Le espressioni sconvenienti od offensive: orientamenti giurisprudenziali
21 Marzo 2018
Una piccola silloge
A leggere le cronache politiche, in cui tanta parte ha avuto negli ultimi anni la retorica del «vaffa», o a rammentare qualcuno degli innumerevoli epiteti offensivi rivolti agli avversari politici di turno, definiti dagli uni «lumaconi bavosi e schifosi», dagli altri attaccati «alle cifre come gli ubriachi si attaccano ai lampioni», e senza neppure voler chiamare in gioco blog e social network, in cui l'offesa personale sembra essere lo sport preferito dagli haters, mette di buonumore e suggerisce un tiepido clima da piccolo mondo antico il pensare che, nell'ambito del processo civile, è stato giudicato sconveniente ed offensivo l'addebito all'avversario nientepopodimeno che di voler «fare il furbo» (Cass. civ., 15 aprile 2004, n. 7169), o di non essere propriamente uno «stinco di santo» (Cass. civ., 8 gennaio 2003, n. 73): nulla a che vedere, certo, con Flaubert, che dette della «vacca piena di inchiostro» a George Sands, o a Schopenhauer, che definì Hegel «un repellente e insulso ciarlatano», o al grande John McEnroe, rivoltosi ad uno spettatore che gli aveva indirizzato parole non proprio gentili con il premuroso quesito: «Che altri problemi hai oltre ad essere un disoccupato, un idiota e un coglione?». Sul filo del rasoio e dinanzi ad un fiero ed irrisolto contrasto giurisprudenziale ci pone invece l'avverbio «subdolamente». Sarà offensivo o no dire che l'avversario ha agito «subdolamente»? Si è difatti «ritenuto che non può essere disposta, ai sensi dell'art. 89 c.p.c., la cancellazione delle parole che non risultino dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo, essendo ben possibile che nell'esercizio del diritto di difesa il giudizio sulla reciproca condotta possa investire anche il profilo della moralità, senza tuttavia eccedere le esigenze difensive o colpire la scarsa attendibilità delle affermazioni della controparte. Da tale principio è stata tratta la conseguenza che non possono essere qualificate offensive dell'altrui reputazione le parole (come l'avverbio "subdolamente"), che, rientrando seppure in modo piuttosto graffiante nell'esercizio del diritto di difesa, non si rivelino comunque lesive della dignità umana e professionale dell'avversario» (Cass. civ., 9 maggio 2014, n. 10111, che richiama Cass. civ., 6 dicembre 2011, n.26195). Non è dunque riconducibile all'ambito di applicazione dell'art. 89 c.p.c. «l'avverbio "subdolamente"» (Cass. civ., 26 novembre 2013, n. 26418). Al contrario, è stata sanzionata la frase «come insinua subdolamente controparte», giacché «il difensore … ha utilizzato un'espressione ingiustificata, in quanto non limitata a negare la veridicità di determinati fatti, bensì volta ad attribuire alla controparte lo scopo specifico di indicare un fatto non vero» (Cass. civ., 18 dicembre 2013, n. 28285). Occorrerà dunque pazientemente attendere che della composizione del contrasto si facciano finalmente carico le Sezioni Unite, e così sia. Riguardo all'impiego dell'espressione rivolta all'avversario accusato di aver dispiegato una «strategia per frodare», il problema giuridico non è semplice. Ha stabilito una corte di merito che la formula è sconveniente, ma non è offensiva: le due cose, cioè, non stanno sullo stesso piano (v. Cass. civ., 27 giugno 2011, n. 14112). Si entra in un cupo contesto di crimini e misfatti con il verbale d'udienza in cui il giudice istruttore dà atto che l'attrice, riferendosi alla controparte, «lo accusa di aver comprato 14 avvocati», che in effetti non è poca cosa. Per la verità, lo scambio di gentilezze era del seguente tenore: «La signora — aveva osservato il difensore di una parte rivolto all'altra — ha già cambiato 15 avvocati», e la controparte aveva prontamente replicato «perche? tu te ne sei comprati 14» (Cass. civ., 20 ottobre 2009, n. 22186, nella quale si chiarisce che la cancellazione delle frasi sconvenienti o offensive è oggetto di un potere discrezionale esercitabile anche d'ufficio, potere che, proprio perché discrezionale, non può essere sindacato con gli ordinari mezzi di impugnazione). Uno scenario degno di Ettore Scola in cui recitano interpreti brutti, sporchi e cattivi pare intravedersi tra le pieghe dell'addebito ad un avvocato di essersi «presentato improvvisamente alla mia porta con persona non identificata fatta passare per l'Ufficiale Giudiziario e mi aveva estorto la somma di L.250,000 … ha aggiunto abusivamente diritti ed onorari non spettantigli … in quanto agente per se stesso … ha effettuato un'estorsione aggravata ed una truffa legalizzata» (Cass. civ., 9 luglio 2009, n. 16121, che ha rigettato il ricorso per cassazione con cui era stato respinto l'appello avverso la sentenza di primo grado che aveva