Cambio di appalto: le misure per la conservazione del posto di lavoro

Paolo Laguzzi
29 Marzo 2018

La successione di un'impresa appaltatrice ad un'altra costituisce un momento critico che più di altri rende opportuno l'impiego di strumenti di garanzia a favore dei lavoratori.La tutela a cui l'ordinamento mira si attua principalmente attraverso la predisposizione di meccanismi volti alla conservazione del posto di lavoro. Nel presente approfondimento l'Autore illustra siffatti meccanismi sia attraverso l'esame della normativa, nazionale e comunitaria, che della giurisprudenza.
Premessa: la tutela del lavoro negli appalti

L'appalto, disciplinato dagli artt.1655 ss. c.c., è il contratto con il quale un soggetto imprenditore (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, l'obbligazione di compiere in favore di altro soggetto (committente o appaltante) un'opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro.

Nel diritto del lavoro, l'applicazione dell'istituto pone quale primo problema la verifica della “genuinità” del rapporto, vale a dire l'accertamento della sussistenza in concreto dei requisiti essenziali sopra evidenziati, prestandosi spesso l'etichetta “appalto” a coprire fenomeni di intermediazione, interposizione e somministrazione irregolare di manodopera.

Altra questione giuslavoristica si presenta laddove per l'esecuzione dell'opera o servizio – corrispondenti in genere ad attività strumentali rispetto al core business dell'azienda appaltante - i lavoratori dell'impresa appaltatrice svolgano la loro prestazione sì alle dipendenze e sotto la direzione di quest'ultima, ma con dislocazione presso la sede o lo stabilimento del committente (c.d. appalto endoaziendale o introaziendale).

Per siffatta evenienza, l'ordinamento appresta in favore dei lavoratori tutele aggiuntive rispetto a quelle ordinarie connaturate al rapporto di lavoro che li lega all'appaltatore.

Ad esempio, il committente è responsabile in solido con l'appaltatore, e con il subappaltatore, per i crediti dei dipendenti di questi ultimi relativi all'opera o al servizio appaltati (art. 1676 c.c. ed art. 29, co. 2, D. Lgs. n. 276/2003).

Soprattutto il cambio d'appalto, ovverosia la successione di un'impresa appaltatrice ad un'altra, così come il “fine appalto”, inteso quale reinternalizzazione dei servizi in precedenza appaltati, costituiscono momenti critici che più di altri rendono opportuno l'impiego di strumenti di garanzia.

In base all'art. 7, co. 4 bis, D.L. n. 248/2007 (c.d. decreto milleproroghe), il licenziamento per cessazione d'appalto non comporta l'applicazione della procedura relativa ai licenziamenti collettivi di cui alla L. n. 223/1991, purché vi sia riassunzione dei lavoratori nell'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative (cfr. Cass. n. 22121/2016).

Per tale licenziamento neppure è obbligatorio il tentativo preventivo di conciliazione previsto dall'art. 7, L. n. 604/1966, sempre ove intervenga l'assunzione del personale da parte dell'imprenditore subentrante (art. 7, co. 6).12072016

Secondo la previsione dell'art. 32, co. 4, lett. d), L. n. 183/2010 (c.d. collegato lavoro), l'azione per l'accertamento del diritto di assunzione presso l'impresa subentrante nell'appalto soggiace al doppio termine di decadenza fissato dall'art. 6, L. n. 604/1966, trattandosi, seguendo la lettera di quest'ultima disposizione, di “caso in cui […] si chieda la costituzione […] di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto (cfr. Trib. Busto Arsizio 12 luglio 2016. Contra, però, Cass. 25 maggio 2017, n. 13179).

La tutela a cui l'ordinamento mira si attua principalmente attraverso la predisposizione di meccanismi volti alla conservazione del posto di lavoro.

La solidarietà passiva tra i datori di lavoro che si avvicendano nell'appalto ed il mantenimento in capo ai lavoratori, nel passaggio da un datore all'altro, di un invariato trattamento normativo e retributivo sono invece legati alla possibilità che l'operazione configuri un trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c.

