La rinuncia al TFM degli amministratori alla luce della norma di comportamento AIDC

Simone Furian
26 Marzo 2018

La remissione del trattamento di fine mandato, effettuata a favore della società dall'amministratore, può rappresentare un'indiretta percezione dell'indennità solo nel caso in cui questa si traduca in un vantaggio economico per l'amministratore, a seguito di una controprestazione. In assenza di tale vantaggio, la remissione non comporta in capo all'amministratore il realizzo di alcun reddito imponibile, sia nel caso in cui l'amministratore sia socio, sia nel caso in cui non lo sia.
Premessa

Il caso esaminato nella norma di comportamento dell'Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti (di seguito anche AIDC), n. 201 del febbraio 2018, riguarda il corretto trattamento fiscale in capo all'amministratore nel caso in cui questo proceda alla rinuncia del trattamento di fine mandato (di seguito anche TFM), maturato nei confronti della società.

In particolare, secondo l'AIDC, nel caso in cui l'amministratore non incassi l'indennità, ma provveda alla sua rinuncia, senza che si realizzi un incremento patrimoniale o reddituale oggettivamente riconoscibile e fiscalmente riconosciuto, nessun presupposto impositivo matura in capo alla persona fisica.

Infatti, l'assoggettamento a tassazione di tale reddito si realizza, in base al principio "di cassa", nel momento della sua percezione ai sensi dell'art. 50, comma 1, lett. c-bis) TUIR, dove viene utilizzato il termine “percepiti”.

Il presupposto impositivo si realizza, invece, quando, pur in assenza dell'incasso monetario, la rinuncia al credito vantato dall'amministratore sia indirettamente collegata a una controprestazione di qualsiasi natura (in forma di beni o servizi differenti dal denaro), ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo l'amministratore.

Tali conclusioni dovrebbero valere, sia nel caso in cui l'amministratore sia socio della società, sia nel caso in cui non lo sia.

Ciò che dovrebbe cambiare è la tassazione in capo alla società, in quanto l'art. 88, che disciplina la tassazione delle sopravvenienze, distingue il caso in cui la rinuncia sia effettuata da un socio (generalmente non sottoposta a tassazione o da un soggetto terzo (sempre soggetta ad imposizione).

In realtà, secondo l'AIDC, in entrambi i casi, la società dovrebbe tassare il relativo componente positivo di reddito.

Nel caso di amministratore non socio, la società, a fronte del costo precedentemente dedotto, realizzerebbe una sopravvenienza attiva imponibile, ai sensi dell'art. 88, comma 1 del Tuir.

Nell'altro caso, invece, troverebbe applicazione l'art. 88, comma 4-bis, del Tuir, con la determinazione di una sopravvenienza attiva imponibile da assoggettare a imposizione mediante una corrispondente variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi. Tale conclusione si baserebbe sul fatto che il credito così rinunciato ha un valore fiscale nullo in quanto la fattispecie reddituale sottostante non ha mai concorso a formare la base imponibile del reddito dell'amministratore, non essendo attribuito alcun vantaggio economico.

Tali conclusioni sono in contrasto con quanto recentemente sostenuto dall'Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 124/E, del 13 ottobre 2017.

Prima, però di procedere, è utile soffermarsi brevemente sull'inquadramento giuridico dell'indennità in esame.

La natura del TFM e gli effetti della rinuncia

Si ricorda che il TFM è un'indennità, non disciplinata in modo specifico dalla normativa civilistica, che la società può corrispondere agli amministratori alla scadenza del loro mandato.

Il suo ammontare è determinato, secondo criteri di ragionevolezza e congruità rispetto alla realtà economica dell'impresa, attraverso una specifica previsione statutaria ovvero mediante delibera assembleare dei soci.

Per quanto attiene agli amministratori, il TFM può essere riconducibile a redditi assimilati al lavoro dipendente (ipotesi, questa, considerata dalla norma di comportamento) oppure a redditi di natura professionale: in entrambi i casi, la tassazione segue il criterio di cassa, con imposizione al momento della percezione.