condannato l'autore della dichiarazione indirizzata nei confronti del povero avvocato, trattato alla stregua di un pickpoket, al conseguente risarcimento del danno per oltre € 5000). In un caso in cui il ricorrente per cassazione si doleva che i giudici d'appello avessero omesso di sanzionare d'ufficio, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.c., le espressioni, giudicate offensive, formulate dalla controparte negli atti d'appello e di primo grado, nei quali egli era stato definito «ingordo, insaziabile, insensibile» (parliamo com'è intuitivo di scene da un matrimonio, in tema di assegno), la Suprema Corte ha ribadito che l'applicazione della norma costituisce oggetto di un potere discrezionale come tale non sindacabile in sede di legittimità. Il suono della musica è lo stesso per l'addebito di «produzione del falso infamante» (Cass. civ., 4 giugno 2007, n. 12952). Una delicata lezione d'amore consegnata ai repertori di giurisprudenza è anche quella di un legale che, al plurale maiestatis, dichiara che: «dopo un simile precedente consideriamo i nostri contraddittori oramai squalificati», ritenuta espressione di disistima e di dispregio nei confronti del difensore della controparte (Cass. civ., 8 luglio 1981, n. 4488). Né si può chiedere al giudice di «dare una lezione a questo difensore, che agiva in proprio, così facendogli passare la voglia di proporre appello» (Cass. civ., 18 giugno 2003, n. 9707), ché il processo non è una sfida all'O.K. Corral: una sensibilità molto diversa, bisogna dire, da quella statunitense, considerato il furore che traspare dalle parole di un giudice americano: «Think about how much you hate what the defendants did and teach them a lesson» (dissenting opinion di Justice O'Connor in Pacific Mutual Life Insurance Co. v. Haslip, del 1991). Al contrario non sono sconvenienti o offensive, le espressioni, contenute in un atto di parte: «quattro mezzi di ricorso malamente coordinati e in gran parte oscuri ... alterando documentate circostanze processuali ... inventando una supposta decadenza» (Cass. civ., 25 gennaio 1979, n. 585). Un viatico all'uso massiccio del verbo «contrabbandare», riferito alla tesi giuridiche sostenute, si rinviene in una decisione secondo cui tale espressione si inscrive «nella normale dialettica difensiva, come è agevolmente dimostrato dal fatto che, nella lingua italiana, al verbo contrabbandare … si attribuisce il significato fig. di "far passare qualcosa per ciò che non è", il che riferito, come nella specie, ad una tesi della controparte serve semplicemente a rafforzare l'assunto della scarsa attendibilità di tale tesi, senza assumere alcuna valenza offensiva e tanto meno sconveniente» (Cass. civ., 18 ottobre 2016, n. 21031). Soluzione alla quale mi sentirei di opporre, tornando a McEnroe, il suo celeberrimo «You cannot be serious». Io credo che ciò che è offensivo per un avvocato è offensivo per un giudice e viceversa. È offensivo dire che una sentenza «contrabbanda» una soluzione per un'altra? Se lo è — e devo dire che conosco colleghi che si offendono per molto meno —, è altrettanto offensivo dire che un ricorso per cassazione «contrabbanda» una soluzione per un'altra. E difatti si offende legittimamente l'avvocato al quale viene detto di perseguire «senza scrupoli i suoi obiettivi» (Cass. civ., 14 luglio 2015,n. 14659). Certo, ogni tanto qualcuno dalla sensibilità esacerbata c'è, come nel caso dell'avvocato adontatosi, come risulta da una sentenza di merito, per un insulto del seguente tenore: «in via del tutto autoreferenziale». Non si permetta di darmi dell'autoreferenziale, le dirò altrimenti che lei è un bel parafrastico! Il divieto di usare espressioni sconvenienti od offensive
Il divieto di usare espressioni sconvenienti od offensive mira in generale a contenere l'esercizio del diritto di difesa nei limiti del necessario (Cass. civ., 9 febbraio 1998, n. 1326; Cass. civ., 12 aprile 1983, n. 2593), senza ledere l'integrità morale della controparte (Cass. civ., 7 maggio 1981, n. 2962). L'espressione impiegata negli scritti e nei discorsi costituisce violazione della disposizione in commento ove sia offensiva o sconveniente, ma, se il suo uso si giustifica in ragione dell'esercizio della difesa e non eccede rispetto ad esso (Cass. civ., 22 febbraio 1992, n. 2188), trova applicazione la causa di non punibilità stabilita dall'art. 598 c.p. (Cass. civ., 26 gennaio 2007, n. 1757; Cass. civ., 11 dicembre 2014, n. 26106). Espressioni offensive sono quelle connotate da un'attitudine dispregiative indirizzata non soltanto nei confronti della controparte o del suo difensore, ma anche del giudice (per apprezzamenti di tal carattere rivolti alla sentenza impugnata v. Cass.civ., 29 marzo 1999, n. 3032; Cass. civ., 29 maggio 1982, n. 3326), o di terzi estranei al processo (Cass.civ., Sez.Un., 19 gennaio 1991, n. 520). Sconvenienti sono le espressioni che, pur non offensive, non sono appropriate al contesto del processo, così da dar luogo ad una condotta di minor gravità rispetto all'offensività (Cass. civ., 18 novembre 2000, n. 14942; Cass.civ., 18 giugno 2003, n. 9707; Cass. civ., 4 giugno 2007, n. 12952). La valutazione del giudice del merito sul contenuto sconveniente od offensivo delle espressioni adottate e sulla loro strumentalità all'esercizio del diritto di difesa è incensurabile in Cassazione (Cass. civ., 29 marzo 2007, n. 7731). La cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive
A norma dell'art. 89, comma 2, c.p.c. costituisce requisito dell'accoglimento dell'istanza di cancellazione di espressioni offensive contenute negli scritti difensivi che le stesse non riguardino l'oggetto della causa (Cass. civ., 4 agosto 1999, n. 8411, che ha respinto l'istanza di cancellazione dell'affermazione, contenuta nel ricorso per cassazione, che l'attività dell'istituto bancario resistente sarebbe stata caratterizzata da una notoria gestione clientelare e politicizzata, dato che essa era strettamente inerente alle tesi difensive del lavoratore ricorrente, sottoposto a procedimento disciplinare con l'addebito di avere attuato una sconsiderata espansione dell'attività creditizia). Tuttavia, la cancellazione trova applicazione anche con riguardo alle espressioni attinenti all'oggetto della causa, ove configurino un abuso del diritto di difesa e di critica, nel contrasto degli opposti interessi, trasformandosi in una manifestazione passionale e personale (Cass. civ., 28 gennaio 1983, n. 806). Il potere del giudice di merito di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare sui difensori in caso di violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, ovvero di ordinare la cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati davanti al giudice, costituisce un potere valutativo discrezionale volto alla tutela di interessi diversi da quelli oggetto di contesa tra le parti, ed il suo esercizio d'ufficio, presentando carattere ordinatorio e non decisorio, si sottrae all'obbligo di motivazione e non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., 12 gennaio 2009, n. 3487; Cass.civ., 14 luglio 2015, n. 14659). L'istanza, in quanto volta all'esercizio di un potere officioso, può essere proposta in qualunque momento del giudizio (Cass. civ., 21 luglio 2001, n. 9946). Il provvedimento di rigetto dell'istanza di cancellazione di espressioni sconvenienti ed offensive contenute nella sentenza impugnata ha carattere ordinatorio e non incide sul merito della causa, al quale è anzi estraneo e, pertanto, non è suscettibile d'impugnazione con ricorso per cassazione (Cass. civ., 4 febbraio 2016, n. 2194; Cass. civ., 14 luglio 2015, n. 14659; Cass. civ., 16 gennaio 2009, n. 1018). Si tratta di un potere meramente discrezionale il cui mancato esercizio non può formare oggetto di impugnazione (Cass. civ., 14 dicembre 2017, n. 30057), tantomeno in sede di legittimità (Cass. civ.,28 aprile 2017, n. 10517). Il risarcimento del danno
L'uso di espressioni sconvenienti od offensive negli atti difensivi obbliga la parte al risarcimento del danno solo quando esse siano del tutto avulse dall'oggetto della lite, ma non anche quando, pur non essendo strettamente necessarie rispetto alle esigenze difensive, presentino tuttavia una qualche attinenza con l'oggetto della controversia, e costituiscano perciò uno strumento per indirizzare la decisione del giudice (Cass.civ., 22 giugno 2009, n. 14552). La condanna presuppone una apposita domanda. In tema di espressioni sconvenienti e offensive, delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, ai sensi dell'art. 89 c.p.c., anche quando tali offese provengano dal difensore; sicché, destinatario della domanda di risarcimento del danno ex art. 89, comma 2, c.p.c. è sempre e solo la parte (legittimata passivamente), la quale, se condannata, potrà rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive, ove ne ricorrano le condizioni (Cass. civ., 9 settembre 2008, n. 23333; Cass. civ., 19 febbraio 2016, n. 3274). A norma dell'art. 89 c.p.c. l'offesa all'onore ed al decoro comporta, indipendentemente dalla possibilità o meno della cancellazione delle frasi offensive contenute negli atti difensivi, l'obbligo del risarcimento del danno non solo nell'ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l'esercizio della difesa, ma anche nell'ipotesi che esse si presentino come eccedenti le esigenze difensive (Cass.civ., 22 febbraio 1992, n. 2188). Per le espressioni offensive contenute negli atti del processo, l'art. 89 c.p.c. devolve al giudice del processo, cui gli atti si riferiscono, il giudizio circa