La rilevabilità d'ufficio dei profili di nullità del licenziamento: i termini di una questione in divenire
22 Marzo 2018
Con la sentenza n. 28796 del 30 novembre 2017, la Corte di Cassazione ha di recente ribadito il divieto di rilevabilità d'ufficio di motivi di nullità del licenziamento non dedotti dal ricorrente, affermando in particolare che la nullità del licenziamento per contrasto con norme imperative è insuscettibile di essere rilevata d'ufficio, in quanto il principio di cui all'art. 1421 c.c. non può trovare applicazione quando la parte chieda (solo) la declaratoria di invalidità di un atto a sé pregiudizievole: dovendo la pronuncia del giudice rimanere circoscritta alle ragioni di illegittimità ritualmente dedotte dalla parte stessa.
Più nello specifico, il Collegio ha escluso che possano essere automaticamente estesi alla materia dei licenziamenti i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 14828 del 04 settembre 2012 e in seguito con la sentenza n. 26242 del 12 dicembre 2014 con le quali è stato, fra l'altro, affermato il generale potere di rilevazione ex officio della nullità negoziale, precisando che la disciplina della invalidità del licenziamento sarebbe caratterizzata, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, da un tratto di marcata specialità.
La regola enunciata costituisce la riconferma di un indirizzo compiutamente sviluppato dalla Suprema Corte con la precedente sentenza n. 7687 del 24 marzo 2017, i cui argomenti vengono, non a caso, richiamati ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nelle motivazioni della pronuncia, al dichiarato fine di darne continuità e si inscrive in un filone giurisprudenziale seguito da numerosi arresti ricordati in parte motiva, fra cui Cass., sez. lav., 16 aprile 1999, n. 3810, Cass., sez. lav., 7 giugno 2003, n. 9167; Cass., sez. lav.,17 maggio 2012, n. 7751; Cass., sez. lav., 28 settembre 2015, n. 19142, ivi, 619; Cass., sez. lav., 22 giugno 2016, n. 12898.
Sul piano più generale, è opportuno evidenziare che il tema della rilevabilità d'ufficio di motivi di nullità del recesso non dedotti dal lavoratore, da sempre al centro di un vivace dibattito interpretativo, si è di recente caricato di forti tensioni ermeneutiche per effetto della riconosciuta estensione, da parte delle nota pronuncia a Sezioni Unite del 12 dicembre 2014 n. 26242, del potere giudiziale di rilevare d'ufficio nullità negoziali anche diverse da quelle articolate dal ricorrente. Ed invero, come statuito, nell'ambito di un più ampia rassegna di principi, dal massimo consesso: a) il giudice innanzi al quale sia stata proposta una domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l'esistenza di una causa di quest'ultima diversa da quella allegata dall'istante, essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, come tale individuabile indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio; b) la parte processuale, se lo ritiene opportuno, ha facoltà di coltivare il vizio segnalato chiedendo la relativa declaratoria di nullità, all'esito di un contraddittorio provocato ex art. 181, con la controparte; c) in caso di mancata rilevazione d'ufficio del profilo di nullità in primo grado, anche il giudice di appello e di cassazione ha sempre il potere di procedere al rilievo.
Inoltre, secondo la Corte, la rilevabilità officiosa delle nullità va estesa anche a quelle cosiddette nullità di protezione, da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia, come una species del più ampio genus rappresentato dalle prime, tutelando gli stessi interessi e valori fondamentali -quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l'uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) - che trascendono quelli del singolo.