Per quanto concerne la deducibilità in capo alla Società ai fini IRES, degli accantonamenti per l'erogazione del TFM, trova applicazione l'art. 105, comma 4, TUIR.

La norma appena citata consente la deduzione degli accantonamenti relativi alle indennità di fine rapporto di cui all'art. 17, comma 1, lett. c), TUIR: trattasi, in particolare, delle indennità per la cessazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'art. 50, comma 1, lett. c-bis, TUIR, vale a dire le indennità dovute “in relazione agli uffici di amministratore”.

Appare evidente, quindi, come gli accantonamenti a fondi del passivo per le indennità di trattamento di fine mandato, per effetto del rinvio contenuto nel citato art. 105, comma 4, del TUIR, rientrino nel tassativo novero degli accantonamenti per i quali è riconosciuta rilevanza fiscale, essendo sostanzialmente equiparati a quelli di quiescenza e previdenza.

Gli accantonamenti al fondo per il TFM sono quindi fiscalmente deducibili in base al principio di competenza, prescindendo dal momento in cui l'indennità sia effettivamente pagata.

L'Agenzia sostiene che, per effetto del rinvio all'art. 17, comma 1, lettera c), del TUIR, la deducibilità dell'accantonamento per TFM sarebbe legata alla condizione che il diritto all'indennità risulti da un “atto di data certa anteriore all'inizio del rapporto”. In caso contrario, la deduzione del relativo costo avverrà nell'anno di effettiva erogazione dell'indennità medesima (cfr. Risoluzione n. 211/E del 22 maggio 2008).

Tale conclusione, però, non pare condivisibile, in quanto la data certa sembra essere necessaria solamente per usufruire della tassazione (separata) prevista dall'art. 17 da applicare alla persona fisica, mentre il rinvio effettuato dall'art. 105 all'art. 17 servirebbe solo per identificare la natura dell'accantonamento.

Relativamente, invece, allo specifico trattamento fiscale della rinuncia ai crediti, si ricorda che recentemente vi sono state delle modifiche alla normativa applicabile ai soci.

Infatti, il comma 4-bis dell'art. 88 TUIR, inserito dall'art. 13 D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “decreto internazionalizzazione”), e applicabile a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello di entrata in vigore del decreto internazionalizzazione (7 ottobre 2015), così stabilisce: “La rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero. (…)”.

In particolare, viene stabilito che, tanto per le operazioni di rinuncia diretta a crediti originariamente sorti in capo al socio, quanto per quelle precedute dall'acquisto del credito (o della partecipazione) da parte del socio (o del creditore), il nuovo regime qualifica fiscalmente come “apporto” la sola parte di rinuncia che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito.

A tal fine, il socio è tenuto a fornire alla partecipata una comunicazione relativa al valore fiscale del credito; in assenza di tale comunicazione, il medesimo valore fiscale è assunto pari a zero, con la conseguenza che il debitore assoggetta a tassazione tutta la sopravvenienza attiva.

In altri termini, nei limiti del valore fiscale del credito, il socio aumenta il costo della partecipazione (come previsto dagli artt. 94, comma 6 e 101, comma 7, TUIR, modificati dall'art. 13 del “decreto internazionalizzazione”) e il soggetto partecipato rileva fiscalmente un apporto (non tassabile).

L'eccedenza, invece, costituisce per il debitore partecipato una sopravvenienza imponibile, a prescindere dal relativo trattamento contabile, con la conseguenza che si può generare un fenomeno di tassazione da gestire con una variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi.

Al contrario, nel caso in cui la rinuncia avvenga da parte di soggetto diverso dal socio e, quindi, tale operazione trovi causa, non nella volontà di patrimonializzare la società, ma nell'animus donandi o nella remissione del debito, l'intera sopravvenienza attiva dovrà essere tassata in capo all'ente giuridico in base all'art. 88, comma 1, del TUIR.