l'applicazione in concreto delle sanzioni previste; tuttavia — poiché la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana, e, quindi, l'antigiuridicità dei comportamenti non si esaurisce nell'ambito del processo — quando il procedimento, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo) ovvero quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado) ovvero quando la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore, l'azione di danni per responsabilità processuale può essere proposta davanti al giudice competente secondo le norme ordinarie (Cass. civ.,29 agosto 2013, n. 19907; Cass. civ., 12 settembre 2013, n.20891; Cass. civ., 19 febbraio 2016, n. 3274). La valutazione sull'offensività e sulla lesività dell'altrui reputazione dell'espressione usata in sede di interrogatorio formale, nonché l'apprezzamento della stessa espressione come rientrante nell'ambito dell'esercizio del diritto di difesa, costituiscono accertamenti in fatto riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto (Cass. civ., 13 agosto 2015, n. 16786). Il risvolto deontologico
Difficilmente un avvocato offeso da un altro avvocato se ne starà con le mani in mano, senza reagire anche sul piano disciplinare (v. art. 52 del codice deontologico, già art. 20 codice previgente). E la giurisprudenza del CNF è tutt'altro che tenera. Così, si premette che, in tema di frasi sconvenienti o offensive, è ininfluente il fatto che il giudice civile abbia omesso di provvedere in ordine alla richiesta di cancellazione delle espressioni offensive, giacché il giudice della disciplina ha completa libertà di effettuare pieno riesame delle espressioni utilizzate sotto il profilo deontologico, indipendentemente dalla valutazione che possa fare il giudice del merito in ambito di responsabilità civile o penale circa il carattere offensivo o meno delle frasi stesse (CNF 25 settembre 2017, n. 136). Si precisa che il divieto di espressioni offensive o sconvenienti riguarda anche l'avvocato che agisca in proprio ex art. 86 c.p.c., a nulla rilevando in sede deontologica che il professionista agisca in qualità di parte o di difensore (Cass. civ., Sez. Un., 2 marzo 2018, n. 4994). Le espressioni sconvenienti od offensive, inoltre, non sono scriminate dalla provocazione altrui. L'avvocato ha il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive (la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare, che al più, rileva ai soli fini della determinazione della sanzione CNF 18 dicembre 2017, n. 207). Nell'ambito della propria attività difensiva, l'avvocato deve e può esporre le ragioni del proprio assistito con ogni rigore utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui dispone e ciò massimamente nella fase dell'impugnazione, atto diretto a criticare anche severamente una precedente decisione giudiziale e ciò rappresentando con la maggiore efficacia possibile la carenza di motivazione del provvedimento impugnato. Il diritto di critica, tuttavia, non deve mai travalicare in una censurabile deplorazione dell'operato del difensore, delle controparti e del giudicante, incontrando il limite del divieto di utilizzare espressioni sconvenienti ed offensive che violino i principi posti a tutela del rispetto della dignità della persona e del decoro del procedimento, e soprattutto del rispetto della funzione giudicante riconosciuta dall'ordinamento con norme di rango costituzionale nell'interesse pubblico, con pari dignità rispetto alla funzione della difesa (CNF 21 novembre 2017, n. 176). Benché l'avvocato possa e debba utilizzare fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel criticare e contrastare le decisioni impugnate, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà, i quali non gli consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza, se non anche offensivi, che ledono la dignità della professione, giacché la libertà che viene riconosciuta alla difesa della parte non può mai tradursi in una licenza ad utilizzare forme espressive sconvenienti e offensive nella dialettica processuale, con le altre parti e il giudice, ma deve invece rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro (CNF 25 settembre 2017, n. 136). È ancora importante rammentare, infine, che nel conflitto tra diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo e insindacabile e il diritto della controparte al decoro e all'onore prevale il primo, salvo l'ipotesi in cui le espressioni offensive siano gratuite, ossia non abbiano relazione con l'esercizio del diritto di difesa e siano oggettivamente ingiuriose; pertanto non commette illecito disciplinare l'avvocato che, in un atto del giudizio, usi espressioni forti per effettuare valutazioni generali attinenti alla materia del contendere e a scopo difensivo (CNF 9 settembre 2017, n. 120). |