Probabilmente per evitare eccessi vincolistici a danno delle imprese, il legislatore non ha sin qui apprestato al cambio d'appalto garanzie generalizzate di continuità occupazionale né, più a monte, ha previsto una disciplina generale ed organica sulla natura, sui contenuti e sugli effetti del fenomeno che, per contro, assume sempre maggiore rilevanza statistica ed economica.

Le clausole sociali

Al termine del periodo d'appalto, diviene concreto per i dipendenti dell'impresa uscente il rischio di perdere l'impiego.

Primario obbiettivo della tutela giuslavoristica è pertanto il mantenimento dei posti di lavoro presso l'azienda subentrante.

Come detto, la legge, salve particolari eccezioni (ad es., per i lavoratori dei call center, l'art. 1, co. 10, L. n. 11/2016 stabilisce che in caso di successione di imprese nel contratto di appalto con il medesimo committente, il rapporto di lavoro continua con l'appaltatore subentrante) non offre al riguardo tutele dirette se non la possibilità di invocare, nel caso ricorrano gli estremi del trasferimento d'azienda previsto dall'art. 2112 c.c., la continuazione senza interruzione del rapporto di lavoro con l'impresa subentrante considerata cessionaria dell'azienda (tema su cui amplius infra).

La questione della tutela dei lavoratori coinvolti nel cambio di gestione è comunque diffusamente affrontata dalla disciplina collettiva.

Infatti, vari contratti di categoria - nonché spesso i bandi di gara degli appalti pubblici ed i capitolati d'appalto anche nei rapporti tra imprenditori privati - impongono all'azienda subentrante di assumere in tutto o in parte i lavoratori già impiegati dall'impresa uscente per l'esecuzione del contratto.

Le relative norme vengono denominate “clausole sociali”, dette anche “clausole di protezione”, “di riassunzione” o “di assorbimento”.

La categoria si inserisce nel quadro generale delle disposizioni normative che, per orientare i rapporti tra operatori economici a fini di utilità sociale, prescrivono ai datori di lavoro l'osservanza di determinati standard di tutela del personale quale condizione per poter svolgere attività economiche in appalto o in concessione o per conseguire benefici di legge ed agevolazioni finanziarie.

Vengono in proposito definite clausole “di prima generazione” (o clausole “di equo trattamento”) quelle che obbligano l'imprenditore ad applicare ai propri lavoratori i trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione collettiva (ad es., per gli appaltatori di opere pubbliche, l'art. 36 St. Lav.; altro esempio, l'art. 42, co. 2 bis CCNL Logistica, trasp. merci e spediz. 2013 il quale dispone: “L'appalto per la gestione delle operazioni di logistica, facchinaggio/movimentazione merci sarà affidato solo a imprese che applicano il presente CCNL”).

Le clausole di seguito prese in considerazione sono invece qualificate “di seconda generazione” e, come detto, hanno la diversa finalità della conservazione dei livelli occupazionali.

Di norma, l'operazione attraverso cui si attuano le clausole sociali non comporta alcuna cessione contrattuale bensì il solo obbligo datoriale di contrarre che conduce all'instaurazione di nuovi rapporti di lavoro.

Tali clausole possono prevedere obblighi incondizionati – cioè di assunzione di tutto il personale già impiegato nell'appalto - oppure obblighi condizionati, in quest'ultimo caso individuandosi i soggetti nei cui confronti il vincolo è operante con riferimento, ad esempio, all'anzianità di servizio nell'appalto o alle mansioni espletate.

In capo ai lavoratori come sopra individuati sorge un vero e proprio diritto soggettivo all'assunzione (cfr. Cass. n. 15684/2016, che ha affermato l'obbligo di assunzione sulla base dell'art. 37 CCNL Coop. Sociali “ove siano rimaste invariate le prestazioni richieste e risultanti nel capitolato d'appalto”; ed ancora, Trib. Milano 3 maggio 2017 n. 1105, relativa ad una clausola sociale contenuta nel capitolato d'appalto ritenuta dal giudice quale stipulazione a favore di terzo ex art. 1411 c.c.).