Le posizioni di giurisprudenza e Prassi e la norma di comportamento Aidc

L'AIDC, con riferimento al caso dell'amministratore socio, si pone in netto contrasto con l'Agenzia delle Entrate, la quale, facendo proprio anche nella Risoluzione del 2017, il principio dell'incasso giuridico, sostiene che, nel caso in cui sia l'amministratore socio ad effettuare la rinuncia, si verifica l'imponibilità in capo alla persona fisica, a fronte della mancata tassazione della sopravvenienza attiva in capo alla società.

Si ricorda che tale conclusione è stata fatta valere dall'Amministrazione finanziaria nella Circolare del 27 maggio 1994 n. 73, secondo la quale: “La rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l'avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l'obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta”.

Il principio dell'incasso giuridico è stato sostenuto anche da alcune pronunce della giurisprudenza.

In particolare, con l'ordinanza 1335/16 del 9 dicembre 2015 (depositata in cancelleria il 26 gennaio 2016), la Corte di Cassazione ha sancito che il socio-amministratore, il quale ha rinunciato al proprio credito per indennità di fine mandato maturate (c.d. TFM) nei confronti della società, deve essere tassato per il relativo importo. In caso contrario, la società potrebbe beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti, dal momento che non subisce alcuna tassazione al momento della rinuncia, mentre il socio incrementa il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione, generando reddito esente da imposizione.

La sentenza della Corte di Cassazione del 18 dicembre 2014, n. 26842, ha stabilito la tassabilità in capo al socio rinunciatario del credito, anche se non materialmente incassato, ma conseguito ed utilizzato, tramite la rinuncia, in favore della società. In questo modo, secondo la Suprema Corte, si eviterebbe un "salto di imposta" che si verrebbe a determinare a fronte dell'intassabilità della rinuncia del credito, sia in capo alla società ex art. 88, comma 4 (ora 4-bis) del TUIR, sia in capo al socio, trattandosi di reddito tassabile in base al principio di cassa.

In altri termini, con la suddetta interpretazione, si cercherebbe di evitare che la società possa dedurre costi, rilevati per competenza in diversi esercizi (come appunto il TFM), per poi beneficiare, all'atto della rinuncia dei soci a tali redditi, di un componente positivo di reddito (sopravvenienza attiva) escluso da tassazione ai sensi dell'art. 88, comma 4-bis, del TUIR.

Al contrario, invece, nel caso in cui l'amministratore non sia socio, la relativa sopravvenienza deve essere tassata in capo alla società, mentre la persona fisica, in assenza di una contropartita e non potendo incrementare il valore della partecipazione, non viene assoggettata ad alcuna imposizione fiscale, non essendo applicabile il principio dell'incasso giuridico.

Ad avviso dell'AIDC, la mancata percezione del compenso (situazione che si verifica in caso di rinuncia) non manifesta capacità contributiva e, di conseguenza, non comporta il manifestarsi di alcun presupposto impositivo, secondo quanto statuito dall'art. 1 del TUIR, in forza del quale “presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'articolo 6”.

La tesi del c.d. incasso giuridico, fatta propria dalla C.M. 73/94 e – più di recente – dalla giurisprudenza di legittimità, sarebbe, dunque, in contrasto con il dettame costituzionale.

L'AIDC spiega, inoltre, che la motivazione della sentenza della Cassazione n. 1335/2016 era quella di evitare ipotetici salti d'imposta e il previgente art. 88 comma 4 del TUIR (che all'epoca dei fatti regolamentava la fattispecie) prevedeva in ogni caso l'irrilevanza reddituale in capo alla società delle rinunce ai crediti da parte dei soci.

Osservazioni

In particolare, ad avviso della norma di comportamento, la mera remissione del debito non comporta alcun beneficio per l'amministratore socio e non può, pertanto, essere assunta quale forma di utilizzo o godimento del diritto di credito. La mancata percezione rende l'operazione fiscalmente ininfluente per l'amministratore, ancorché socio, in quanto non gli attribuisce alcun vantaggio economico. Il credito così rinunciato ha un valore fiscale nullo, posto che la fattispecie reddituale sottostante non ha mai concorso a formare la base imponibile del reddito dell'amministratore.

