l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società….e qui entrano in campo la 231/2001, il risk management, la contabilità analitica, il controllo di gestione, la pianificazione strategica.

Prosegue il 2381 c.c. ….”quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione.

Ancora una volta è il piano industriale il vero protagonista delle scelte e delle decisioni strategiche e, nel momento di crisi, diventa piano di risanamento e strumento per guidare le scelte sull'unica grandezza che conta realmente, l'EBITDA, cioè il margine della gestione caratteristica.

I “professionisti della crisi” devono essere specializzati e competenti per poter affiancare il manager in un momento così delicato della vita societaria.

Il loro intervento, nell'ottica di sottostare ad un giudizio ex post da parte del Tribunale sulla responsabilità in caso di default, deve essere severo e rigidamente ancorato al rispetto delle (nuove) regole ispirate alla conservazione del valore a tutela dei creditori (art. 2486 c.c.), alla prudenza ed alle oculate regole di risk management che non considerano la crisi finanziaria americana dei sub-prime del 2007 e la recessione mondiale conseguente del 2008-2016 una causa esterna che esclude la responsabilità della governance in caso di default.

Anzi, proprio la crisi e la globalizzazione del business si palesano quali campanelli di allarme che rendono necessario innalzare i livelli di professionalità degli organi di governance e di auditing.

Nel codice della crisi e dell'insolvenza viene definita, finalmente, la crisi, prima all'art. 2, che definisce gli istituti e le fattispecie: lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate.

Apparentemente manca la doverosa comparazione con la perdita della continuità aziendale, necessaria al collegamento col 2486 c.c. Invece all'articolo 16, che definisce gli indicatori della crisi, demandando al CNDC l'emanazione di una serie indici settoriali, viene indicato al primo comma: costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell'attività imprenditoriale svolta dal debitore e rilevabili attraverso appositi indici, con particolare riguardo alla sostenibilità dei debiti nei successivi sei mesi ed alle prospettive di continuità aziendale, nonché l'esistenza di significativi e reiterati ritardi nei pagamenti , tenuto conto anche di quanto previsto all'art. 27.

Rapporto fra crisi e perdita della continuità aziendale

Si è molto discusso, in occasione dei lavori della commissione Rordorf ed in ambito di lavori parlamentari, sulla definizione di crisi.

Tale definizione è assolutamente carente nella legge fallimentare.

All'art. 160 l.fall. il Legislatore, riferendosi all'imprenditore “che si trova in stato di crisi”, senza specificarne la portata, ha individuato i requisiti oggettivi per accedere alla procedura di concordato, precisando, altresì, che per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza.

Solo nel codice civile, all'art. 2467, si intravede una definizione assimilabile alla nozione di crisi, laddove si fa riferimento all'obbligo di restituzione dei finanziamenti soci postergati ossia quelli “in qualsiasi forma effettuati che sono stati concessi in un momento in cui, …risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto….” nozione, quest'ultima, assimilabile al rapporto debito/equity che rappresenta il classico ratios di bilancio, denominato quoziente di indebitamento, che misura la difficoltà economica – finanziaria dell'impresa.

Nel documento del CNDCEC del 2015, la definizione di crisi richiama quella tipicamente Zappiana:

CRISI (definizione): “una perturbazione o improvvisa modificazione di un'attività economica organizzata, prodotta da molteplici cause ora interne al singolo organismo ora esterne ma comunque capaci di minarne l'esistenza o la continuità (Gino Zappa, La produzione nell'economia delle imprese, 1957).

La teoria zappiana, se non intende affermare compiutamente il concetto di organismo da assegnare all'azienda, pure ne assimila e ne condivide il presupposto della unitaria coordinazione dei mezzi disponibili per il raggiungimento di un obiettivo comune; in sostanza, con lo Zappa si afferma la teoria sistemica dell'azienda, poiché ne individua i componenti e ne richiede la coordinazione per il raggiungimento di un fine preordinato: il soddisfacimento dei bisogni umani.

Queste correlazioni cinetiche tra gli equilibri aziendali dovrebbero avvertire coloro che hanno la responsabilità del governo dell'impresa sull'importanza di presidiare tutte e tre le condizioni di equilibrio, anche quelle che, talvolta, per il loro carattere di immaterialità, non appaiono subito evidenti, come la condizione finanziaria d'equilibrio. (Paolo Bastia, Pianificazione e controllo dei risanamenti aziendali, G. Giappichelli Editore 1996 ).