Talora, in giurisprudenza si è ritenuto che, avendo il contratto collettivo efficacia soggettivamente limitata, le clausole del CCNL le quali garantiscono ai dipendenti la continuità del rapporto di lavoro sono opponibili all'impresa subentrante soltanto nel caso in cui anch'essa applichi tale contratto collettivo o comunque altro contratto che contempli analogo obbligo (cfr. Trib. Monza 8 aprile 2015; Trib. Milano 10 febbraio 2015; App. Potenza 20 novembre 2008; in tal senso, anche Interpello Min. Lav. n. 22/2012 del 1° agosto 2012).

Per contro, l'obbligo di assumere è escluso nel caso in cui la clausola sociale faccia generico riferimento ad una percentuale o ad un numero assoluto di addetti non specificamente individuati. In tale eventualità, la successiva violazione del limite quantitativo da parte dell'impresa subentrante non genera in favore del lavoratore un diritto soggettivo all'instaurazione del rapporto di lavoro bensì il solo diritto al risarcimento economico del danno per perdita di chance (tutela debole).

Altre clausole, ancor più debolmente, prevedono in favore dei lavoratori già impiegati nell'appalto soltanto la preferenza nelle assunzioni che saranno operate da parte del nuovo appaltatore (ad es., l'art 42 bis CCNL Logistica, trasp. merci e spediz. 2013; l'art. 18 CCNL Istituti investigativi 2014).

Altre clausole ancora, come unica forma di tutela indiretta, impongono alle imprese, uscente e subentrante, la sola partecipazione ad una procedura di consultazione sindacale (ad es., art. 97 CCNL Turismo 2010).

In tal caso, il parametro interpretativo della condotta datoriale diviene quello della buona fede contrattuale ed eventuali obblighi di assunzione a favore dei lavoratori possono scaturire solo da uno specifico accordo sindacale stipulato “a valle” il quale, però, deve rendere determinabili tutti gli elementi del contratto individuale di lavoro così da far sorgere l'obbligo a contrarre di cui all'art. 2932 c.c. (cfr. Cass. n. 27841/2009; Cass. n. 18277/2010).

Le clausole sociali, di entrambe le descritte tipologie, configurano dei limiti alle libertà di mercato e condizionano le dinamiche concorrenziali tra le imprese. Per questa ragione il loro utilizzo solleva problemi di compatibilità con i principi di diritto dell'UE che guidano il processo di integrazione del mercato unico.

Ciò spiega perché tali regole siano state oggetto di critiche da parte dell'Autorità Antitrust, in quanto ritenute potenzialmente distorsive delle dinamiche di mercato.

L'Autorità garante della concorrenza e del mercato, col suo Parere 11 dicembre 2015, prot. n. 72361, ha in particolare suggerito che l'utilizzo in via prioritaria degli addetti già impiegati nel medesimo appalto possa quantomeno consentire la scelta dei profili professionali da parte delle imprese potenziali aggiudicatarie in modo che il riassorbimento del personale non costituisca un obbligo specifico ed avvenga subordinatamente alla compatibilità con l'organizzazione di impresa dell'appaltatore subentrante.

(segue): Appalti pubblici

Negli appalti pubblici, in relazione al tema delle clausole sociali assume maggiore rilevanza la normativa comunitaria.

In particolare, la Dir. 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, nel dettare nuove regole sulle procedure per gli appalti indetti da amministrazioni pubbliche (sostitutive di quelle già previste dalla Dir. 2004/18/CE del 31 marzo 2004, abrogata) al suo art. 18 dispone che gli Stati membri adottino “misure adeguate per garantire che gli operatori economici, nell'esecuzione di appalti pubblici, rispettino”, tra gli altri, “gli obblighi applicabili in materia di diritto […] del lavoro stabiliti dal diritto dell'Unione, dal diritto nazionale, dai contratti collettivi”.

La disciplina nazionale italiana prevede, da un lato, clausole sociali di prima generazione: in particolare, agli artt. 36 St. Lav., 30 co. 4 e 105 co. 9, D. Lgs. n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici) i quali impongono l'applicazione, per i dipendenti dell'appaltatore e del subappaltatore, condizioni non inferiori ai CCNL di categoria o di zona.

