Aziende insolventi: criticità giuslavoristiche nella riforma fallimentare
22 Marzo 2018
Premessa
L'approvazione della legge delega di riforma della disciplina Fallimentare (l. n. 155/2017) offre l'occasione per riprendere alcuni aspetti critici per le aziende insolventi, incidenti nei rapporti di lavoro da sempre considerati parte rilevante, e non di rado attiva, delle procedure. Il testo di Legge segnatamente alla liquidazione giudiziale all'art. 7, comma 7, richiama espressamente la necessità di chiarire e sviluppare soluzioni legate a buona parte dei temi lavoristici, che da sempre risultano coinvolti nello stato di crisi d'impresa, offrendo soluzioni pratiche ed efficaci tese ad ottenere una definizione celere della procedura (per alleggerire il peso dei costi prededucibili) e una possibile continuità dell'azienda. Il presente contributo richiamerà i capi della delega di interesse giuslavoristico, provando a prevedere possibili soluzioni, o semplici suggestioni, utili quale possibile guida agli estensori dei testi applicativi della riforma. La legge delega n. 155/2017 richiama già nei suoi principi generali, art. 2 lett g), la necessità di dare trattazione prioritaria alle proposte di continuità aziendale connesse al miglior soddisfacimento dei creditori, il tutto per evitare l'extrema ratio della liquidazione giudiziale. Tra i creditori sicuramente emerge con forza la figura del dipendete, proprio al fine di poter permettere al regista della procedura una giuda più puntuale, sarà necessario fornire le corrette indicazioni per pesare il valore della continuità del rapporto di lavoro. Infatti il lavoratore non rappresenta un creditore statico, bensì la sua figura risulta dinamica assumendo nelle valutazioni del curatore precipua importanza il potenziale mantenimento del posto di lavoro, sarà quindi necessario comprendere i gradi di valorizzazione degli interessi in gioco, rapportando la soddisfazione meramente economica dei crediti esistenti, rispetto alla mera continuazione del rapporto di lavoro. Nella lettura dell'art. 2, la lettera m) si coordina agevolmente con la lettera g), mirando alla riformulazione delle disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi. L'ambito lavoristico è foriero di contrasti interpretativi, stante la coesistenza nelle situazioni di decozione di due discipline che paiono entrambe speciali, la cui prevalenza non è individuabile ex se. In modo particolare La continuità aziendale si verificherà nei casi di crisi e liquidazione giudiziale tramite gli strumenti dell'affitto e della cessione. È nota la regolamentazione sindacale delle procedure di trasferimento d'azienda come previsto dall'art. 2112 c.c., rintracciabile nell'art. 47 L. n. 428/90 che ai commi 4 bis e 5 trova il proprio regime speciale adottabile dalle aziende in crisi, confermato negli effetti dalla sentenza Cass. n. 21214/2010 e più recentemente da Cass. n. 10838/2016. La riforma, però, dovrebbe partire dai termini procedurali previsti dal comma 1 che andrebbero: alleggeriti, ridotti, rivisti. In modo particolare una procedura più snella permetterebbe di assistere il requisito di celerità proprio delle procedure, richiamato come esigenza anche nel testo della delega. Successivamente spostando l'attenzione sui commi 4-bis e 5 un occhio di riguardo dovrebbe porsi sulla possibilità di estendere l'applicabilità degli accordi in deroga, nonché chiaramente dei relativi effetti, anche alle aziende dimensionate sotto le 15 unità. Residua infatti sul tema un'oscura area interpretativa, distante da chi scrive, che ritiene applicabili gli accordi in deroga solamente soddisfando i requisiti dimensionali di cui al comma 1. Tale assunto non risulta condivisibile in primis perché limitando la possibile deroga si limiterebbe altresì la circolazione delle piccole aziende, discriminandole rispetto a quelle dimensionate, seguitamente anche si volesse estendere il requisito occupazionale di cui al comma 1 lo stesso non limiterebbe le piccole aziende, considerato che il citato comma pone alle aziende dimensionate un obbligo procedurale, ma non esclude la facoltà delle piccole di seguire comunque la medesima procedura. Testualmente l'art. 47, comma 1 recita: “…Quando si intenda effettuare, ai sensi dell'articolo 2112 del codice civile, un trasferimento d'azienda in cui sono occupati più di quindici lavoratori…”; ne deriva che, pur legittimate in punta di diritto, le piccole aziende che intendessero ricorrere all'art. 47 commi 4-bis e 5, necessiterebbero di un intervento chiarificatore. Sempre in tema di circolazione dell'azienda in crisi uno degli aspetti più critici è rappresentato dalla possibile estensione della deroga presente all'art. 104-bis comma 6 l. fall. ai casi di affitto esofallimentare. Risulta pacifico infatti come il testo della norma sia rivolto agli affitti endofallimentari, ma diverse interpretazioni, per lo più con tendenze inclusive, hanno posto il problema dell'estensione ai contratti sorti prima del fallimento. Oltre a questo chiarimento, non di poco conto stante la necessità per massima tutela di recedere e riattivare un nuovo affitto con quanto ne consegue in termini temporali e procedurali, permane la necessità di chiarire e possibilmente estendere i termini della deroga. Infatti non si tratta, da testo letterale vigente, di deroga generale alle tutele dell'art. 2112 c.c., bensì limitata ai “debiti maturati”. Stante che l'effetto più rilevante, e quindi spesso più ingessante, dell'art. 2112 c.c. è proprio la continuità del rapporto, la deroga dell'art. 104-bis non si spinge oggi alla soluzione di continuità nei rapporti di lavoro, imponendo la retrocessione di tutta la popolazione aziendale in forza (formalmente e sostanzialmente) al momento della restituzione aziendale al fallimento, generando imprevedibilità per il curatore che potrebbe vedersi restituire un'azienda (o ramo di questa) ben più dimensionata rispetto a quella originariamente affittata, dovendo quindi affrontare l'onere di gestione e recesso del personale retrocesso con tutti i rischi del caso, nonché i costi connessi (si pensi al ticket Naspi).