In armonia con i suddetti principi e alla luce della portata generale degli stessi, si è in un primo momento registrato anche in materia lavoristica un orientamento (Cass. civ., sez. lav., 28 agosto 2015, n. 17286) favorevole, almeno in ambito disciplinare, alla rilevabilità officiosa di profili di nullità procedimentali non dedotti, e tanto in ragione dell'assunto per cui l'estensione del potere officioso del giudice a tutte le nullità c.d. di protezione giustificherebbe la rilevabilità di profili di nullità disciplinari per violazione del procedimento di cui all'art. 7 St. Lav., avente natura inderogabile. In particolare, in detta pronuncia, senza diffondersi in particolari dissertazioni, la Corte ha inteso dare piena continuità all'orientamento espresso dalle Sezioni Unite del 2014, ricomprendendo la nullità dei licenziamenti nell'alveo delle nullità c.d. di protezione, caratterizzate dalla coesistenza della legittimazione ristretta (potendo essere fatta valere dal solo soggetto nel cui interesse è prevista) e di una rilevabilità d'ufficio, comunque subordinata alla verifica dell'utilità pratica che il soggetto protetto possa trarne. In linea con tale approccio, si è poi pronunciata la Suprema Corte con sentenza n. 13804 del 31 maggio 2017 che, in analoga vicenda afferente a procedimento disciplinare a carico degli autoferrotranvieri, ha riaffermato che l'omissione di una delle fasi della procedura disciplinare (articolata nel caso di specie dall'art. 53 dell'allegato A al r.d. n. 148 del 1931), avente natura inderogabile e volta alla tutela del lavoratore dipendente, quale contraente debole, determina la nullità della sanzione disciplinare che, in relazione al tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione. Le suindicate letture, pienamente favorevoli alla diretta traslazione dei principi dettati dalle S.U. in ambito lavoristico, non hanno tuttavia trovato riscontro nella giurisprudenza successiva, venendo radicalmente disattese dal giudice di legittimità che, all'esito di una complessiva rimeditazione della questione, ha escluso, con gli arresti citati in apertura, che il paradigma nomofilattico tracciato dalle Sezioni Unite possa essere applicato alle impugnative di licenziamento. Le argomentazioni della Corte e i rilievi critici
Procedendo all'esame delle recenti argomentazioni della Corte, si osserva che, alla luce delle più estese motivazioni della sentenza n. 7687 del 24 marzo 2017, la tesi reiettiva del giudice di legittimità si fonderebbe sulla pretesa e parziale inapplicabilità ai licenziamenti, sub specie di atti unilaterali, della corrispondente normativa contrattuale: trattandosi di disciplina asseritamente non compatibile, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1324 c.c., con la natura dell'atto in questione. In particolare, la tesi della incompatibilità della disciplina viene supportata da un argomento di tipo sostanziale ed uno di tipo processuale; infine l'impostazione viene confortata da una valutazione di ordine eminentemente sistematico. Seguendo lo schema delineato, il giudice di legittimità sostiene che un primo elemento ostativo di ordine sostanziale sarebbe costituito dalla natura speciale della normativa che, sin dalla L. n. 604/1966, disciplina i licenziamenti, in quanto connotata dalla previsione di uno specifico termine di decadenza, previsto dall'art. 6 della suddetta legge, ai fini dell'impugnativa del recesso. Tale previsione -in seguito estesa dall'art. 32, L. n. 183/2010 a tutte le ipotesi di invalidità del recesso e dunque anche a quelle diverse dalle nullità di cui all'art. 4 - unitamente alla previsione di un ulteriore termine perentorio per il deposito del ricorso, esprimerebbe un profilo di decisa specialità della fattispecie, tale da renderla non compatibile ex art. 1324 c.c. con la disciplina generale dei contratti.
Inoltre, sotto diverso ma complementare profilo, la Corte considera significativa, ai fini dimostrativi, la circostanza che nella vigenza dell'originario art. 18, L. n. 300/1970 gli effetti della dichiarazione di nullità del licenziamento e della pronuncia di annullamento dello stesso sono sempre stati accomunati sul piano delle tutele da omologhe conseguenze, modulate solo in ragione della natura del vizio e della sfera soggettiva dei contraenti. Ne conseguirebbe dunque un tratto di marcata specialità della disciplina, tale da indurre la dottrina ad affermare che il diritto del lavoro riutilizza le categorie civilistiche, “piegandole alle proprie esigenze” e la stessa Corte di Cassazione ad escludere, una volta maturata la decadenza, che l'illegittimità del recesso possa essere fatta vere dal lavoratore secondo la disciplina comune. Le argomentazioni della sentenza, pur se di disposte in un quadro di apparente coerenza, si fondano su un percorso di motivazioni che, ad una più attenta analisi, non risultano convincenti. Ed invero, se analizzata sul piano logico, la tesi sostanziale sembra inficiata da un vizio formale (sub specie di fallacia di pertinenza), consistente nel desumere, ai fini dell'art. 1324 c.c., la pretesa incompatibilità della disciplina dei licenziamenti (tesi perseguita), dalla natura speciale della stessa rispetto allo schema della nullità codicistica. In altre parole, la premessa del ragionamento sembra costituita dall'assunto, rimasto indimostrato, secondo cui la specialità della normativa sui licenziamenti rispetto alla disciplina generale della invalidità negoziale comporterebbe ipso facto la radicale incompatibilità della prima rispetto alla seconda, in forza di un'assimilazione concettuale arbitraria giacché relativa a due categorie giuridiche distinte. Ed invero, una cosa è qualificare, sulla scorta dei rilevati profili differenziali, la disciplina delle patologie dei licenziamenti come speciale rispetto al genus delle invalidità civilistiche, altro è postularne, per l'effetto, la radicale irriducibilità rispetto al parametro generale che, sino a prova contraria e proprio in forza della enunciata relazione di genere a specie, continua a rappresentarne il modello.