D'altro canto, per quanto riguarda le clausole di seconda generazione, la nostra normativa nazionale sugli appalti pubblici si incentra ora sull'art. 50 dello stesso D.Lgs. n. 50/2016.

Tale disposizione, nel testo modificato dall'art. 33, D. Lgs. n. 56/2017, a garanzia della “stabilità occupazionale” in fase di cambio appalto obbliga le stazioni appaltanti ad inserire nei bandi di gara specifiche clausole socialinel rispetto dei principi dell'Unione Europea” ed altresì prevede “l'applicazione da parte dell'aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore”.

Con tale disposizione innovativa, le clausole sociali per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi sono quindi divenute obbligatorie.

La previgente mera facoltà di inserimento nei bandi di gara pubblici delle clausole sociali (avente fonte nell'art. 69 , D. Lgs. n.163/2006, abrogato; ed altresì nell'originario testo dell'art. 50 cit.) costituiva una disciplina flessibile, di bilanciamento tra i contrapposti interessi della conservazione del posto di lavoro e della libertà di iniziativa economica; pur esprimendosi da parte di molti commentatori il timore che la normativa stessa risultasse sostanzialmente priva di valore precettivo.

La giurisprudenza amministrativa, appunto con riferimento al testo dell'art. 50 antecedente il correttivo 2017, aveva precisato trattarsi di disciplina che “sussume nel testo di legge i risultati cui era giunta la giurisprudenza [cfr. Corte Cost. n. 68/2011; Cons. Stato, sez. VI, 27 novembre 2014, n. 5890; Consiglio di Stato, sez. III, 05 maggio 2017, n. 2078], giacché la « ;stabilità occupazionale ;», che è sicuramente un obiettivo normativo importante e un valore ordinamentale, deve essere « ;promossa ;» e non rigidamente imposta e comunque deve essere armonizzata con i principi europei della libera concorrenza e della libertà d'impresa, così da escludere un rigido obbligo di garanzia necessaria della stabilità, pur in presenza di variato ambito oggettivo del servizio a gara” (sic TAR Toscana, Sez. III, 13 febbraio 2017, n. 231).

La nuova normativa sembra doversi interpretare nel senso della necessità di inserimento della clausola di stabilità occupazionale nella lex specialis di gara soltanto in assenza di analoga previsione da parte del contratto collettivo nazionale.

Con la sentenza T.A.R. Genova, (Liguria), sez. II, 21 luglio 2017, n. 640 si è infatti ritenuto che la norma in questione, per la parte attinente alle clausole sociali, disciplina due ipotesi differenti.

La prima ricorre allorché l'obbligo di mantenimento del rapporto lavorativo presso il nuovo appaltatore sia previsto direttamente dal contratto collettivo. In questa ipotesi, l'Amministrazione, in forza della previsione di cui all'art. 30 dello stesso D.Lgs. n. 50/2016, è tenuta a prevedere il transito dei dipendenti dal vecchio al nuovo appaltatore senza possibilità, per il nuovo appaltatore, di opporre la libertà di iniziativa economica ai fini di una valutazione “flessibile” del suo obbligo.

La tematica delle clausole sociali propriamente dette riguarda invece la diversa (seconda) ipotesi, in cui il CCNL di riferimento non contenga alcuna previsione in ordine alla conservazione del posto di lavoro per il caso di subentro nell'appalto: è proprio questa l'ipotesi disciplinata dall'art. 50 cit., norma con la quale la valutazione discrezionale della stazione appaltante, in passato attinente anche all'an dell'inserimento della clausola sociale, oggi viene circoscritta esclusivamente al quomodo. In ogni caso, come allora, secondo quanto ritenuto con la citata pronuncia T.A.R. ancor oggi essa può essere sindacata nelle sue modalità di esercizio dal giudice amministrativo.