In termini più pratici, la crisi rappresenta una fase di squilibrio economico – finanziario, che è in grado, se non affrontata, di mettere a repentaglio la continuità aziendale.

Le tre condizioni di equilibrio aziendale: i) economica, ii) finanziaria e iii) patrimoniale, vanno tenute nella massima considerazione da parte degli organi di governance e di controllo, i quali dovranno considerare l'unitarietà delle oscillazioni, come se fossero aggregate in un unico contenitore.

La perdita di marginalità che origina il disequilibrio economico nel tempo, falcidia il capitale netto ed intacca la solidità patrimoniale dell'azienda. Inizia in tal modo a disgregarsi l'equilibrio patrimoniale, con un conseguente incremento dell'indebitamento.

Il disequilibrio finanziario e patrimoniale, originato solitamente dal disequilibrio economico, provoca indirettamente un ulteriore aggravamento del conto economico, mediante l'incremento degli oneri finanziari.

La patologia è rappresentata dai seguenti valori apicali negativi: i) il patrimonio netto azzerato ii) il cash flow azzerato. Insomma per definirla semplicemente, per i giuristi, è l'insolvenza prospettica o futura.

Prima di arrivare alla fase di stand still con i creditori, quando iniziano le trattative per risolvere la crisi, come può il consiglio di amministrazione determinare la dead line oltre la quale la delibera di cui all'art. 152 l.f., che, come detto, può considerarsi atto di ordinaria amministrazione, sarebbe tardiva?

Occorre rapportarsi a criteri di tecnicità contabile e ragionieristica quali:

  • Principio di revisione 570 (ISA Italia)
  • OIC 6 (ma anche OIC 1,11 e 5)
  • IAS 1
  • Documento Banca d'Italia, Consob e Isvap del 6.2.2009 e comunicazione Consob n. 9012559
  • Principi contabili dottori commercialisti e norme codicistiche in primis l'art. 2423 bis
  • Monitoraggio del patrimonio netto – impairment test sugli intangibles quali marchi, brevetti ma anche sulla valutazione del magazzino, dei crediti, degli immobili industriali
  • Valutazione del ciclo di tesoreria collegato con le singole componenti del CCN (attività correnti-passività correnti).
  • Monitoraggio del rendiconto finanziario almeno ad un anno in abbinamento col business plan
  • Continuità fisica dell'azienda >(vitalità) - i contratti, i clienti, la rete vendita, i processi, il know - how; gli intangibles sono attivi ed hanno un valore?
  • Indici di bilancio, se palesemente incoerenti col business e valutativi dello squilibrio economico finanziario
  • Misurazione dell'EBIDTA (generato e prospettico): per la garanzia di sostegno di qualsiasi piano di ristrutturazione del debito si vada ad ipotizzare, nella logica di un adeguato indice di copertura delle passività, l'EBIDTA dovrebbe avere un valore di 1,3-1,5 rispetto al DSCR (Debt Service Coverage Ratio). Tale rapporto utilizza il servizio del debito quale capacità di rimborso delle quote di capitale a breve e a medio lungo termine e la totalità degli interessi pagati sulle passività aziendali; questo nell'assunto che vi sia adeguata capacità di copertura a breve con l'autoliquidante.
  • Il Debt Service Cover Ratio (DSCR) è pari al rapporto, calcolato per ogni periodo dell'orizzonte temporale previsto per la durata dei finanziamenti, fra il flusso di cassa operativo dell'impresa (per semplificazione assimilato al valore EBITDA) ed il servizio del debito comprensivo di quota capitale e quota interessi.
  • DSCR = FCO / DFt + It (volto a determinare se i flussi di cassa sono diventati insufficienti per servire il Debito)

Dove:

FCO = flusso di cassa operativo relativo all'esercizio t-esimo

DFt = quota capitale da rimborsare nell'esercizio t-esimo

It = quota interessi da corrispondere nell'esercizio t-esimo

Il valore esuberante, rispetto a 1, auspicabile intorno all'1,3/1,5 permette, per la differenza, il pagamento dei dividendi agli azionisti.