A diversa conclusione, non conduce poi l'esistenza in materia di un regime di impugnazione della invalidità (ex art. 6, L. n.604/1966) poco armonizzabile con il generale principio di imprescrittibilità dell'azione di nullità, essendo noto che la previsione di termini decadenziali ai fini della impugnazione di atti affetti da nullità, lungi dal rappresentare un unicum limitato alla materia dei licenziamenti, è contemplata anche in tema di nullità dei contratti a termine di cui al D.Lgs n. 368/2001 nonché, in diversi ambiti, in tema di nullità delle delibere societarie ex 2379 c.c. e di nullità degli atti amministrativi di cui all'art. 31, co. 4, c.p.a.: tutte ipotesi che non escludono per ciò stesso la rilevabilità d'ufficio del vizio.
Esposta la tesi sostanzialistica e rafforzato l'assunto della specialità mediante il richiamo ad orientamenti conformi della dottrina e della giurisprudenza (argomento ad judicium), la Corte sposta poi la prospettiva sul piano processuale ricordando che, ai sensi dell'art. 18, co. 7, L. n. 300/1970 e dell'art. 4, D.Lgs n. 23/2015, l'applicazione delle tutele previste per il licenziamento discriminatorio sarebbe possibile solo “sulla base della domanda formulata dal lavoratore”, secondo una formula ritenuta inconciliabile con la rilevabilità d'ufficio di profili di nullità non dedotti. Orbene, anche questa tesi a ben vedere non appare risolutiva: in primis poiché la richiamata disposizione è testualmente circoscritta ai soli licenziamenti discriminatori, lasciando fuori le altre ipotesi di nullità testuale e virtuale; in secundis perché l'esistenza, ai fini dell'applicazione della disciplina, di una apposita domanda formulata dal ricorrente non esclude che la stessa possa essere proposta all'esito del rilievo d'ufficio del giudice e della concessione di termini utili all'introduzione, da parte del predetto, del nuovo profilo di censura e all'apprestamento, da parte del resistente, delle relative difese.
Venendo infine alla considerazione di ordine sistematico, la Corte conclude per l'inapplicabilità alla fattispecie dei principi di cui alla sentenza n. 26242 del 12 dicembre 2014, in ragione della asserita impossibilità di ricondurre l'impugnativa di licenziamento nell'alveo, esteso dalle sezioni unite alle ordinarie azioni di nullità contrattuale, delle domande di accertamento di diritti autodeterminati. Nello specifico, la mancata equiparazione dell'impugnativa di licenziamento alle altre azioni con le quali si fanno valere diritti autodeterminati discenderebbe, secondo il Collegio, dalla “molteplicità dei profili di invalidità che possono incidere sulla validità del recesso”, peculiarità che si aggiungerebbe al fatto che il sindacato giurisdizionale in questi casi sarebbe concentrato sull'atto di recesso, a dispetto delle ogni altra azione di nullità, in cui verrebbe in rilievo l'intero rapporto contrattuale. Per inquadrare tale argomento, richiamato dalle Sezioni Unite del 2014, giova sinteticamente ricordare che la distinzione, di ascendenze germaniche, fra diritti eterodeterminati e diritti autodeterminati, si fonda, secondo una consolidata definizione, sulla qualità tipica dei primi (diritti eterodeterminati, fra cui i diritti di obbligazione) di sussistere simultaneamente e più volte tra gli stessi soggetti: ragione per cui, ai fini della loro identificazione, risulterebbe sempre necessario individuare, non solo il contenuto ma anche il relativo fatto costitutivo, ovvero la causa petendi. Per converso, i diritti autodeterminati -essenzialmente i diritti reali e, per alcuni, i diritti della personalità-, non potendo coesistere simultaneamente e più volte tra i medesimi soggetti, sarebbero individuabili sulla base della sola indicazione del bene che ne forma l'oggetto, identificandosi la rispettiva causa petendi con i diritti stessi e non con il titolo che ne costituisce la fonte (cfr. Cass. 26 novembre 2008, n. 28228; cfr. Cass. 13 febbraio 2007, n. 3089). Operate tali premesse, non può che apparire ininfluente, ai fini definitori, il richiamo operato nella sentenza n. 7687/2017 alla molteplicità dei profili di illegittimità (sub specie di nullità, annullabilità ed inefficacia) astrattamente riferibili al licenziamento: trattandosi di elemento irrilevante