La tesi dell'AIDC, nel caso di rinuncia da parte di un amministratore anche socio, si basa sulla nuova normativa contenuta nel comma 4-bis dell'art. 88 del TUIR, che prevede la tassazione in capo alla società delle sopravvenienze di valore eccedente il valore fiscale del credito rimesso.

Con riferimento a tale norma, l'Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione del 2017, ha chiarito che la società non dovrà tassare alcuna sopravvenienza attiva (art. 88, comma 4-bis del Tuir), non essendo ravvisabile alcuna differenza tra il valore fiscale dei crediti rinunciati e il loro valore nominale. Allo stesso modo, non è richiesta la comunicazione alla società partecipata del valore fiscale dei crediti oggetto di rinuncia, non potendo verificarsi, in assenza di un'attività di impresa, quelle distorsioni che il legislatore ha inteso scongiurare attraverso l'introduzione del citato comma 4-bis (su commento a nuova normativa si rinvia a Assonime, Circolare n. 17/2017). In questo caso, però, la tassazione si verificherebbe in capo all'amministratore socio a causa dell'incasso giuridico.

Oltre a queste due tesi che, rispettivamente, ritengono che il presupposto impositivo si verifichi in capo alla società (AIDC), ovvero in capo all'amministratore socio (Agenzia delle Entrate), ve ne sarebbe un terza che prevede la mancata tassazione in capo ad entrambi i soggetti.

Infatti, in capo all'ente giuridico, con tale remissione, si vuole favorire la capitalizzazione delle società da parte dei soci, prevedendo la mancata tassazione delle rinunce dei crediti, salvo quanto previsto in merito al loro valor fiscale.

Del resto, come previsto dai principi contabili (OIC 28, paragrafo 49), si tratta di operazioni che interessano il patrimonio dell'ente giuridico e vanno iscritte tra le riserve di capitale e non di utile (linee guida sul patrimonio netto emesse da CNDCEC e Confindustria del mese di dicembre 2017).

Relativamente, invece, alla posizione del socio, è stato stabilito che l'importo del credito rinunciato non è ammesso in deduzione ed il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione (art. 94, comma 6 e art. 101, comma 7, del TUIR). Secondo la nuova normativa, la rilevanza fiscale dell'operazione è limitata al valore fiscalmente riconosciuto del credito.

Pertanto, secondo quanto stabilito dalla legge, la rinuncia del socio non dovrebbe avere mai rilevanza reddituale.

Infatti, nell'ipotesi di redditi tassati per cassa, come nel caso del TFM, il presupposto per il sorgere dell'obbligazione tributaria è l'effettiva disponibilità del denaro o del corrispettivo in natura, a nulla rilevando i crediti maturati e non riscossi.

Del resto, nel momento in cui il socio rinuncia al credito, la sua posizione di creditore si trasferisce a quella di socio con l'incremento del valore della partecipazione, simmetricamente a quanto succede nella società, dove il debito viene trasformato in patrimonio.

Il fatto che la società abbia potuto dedursi per competenza il relativo onere, come nel caso del TFM, nulla cambia alla tesi che si cerca di sostenere: è il legislatore che ha previsto la deduzione per competenza in capo all'ente, mentre la tassazione del reddito per cassa in capo al socio.

Pertanto, tale assimmetria temporale è sancita dalla legge : la società, che imputa a patrimonio netto l'ammontare del credito rinunciato dall'amministratore-socio, secondo il vigente art. 88 comma 4-bis del TUIR, deve rilevare una sopravvenienza attiva imponibile, mediante una corrispondente variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi.

Del resto, se si seguisse la tesi dell'incasso giuridico, verrebbero tassate in capo al socio anche quelle componenti di reddito mai dedotte dalla società, come ad esempio, i compensi dei soci/amministratori, rilevanti solo al momento dell'effettivo pagamento, o il mancato pagamento di dividendi già deliberati ed iscritti a debito dalla società.

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