Altro aspetto di particolare rilievo che merita interventi di ordine interpretativo, posto che gli interventi di ordine regolatorio rischiano di rimbalzare contro la specialità della disciplina lavoristica, è quello inerente il recesso del personale al momento del licenziamento. Dal punto di vista delle dimissioni il lavoratore potrà ottenere la qualificazione di giusta causa acquisendo il diritto al credito per preavviso, nonché emergerà il diritto dell'Inps al versamento del Ticket Naspi il tutto a carico della procedura. La definizione di giusta causa però non potrà che prevedere eventi vessatori, esempio il mancato pagamento di retribuzioni e/o contributi, manifestatisi nel periodo precedente la dichiarazione di liquidazione giudiziale pertanto anche con cessazione avvenuta successivamente, ma senza effettiva ripresa dell'attività in carico alla procedura detti crediti andranno insinuati al passivo. La liquidazione risponderà pertanto in prededuzione solamente per gli eventi con effetto reale manifestatisi successivamente alla dichiarazione, a nulla rilevando il recesso volontario del lavoratore che si dimette dopo aver operato per il fallimento adducendo motivazioni (dimostrate) realizzatesi ante procedura. Ovviamente le dimissioni anche in caso di fallimento dovranno validarsi tramite la specifica procedura ai sensi del D.M. 15 dicembre 2015. In caso di Licenziamento i chiarimenti utili ad assistere il curatore saranno di due tipi: uno procedurale ed uno circoscritto agli effetti civilistici. Il primo di questi inerisce le procedure da seguire per legittimare il recesso. Vigono oggi diverse procedure di licenziamento qualificate in base: all'anzianità del lavoratore coinvolto, nonché al requisito dimensionale dell'azienda liquidata ed al numero di licenziamenti effettuati:
Inutile specificare che andrà agevolato il curatore, tramite una normativa snella utile ad assistere i tempi necessari al regista della procedura per conoscere il requisito occupazionale dell'azienda ed i tempi di intervento del recesso. Gli errori nell'esecuzione della prassi estintiva del rapporto non ne inficeranno gli effetti, il licenziamento sostenuto da congrua motivazione risulterà comunque valido pur nel rispetto dell'art. 2119 c.c., (“…Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda…”), ma garantirebbero al lavoratore il diritto ai risarcimenti tipizzati dall'art. 18, comma 6, L. n. 300/1970 (come riformato dalla L. n. 92/2012), nonché all'art 4 D.Lgs. n. 23/2015. Il problema non è di poco conto se si pensa che il momento della liquidazione giudiziale funge da “spartiacque” anche per gli effetti estintivi del rapporto, agevolando l'insinuazione al passivo per i risarcimenti derivanti dalle impugnazioni dei recessi intervenuti nel periodo in bonis, mentre la prededuzione per i risarcimenti da meri errori procedurali del curatore non rappresenta solo un rischio, ma una pregnante certezza. Necessita quindi un intervento chiarificatore che assista le responsabilità del curatore esonerandolo per esempio dal rischio di risarcimenti rilevanti, che peraltro peserebbero a carico di tutti i creditori, scaturiti per una scarsa conoscenza delle caratteristiche aziendali. Su questo aspetto possono individuarsi due semplici interventi, da un lato la previsione di una deroga specifica per la liquidazione giudiziale (e solo per questa procedura) al rispetto delle procedure disegnate dal legislatore ai recessi di stampo oggettivo. Residuerebbe quindi la mera ipotesi procedurale legata ai licenziamenti collettivi, pertanto lo scrupolo del curatore si limiterebbe all'individuazione del requisito occupazionale dell'azienda decotta solo in caso di recessi oltre le cinque unità. La seconda ipotesi cavalcherebbe l'art. 72 l. fall. Posto che anche in questo caso l'intervento riguarderebbe unicamente la liquidazione giudiziale, non applicandosi tale previsione al concordato. L'idea potrebbe essere quella di estendere espressamente la portata dell'articolo anche ai rapporti di lavoro, questione già chiarita