rispetto alla richiamata definizione e peraltro comune a tutte le azioni di invalidità contrattuale: aventi pur sempre ad oggetto atti negoziali, come tali suscettibili di essere viziati sotto diversi profili. In altre parole, la riconducibilità della declaratoria di nullità alla categoria delle domande relative a diritti autodeterminati ovvero eterodeterminati non può discendere ipso iure dalla entità e tipologia dei vizi dell'atto astrattamente denunciabili, dipendendo piuttosto, in linea con quanto affermato nella sentenza n. 26242/2014, dalla natura della domanda proposta che, a dispetto dei diversi vizi prospettabili, resta unica ed è configurabile quale istanza di accertamento negativo del potere datoriale di licenziare, correlata ad un diritto (diritto soggettivo del dipendente a proseguire l'attività lavorativa), qualificabile come autodeterminato, giacché inerente ad una situazione giuridica assoluta. Osservazioni conclusive
Alla luce di tanto e della rilevata controvertibilità degli argomenti richiamati dalla Corte, pare opportuno tentare un percorso ermeneutico alternativo che, al fine di risolvere la quaestio iuris, parta dalla natura accertativa dell'azione di nullità (e in generale dell'impugnativa) del licenziamento e proceda nel rispetto della distinzione, esistente all'interno della macro-area delle invalidità, fra ipotesi di licenziamento nullo, interessate dai principi della Suprema Corte e ipotesi (ormai residuali) di licenziamento annullabile, in modo da fugare le ambiguità derivanti dalla trattazione unitaria di fattispecie differenti.
Con riferimento al primo profilo, deve affermarsi, in linea con autorevole dottrina processualistica (Consolo) che, a dispetto della espressione letterale utilizzata dal legislatore (L. n. 604/1966), l”impugnativa” di licenziamento dovrebbe essere più correttamente annoverata fra le azioni a carattere accertativo: trattandosi di azione volta a dichiarare, nei confronti delle parti, la continuità del rapporto di lavoro, attesa l'insussistenza, nella fattispecie concreta, dei requisiti costitutivi richiesti ai fini dell'esercizio datoriale del “potere” di recedere dal contratto. Orbitano in tal senso innanzitutto ragioni di carattere letterale, rilevando in tal senso il disposto del nuovo art. 18, L. n. 300/1970 e degli artt. 2, 3, D.Lgs n. 23/2015 in cui, al di fuori delle distinte o residuali ipotesi in cui venga comunque accertata l'insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento (e limitatamente alla disciplina ante jobs act di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base deli licenziamento per giustificato motivo oggettivo), la normativa attribuisce al giudice il potere-dovere di “dichiarare” la nullità e l'inefficacia del licenziamento ovvero di dichiarare estinto il rapporto di lavoro. Inoltre, in aggiunta al criterio interpretativo letterale di cui all'art. 12 disp. att. c.c., va considerato sotto il profilo sistematico, il disposto di cui all'art. 5, L. n. 604/1966 che, nell'attribuire al datore di lavoro l'onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo sottesi al recesso, attribuisce alla circostanza de qua valenza impeditiva rispetto all'accoglimento della domanda del lavoratore di accertamento della persistente vigenza del rapporto di lavoro: situazione incompatibile con la contrapposta tesi, secondo il principio processuale di necessaria “circolarità” tra oneri di allegazione, di contestazione e di prova, (cfr. al riguardo: Cass. Sez. Un., 17 giugno 2004, n. 11353 cit., cui adde: Cass. Sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8202; Cass. Sez. Un., 23 gennaio 2002, n. 761). E' questa peraltro una conclusione che, in ambito giurisprudenziale, trova riscontro nella risalente impostazione secondo cui la causa petendi dell'impugnativa di licenziamento, lungi dall'identificarsi con il vizio specifico dedotto dal lavoratore, coincide, più radicalmente, con “l'inesistenza in capo al datore di lavoro del potere di determinare l'estinzione del rapporto”. (Cass., sez. lav., 27 giugno 1994, n. 6172; conf., ex aliis, id., 5 giugno 1996, n. 5221; Cass. Civ. del 03 ottobre 2000, n. 13149; Cass. civile, sez. lav., 16 agosto 2004 n. 15950). Inoltre, valenza ancor più dirimente assume il principio