Quanto alla possibilità per la stazione appaltante di imporre all'aggiudicatario l'applicazione di un determinato CCNL, la giurisprudenza amministrativa ha recentemente espresso avviso contrario: affermando che, in materia di appalti pubblici, la scelta del contratto collettivo da applicare rientra nelle prerogative di organizzazione dell'imprenditore e nella libertà negoziale delle parti, con il solo limite che esso risulti coerente con l'oggetto dell'appalto (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 1 marzo 2017, n. 932; conformi Consiglio di Stato, sez. V, 12 maggio 2016, n. 1901; Id., sez. III, 10 febbraio 2016, n. 589).

Rapporti con il trasferimento d'azienda

Le conseguenze giuridiche del cambio di appalto sono spesso oggetto di confronto con il trasferimento d'azienda di cui all'art.2112 c.c.

Come detto, tale ultimo istituto garantisce infatti maggiori tutele ai lavoratori, connesse alla continuazione del loro rapporto di lavoro anche presso l'impresa cessionaria.

Notevoli sono le differenze di disciplina tra le due fattispecie:

  • mentre il (mero) appaltatore subentrante può assumere ex novo i lavoratori già occupati nell'appalto, con possibilità di rideterminare in autonomia le condizioni del rapporto (orario, mansioni, inquadramento, trattamenti economici e normativi, etc.); l'imprenditore-cessionario è tenuto a subentrare in tutti i rapporti di lavoro facenti capo all'appaltatore uscente, garantendo, oltre alla continuità dei rapporti stessi, l'anzianità di servizio, i trattamenti retributivi, l'orario di lavoro e l'inquadramento;
  • il cessionario risponde altresì in via solidale dei debiti verso i dipendenti in servizio sussistenti al momento del trasferimento: la responsabilità solidale, già esistente nell'ambito dello stesso appalto per via “verticale”, ossia tra committente, appaltatore e subappaltatore, in base all'art. 1676 c.c. ed all'art.29, co. 2, D. Lgs. n. 276/2003 diviene di tipo “orizzontale”, estendendosi cioè alle imprese che si susseguono nella gestione dell'azienda;
  • sul fronte dei controlli preventivi sulla posizione e sulla situazione debitoria verso i lavoratori coinvolti nel cambio di gestione, nell'ipotesi del trasferimento d'azienda la relazione precontrattuale tra le imprese consente una adeguata ingerenza del cedente sull'azienda del cessionario. Tra le imprese che si avvicendano nell'appalto, invece, non esiste alcun collegamento giuridico/economico e, quindi, alcuna possibilità di intervento del subentrante.

E' pertanto concreto il rischio che, in caso di riqualificazione dell'operazione in termini di trasferimento d'azienda, l'intera pianificazione economica effettuata dall'appaltatore in vista dell'acquisizione dell'appalto divenga assolutamente inattendibile.

Va poi posta attenzione al fatto che, nel caso in cui il personale occupato presso l'appaltatore uscente risulti in esubero e non assorbibile presso altre unità produttive o in diverse mansioni, al subentrante non resterà altro che dar corso alle procedure di riduzione del personale: individuali o collettive a seconda dell'entità dell'esubero, con tutti i connessi rischi di impugnazione e contenzioso.

Del pari, eventuali licenziamenti posti in essere dal precedente appaltatore a causa della cessazione dell'appalto potrebbero essere impugnati dai lavoratori così coinvolgendo anche il nuovo appaltatore per i relativi profili risarcitori e/o reintegratori.

Anche sotto l'aspetto procedurale, l'applicazione della disciplina dell'art. 2112 c.c. comporta per il datore di lavoro maggiori oneri: in presenza di più di 15 dipendenti occupati nell'azienda trasferita, vi è infatti l'obbligo di attivazione preventiva della procedura di consultazione sindacale di cui all'art. 47, L. n. 428/1990.

Veniamo dunque al dato normativo atto a distinguere le due fattispecie a confronto.

L'art. 29, co. 3, D. Lgs. n. 276/2003, nella sua originaria formulazione, disponeva che l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore - in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d'appalto - non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda.

Con la L. n. 122/2016 (Legge Europea 2015-2016), il comma è stato sostituito: specificandosi alcuni requisiti idonei ad escludere la fattispecie del trasferimento d'azienda e, con esso, l'applicazione della disciplina dell'art. 2112 c.c.