Rapporto tra PFN ed EBITDA - L'indice misura la sostenibilità del debito aziendale in base al cash flow lordo prodotto dalla gestione. E' importante che l'indicatore assuma valori contenuti in termini assoluti: in questo caso si metterebbe in evidenza una sostanziale capacità dell'azienda a sostenere il rimborso dei debiti finanziari indicati nella PFN, tra le quali compaiono le quote di rimborso dei debiti di finanziamento a lungo termine attraverso la generazione di flussi reddituali operativi caratteristici lordi indicati nel valore dell'EBITDA.(Fondazione nazionale Dottori commercialisti, Documento 15.9.2015, La posizione finanziaria netta quale indicatore alternativo di performance).

Ciò è dovuto al fatto che, qualora non si verifichino variazioni del capitale circolante e, dunque, nei crediti verso clienti e dei debiti verso fornitori, la configurazione reddituale EBITDA esprime una misura indicativa sintetica dei flussi di cassa operativi generati dalla gestione caratteristica che possono, dunque, essere utilizzati al servizio degli impegni finanziari assunti.

Si rivela, pertanto, un indicatore di reddito fortemente utilizzato nella pratica professionale e nella valutazione sintetica della capacità di generare flussi finanziari operativi di un progetto di investimento di un'azienda, soprattutto se finanziato con capitale di terzi.

Nella Legge delega n. 155/2017 erano indicati alcuni indici, mentre nei decreti attuativi si demanda al CNDC l'emanazione successiva di indici settoriali.

Nel presente contributo si vuole annotare, secondo la miglior tecnica aziendale, i ratios che evidenziano, secondo certi range comparativi tra esercizi di bilancio, gli allarmi contabili (cosiddetti early warnings) che possono far attivare la deliberazione del 152 l.fall..

Indici di efficienza e regolarità gestionale

I 4 indici indicati dalla Legge delega n. 155/2017:

1) Rotazione del magazzino (non pertinente poiché troppo difforme da settore a settore)

Indice di rotazione = costo del venduto / (magazzino To + Magazzino T1) /2

Indica quante volte un'azienda vende le proprie giacenze medie di merci in un anno

Un valore alto è positivo = un dato accettabile per un'azienda manifatturiera è 4. Indice non significativo in quanto l'eventuale adozione di benchmark di riferimento rischia di essere non corretta e tantomeno applicabile in modo indiscriminato alle diverse situazioni che caratterizzano i diversi settori merceologici).

Sono indici rappresentativi della “salute” del business:

2) Rapporto debt/equity

3) Liquidità primaria attività correnti/pass correnti= maggiore di 1

4) Rotazione dei crediti (idem come rotazione magazzino)

Pensiamo alla grande distribuzione rispetto ad un'azienda manifatturiera. Non è pensabile elaborare un unico benchmark di riferimento.

Indice di rotazione = Vendite / (Crediti commerciali To + Crediti commerciali T1) /2

Indica il numero di volte in cui lo stock dei crediti si rinnova in un anno. Un valore alto è positivo = un dato accettabile per un'azienda manifatturiera è 3

Ma anche:

5) rotazione dei debiti che è l'indice che più si avvicina al debt service cover ratio

Indice di rotazione = (acquisti merci B6 + Costi servizi B7) / (debiti commerciali To + Debiti commerciali T1)/2

Indica il numero di volte che lo stock di debiti vs fornitori si rinnova in un anno

Un valore alto è positivo = un dato accettabile per un'azienda manifatturiera è 3

6) debt service cover ratio

DSCR = FCO / DFt + It (volto a determinare se i flussi di cassa sono diventati insufficienti per servire il Debito)

Dove:

FCO = flusso di cassa operativo relativo all'esercizio t-esimo

DFt = quota capitale da rimborsare nell'esercizio t-esimo

It = quota interessi da corrispondere nell'esercizio t-esimo

Il valore esuberante, rispetto a 1, auspicabile intorno all'1,3/1,5 permette, per la differenza, il pagamento dei dividendi agli azionisti.

7) PFN/EBIDTA

8) CCN= att corr – pass corre = (margine di tesoreria)

9) Equity/attività totali

10) Equity-attività immobilizzate= margine di struttura

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