enunciato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 141 del 10 gennaio 2006, secondo cui i fatti costitutivi dell'impugnativa di licenziamento corrispondono ai fatti costitutivi del relativo diritto del lavoratore a riprendere l'attività e sono esclusivamente: a) l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato; b) l'illegittimità dell'atto espulsivo, sicché le dimensioni dell'impresa rappresentano, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. (Cass. Civ. del 6 dicembre 2017, n. 29165; Cass., sez. lav., del 21 novembre 2017, n. 27655; Cass., sez. lav., 16 agosto 2016 n. 17107 et al.). In altri termini, se la causa petendi dell'azione è rappresentata dall'avverarsi, all'interno di un rapporto di lavoro, dell'“evento di un licenziamento con determinate modalità”, (secondo la formula espressa da Cass. civ., sez. lav. del 27 giugno 1994, n. 6172), l'esistenza dei singoli vizi non può che costituire una mera specificazione, insuscettibile di essere ricondotta nell'alveo dei fatti costitutivi della domanda, a patto di non voler assimilare l'atto di licenziamento ad un atto amministrativo dotato, come ricordato dalla citata dottrina, di eteronoma imperatività e dunque di efficacia indipendente dalla carenza del relativo fatto costitutivo. Se si accede dunque alla tesi della natura non impugnatoria ma dichiarativa della domanda di nullità del licenziamento, vengono dunque a dissiparsi i dubbi della giurisprudenza in ordine alla pretesa mutazione, per effetto del rilievo d'ufficio di un vizio di nullità, della causa petendi della domanda proposta: dovendosi di contro affermare, in linea con la sentenza a sezioni unite del 2014, che la sentenza dichiarativa di nullità per un motivo diverso da quello allegato dalla parte corrisponde pur sempre alla domanda originariamente proposta sia per causa petendi sia per il petitum giacché la domanda di nullità resterebbe unica rispetto ai diversi profili di invalidità che affliggono il negozio.
Venendo poi al secondo punto focale della questione, va ribadito che, anche alla luce della prospettata impostazione, non deve trascurarsi l'indubbia distinzione esistente fra ipotesi di nullità e ipotesi di annullamento del licenziamento, tradizionalmente relegata dalla giurisprudenza, a dispetto della diversità ontologica fra le due fattispecie, sullo sfondo della discussione. Ed invero, se la regula iuris dettata dal supremo consesso riguarda la rilevabilità d'ufficio delle nullità contrattuali, risulta chiaro che la stessa deve interessare, in ambito lavoristico, le sole ipotesi di licenziamento che, per definizione normativa ovvero per classificazione ermeneutica, rientrino,in quanto inficiate da un radicale vizio genetico, nell'alveo della più grave delle invalidità, non potendosi estendere alle ipotesi di mera annullabilità estranee al disposto di cui all'art. 1421 c.c.. Sul punto, si osserva che l'evoluzione normativa degli ultimi anni sembra offrire degli elementi testuali più netti che in passato, accomunando, ai fini di una specifica declaratoria di nullità (“pronuncia con cui il giudice dichiara la nullità”) e dell'applicazione di una tutela reale forte, quattro casi tradizionalmente sussunti nella categoria dei licenziamenti nulli: a) il licenziamento discriminatorio; b) licenziamento per matrimonio e per maternità/paternità; c) licenziamento per motivo illecito determinante; d) il licenziamento nullo, negli altri casi previsti dalla legge. Si tratta di ipotesi che il legislatore del 2012 -che da un canto ha ridotto fortemente la portata della tutela reintegratoria- ha scelto di punire più severamente, avuto riguardo alla gravità del vizio rappresentato da comportamenti datoriali posti in essere in carenza assoluta di potere nonché contrastanti con valori fondamentali dell'ordinamento. Inoltre, lo schema indicato risulta attuale anche alla luce delle disposizioni di cui all'art. 2, D.Lgs n. 23/2015 che, pur avendo indicato le ipotesi di nullità diverse dal licenziamento discriminatorio, mediante l'utilizzo di una formula omnicomprensiva (“altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”), deve intendersi sempre riferito ai suddetti casi, per i quali il giudice è chiamato ad una “pronuncia” che “dichiara la nullità”.