Nel nuovo testo, tali requisiti prevedono in particolare che il nuovo appaltatoresiadotato di propria struttura organizzativa e operativa; e che nell'operazione di subentro nell'appalto, con acquisizione del personale addetto, “siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa.

La novella consegue alla procedura di pre-infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell'Italia (EU Pilot 7622/15/EMPL), per ritenuto contrasto della norma ora sostituita con la Dir. 2001/23/CE del Consiglio, valutata come illegittimamente restrittiva (almeno secondo l'apprezzamento degli organi UE che, evidentemente, non ha considerato l'orientamento della giurisprudenza nazionale sul significato della disposizione medesima, vd. sotto) rispetto all'applicazione delle regole di tutela per i lavoratori nelle ipotesi di trasferimento d'azienda.

La nuova norma è stata salutata in dottrina con varie critiche: vuoi perché ritenuta superflua (probabilmente, per scongiurare il pericolo di sanzioni UE, sarebbe bastata l'eliminazione tout court della disposizione, soluzione infatti proposta dal Governo al Parlamento nell'iter legislativo); vuoi perché obiettivamente mal formulata (in primis poiché essa fa riferimento, peraltro alquanto sibillinamente, alla struttura dell'impresa cessionaria e non alle caratteristiche dell'azienda, o suo ramo, oggetto di trasferimento).

Si è quindi sottolineata la disagevole opera dell'interprete, anche se allo stato prevale l'opinione di attribuire alla novella piena coincidenza di significato rispetto alla volontà del legislatore di tradurre in diritto positivo niente più che l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale maturata sull'argomento (opzione interpretativa ricognitiva). Minoritaria è l'opinione che vede nella nuova disposizione un'estensione della nozione di trasferimento d'azienda (opzione interpretativa estensiva).

Ad ogni buon conto, il modificato art. 29, co. 3, D. Lgs. n. 276/2003, lungi dal chiarire quando il cambio d'appalto configuri una trasferimento d'azienda, costituisce senz'altro motivo di incertezza interpretativa e, pertanto, fonte di possibile ulteriore contenzioso giudiziale.

Al momento, l'unica pronuncia nota (che allo stato non risulta edita) concernente l'applicazione della nuova disposizione è data dall'ordinanza 28 aprile 2017 n. 13 del Tribunale di Padova.

Con tale pronuncia, nell'accertare la sussistenza di un trasferimento d'azienda per il subentro nella gestione di appalto di servizi (nella specie, guardiania presso un gruppo bancario), il giudice si è limitato a constatare, evidentemente sulla scorta delle risultanze istruttorie di causa, che nulla è cambiato rispetto al servizio in precedenza gestito […] in quanto il tipo di servizio svolto dalla subentrante […] ha per oggetto la stessa attività di portierato/guardiania con utilizzo di mezzi necessari allo svolgimento di detti compiti di proprietà dell'appaltante […] e con impiego degli stessi lavoratori”.

Il Tribunale non ha perciò ravvisato “elementi di discontinuità da determinare [nell'impresa subentrante] una specifica identità d'impresa, tali non essendo […] la nuova gestione amministrativo contabile dei lavoratori, la quale è semmai una conseguenza necessaria e diretta del cambio di titolarità dell'appalto in questione”.

L'ordinanza pare in linea con il precedente consolidato orientamento della giurisprudenza.

In attesa di conoscere in quale direzione quest'ultima evolverà nell'opera ermeneutica sulla nuova disciplina, è opportuno focalizzare l'attenzione sugli approdi intrepretativi dalla giurisprudenza stessa sin qui raggiunti (i quali, come detto, per il fatto di corrispondere all'ultima voluntas legislatoris potrebbero nel prossimo periodo ricevere integrale conferma).