dalla Cass., Sez. Lav. n. 7473/2012, tipizzando il caso di sospensione utile al curatore per conoscere l'entità occupazionale dell'azienda ed individuare la procedura di recesso ideale. Per non isolare il focus sull'aspetto aziendale, l'effetto dei licenziamenti deve chiarirsi espressamente anche per quanto riguarda le conseguenze sul lavoratore. Posto che la risoluzione di un rapporto di lavoro non proseguito, al massimo sospeso ex art. 72 l. fall., retroagisce al momento della liquidazione giudiziale, la data del licenziamento incontrerebbe un chiaro scoordinamento tra forma (data di comunicazione) e sostanza (data di effetto). Le conseguenze potrebbero risultare determinanti per il lavoratore che vedrebbe ad esempio spostarsi dies a quo per la percezione della Naspi, o addirittura veder spirare i termini per la richiesta di intervento dell'ammortizzatore. Rileva quindi la necessità di definire compiutamente l'aspetto temporale del recesso, affinché l'aspetto giuridico riconcili le posizioni del lavoratore con quella dell'Inps e permetta il decorso dell'ammortizzatore dalla data sostanziale di recesso, legando invece i termini di istanza alla data formale dello stesso.
Relazioni con creditori pubblici qualificati
Innegabile l'importanza del soggetti pubblici qualificati, che nella loro posizione di creditori della procedura spesso limitano la propria azione a compiti meramente burocratici. La Legge Delega eleva, invece, il compito di questi soggetti all'art. 4 lett d) ove si vincola l'efficacia dei privilegi di Legge alla segnalazione immediata agli organi di controllo delle società in crisi, circa il perdurare di adempimenti di importo rilevante. Ovviamente tale relazione ente pubblico-soggetto privato prevede anche l'obbligo di intervento del privato successivo alla segnalazione, con attivazione nei tre mesi successivi alla stessa del procedimento di composizione assistita o dell'estinzione del debito o della gestione dello stesso. Massimo plauso a questa previsione che pone soggetti pubblici e privati sullo stesso piano, provando a sterzare una condizione generale di immobilismo diffusa negli ultimi anni tra gli enti, con cui le complesse relazioni obbligano i curatori ad allungare spesso i tempi di liquidazione. Vincolando i tempi alla qualificazione dei privilegi si spera di innescare il motore della macchina amministrativa, partendo proprio dal dialogo utile ad evitare la procedura. Ciò che manca, e il Decreto legislativo potrebbe fissare un punto importante a questo proposito, è la definizione temporale dell'azione pubblica con fissazione precisa di importi e tempi di morosità utili ad accendere il campanello d'allarme, nonché l'imposizione di termini stringenti (e si spera perentori) a carico della macchina amministrativa per l'informazione. Traducendo è necessario trasformare la locuzione inserita nel testo “immediatamente” in una precisa scadenza temporale, solo così si potrà stimolare la condotta puntuale dell'ente pubblico e salvaguardare veramente gli interessi dei creditori tutti, evitando ove possibile il ricorso alla procedura. Un termine non definito o semplicemente ordinatorio paventerebbe una traduzione dell' “immediatamente” in “troppo tardi”. Sempre con riferimento alla posizione degli enti una vera sterzata dovrebbe dedicarsi alla questione della transazione dei debiti, espressamente richiamata dall'art. 5. L'aspetto rilevante riguarda l'ambito previdenziale, l'introduzione dello strumento nel D.M. 4 agosto 2009, infatti, non ha sortito gli effetti sperati, pur rappresentando l'unica possibilità utile ad affrontare le relazioni debitorie gravi con l'Inps. Il sistema di garanzie e gli ostacoli procedurali, nonché di relazioni, ne hanno minato il ricorso, pertanto risulta necessario un intervento legislativo chiaro che guidi l'Inps verso la definizione di piani transattivi chiari utili a tutte le parti coinvolte da una parte per restare in vita, dall'altra per recuperare la parte dei crediti “possibili”.
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