Tanto premesso e operata la dovuta restrizione di campo, può dunque affermarsi che, seguendo l'interpretazione proposta, nelle ipotesi in cui il lavoratore agisca per il riconoscimento del proprio diritto a riprendere l'attività lavorativa, impugnando un licenziamento che assuma illegittimo, il giudice ha sempre il potere-dovere di rilevare d'ufficio eventuali profili di nullità dell'atto che emergano per tabulas, nel rispetto ovviamente del principio dispositivo e della domanda di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c. In particolare, il giudice, proprio al fine di non incorrere in ultrapetizione o comunque in violazione del principio del contraddittorio di cui all'art. 101, co. 2 c.p.c., una volta rilevata d'ufficio la causa di nullità del licenziamento evincibile dal materiale probatorio, dovrà provocare il contraddittorio sulla questione, assegnando alle parti un termine per dedurre sul punto, anche al fine di consentire al ricorrente, quale soggetto tutelato dalla nullità di protezione, di formulare la conseguente domanda (Cass, civ., Sez. Un. n. 14828/2012), all'esito della verifica dell'utilità pratica della statuizione.
Sul piano sistematico, la soluzione proposta sembra innanzitutto assicurare, diversamente dalla contraria impostazione, una interpretazione della normativa interna conforme ai principi comunitari espressi dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, (Pannon, 4 giugno 2009, n. 0243/2008, Asturcom 6 settembre 2009 in procedimento C- 40/08) che, proprio in un'ottica di tutela del contraente debole -definizione cui appartiene, seppur con definizione ante litteram il lavoratore- ha riconosciuto un generale dovere, da parte del giudice nazionale, di esaminare d'ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale e, in quanto nulla, di non applicarla. Ed invero, come ricordato nella parte motiva della sentenza del 4 settembre 2012, n.14828, secondo la Corte di Lussemburgo, il giudice è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, a valutare d'ufficio il carattere abusivo della clausola contenuta in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, qualora, secondo le norme procedurali nazionali, egli possa procedere a tale valutazione nell'ambito di ricorsi analoghi di natura interna, per l'effetto incombe a detto giudice di trarre tutte le conseguenze che ne derivano secondo il diritto nazionale, affinché il consumatore di cui trattasi non sia vincolato da detta clausola. Sotto distinto ma complementare profilo, mediante la prospettata tesi risulta poi garantita una lettura della normativa volta ad armonizzare la disciplina dei licenziamenti con l'ormai ineludibile funzione attribuita dall'ordinamento all'istituto della nullità contrattuale, intesa sul piano assiologico quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale (Cass. civ. del 4 dicembre 2017, n. 28949; Cass. Sez. Un., sentenza del 4 settembre 2012, n. 14828) e alla sua rilevabilità d'ufficio, definita, con termini perentori, come un'irrinunciabile garanzia della tutela dell'effettività dei valori fondamentali dell'organizzazione sociale (da ultimo Cass. civ., sez. I, 4 maggio 2016, n. 8795 che richiama Cass. Sez. Un. del 2014, n. 26242 cit.).
E' proprio rispetto a tali principi, espressione di valori fondamentali ormai acquisiti dall'ordinamento armonizzato e autorevolmente confermati dalla Corte Costituzionale (cfr. ordinanze n. 248/2013 e n.77/2014) che, a prescindere dalle soluzioni adottate, è necessario si misuri la giurisprudenza, anche al fine di evitare che l'indubbia specialità della disciplina ridondi in anomalia giuridica, favorendo forme di abuso del diritto inconciliabili con il rango degli interessi costituzionali in gioco (artt. 3, 4 e 41 Cost.) e con il generale e pervasivo “valore della giustizia della decisione” (Cass. civ., Sez. Un., 07 maggio 2013, n.10531). Approfondimenti
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