Nel tempo si è consolidata l'opinione secondo cui, al di là della sua lettera, l'art. 29, co. 3, D. Lgs. n. 276/2003 non esclude di per sé che la successione tra imprese nell'esecuzione dell'appalto possa costituire un trasferimento d'azienda ai sensi dell'art.2112 c.c. (ciò pur in assenza di un vincolo contrattuale diretto fra le imprese stesse, conformemente a quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia UE nell'interpretazione delle direttive in materie di trasferimento di azienda, cfr. CGUE 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen; CGUE 25 gennaio 2001, C-172/99, Oy Liikenne; CGUE 26 settembre 2000, C-175/99, Didier Mayeur; CGUE 20 novembre 2003, C-340/01, Abler).

In ogni caso, per accertare in concreto l'effetto della continuità dei rapporti di lavoro tra l'impresa uscente e la subentrante, è necessario che l'avvicendamento nell'attività appaltata sia accompagnato dal passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all'attività di impresa, o almeno del <<know how>> o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti” (sic Cass. n. 24972/2016; conformi, ex multis, Cass. n.11247/2016; n. 17366/2016; n. 24804/2015; n. 11918/2013; n. 493/2005; Trib. Monza 2 maggio 2015; Trib. Milano 26 marzo 2015; Trib. Milano 13 marzo 2014; Trib. Roma 20 novembre 2007; Trib. Roma 9 giugno 2005).

In particolare, con riferimento agli appalti di servizi ad alta intensità di manodopera o labour intensive (ora definiti all'art.50, D. Lgs. n. 50/2016, come quelli in cui “il costo della manodopera è pari almeno al 50% dell'importo totale del contratto”) ben può il gruppo di lavoratori già impiegato nell'appalto costituire una azienda o un ramo di azienda, purché i lavoratori stessi "siano dotati di particolari competenze e siano stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, così da rendere le loro attività interagenti ed idonee a tradursi in beni e servizi” (così Cass. n. 7121/2016; conforme Cass. n. 12720/2017; n. 5678/2013).

Per contro, la mera assunzione di tutto o di parte del personale impiegato dal precedente imprenditore non è da sola sufficiente a rendere applicabile l'art. 2112 c.c. (cfr. Cass. n. 12720/2017; n. 6770/2017; n. 24972/2016; n. 11247/2016).

In buona sostanza, deve trattarsi di un gruppo dotato di un'autonoma capacità operativa, assumendo il quale l'appaltatore subentra nella titolarità di un'organizzazione stabile, di per sé in grado di realizzare lo specifico risultato produttivo perseguito con l'operazione economica implementata attraverso l'appalto.

Conclusioni: prossima fuga dalle clausole sociali?

Dal quadro normativo e giurisprudenziale sopra evidenziato, emerge che la fattispecie del cambio di appalto appronta, in favore dei lavoratori coinvolti nel cambio di gestione, tutele senz'atro più deboli rispetto al trasferimento d'azienda disciplinato dall'art. 2112 c.c.

L'art. 29, co. 3, D. Lgs. n. 276/2003 si pone, soprattutto nel settore degli appalti privati, quale norma di cerniera tra i due sistemi di tutela.

L'intento riformatore del legislatore 2016, sotto tale profilo, non pare idoneo a chiarire la distinzione tra i due istituti.

Ne discende che, a fronte della possibile estensione per via giurisprudenziale dell'area di applicazione delle regole dettate per il trasferimento d'azienda anche ai casi di successione nell'appalto nei quali, in forza di clausole sociali, è imposto l'assorbimento dell'intero personale impiegato dall'impresa uscente, tali clausole – che, ricordiamo, in buona parte sono di origine contrattuale – non potranno che divenire assai invise agli appaltatori.

I soggetti investiti di responsabilità istituzionale sulla materia – in primis, il legislatore - dovranno pertanto adeguatamente considerare che l'obbiettivo della continuità dei livelli occupazionali è antitetico a quello della libera concorrenza.

L'imposizione alle imprese di attuare lo svolgimento di una determinata attività economica con un numero prefissato ed immutabile di dipendenti (il che, d'altro canto, può comportare una sorta di monopolio nel servizio) pregiudica la possibilità di addivenire a nuove forme di organizzazione del lavoro e, in definitiva, è di ostacolo alla produttività aziendale nonché al principio comunitario di promozione e di tutela della concorrenza.

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