L‘insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento e la prova del motivo illecito ex art. 1345 c.c.

Marco Ferraresi
29 Marzo 2018

L'irrogazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, manifestamente insussistente, in occasione della ripresa dell'attività lavorativa dopo lungo periodo di sospensione per malattia del prestatore, fa presumere l'esistenza di un motivo illecito del recesso ex art. 1345 c.c.
Massima

L'irrogazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, manifestamente insussistente, in occasione della ripresa dell'attività lavorativa dopo lungo periodo di sospensione per malattia del prestatore, fa presumere l'esistenza di un motivo illecito del recesso ex art. 1345 c.c.

Il caso

Un lavoratore, in occasione della ripresa dell'attività dopo lungo periodo di sospensione per malattia, veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.) per soppressione del reparto e delle mansioni di adibizione e per l'indisponibilità di mansioni alternative di ricollocazione. Nelle fasi sommaria e di opposizione del c.d. rito Fornero, egli domandava l'accertamento, non solo dell'insussistenza del g.m.o., ma anche della sussistenza di un motivo discriminatorio o di un motivo illecito esclusivo e determinante ex art. 1345 c.c., con l'applicazione del trattamento sanzionatorio ex art. 18, comma 1, L. n. 300/1970. In primo grado, otteneva il riconoscimento dell'insussistenza del g.m.o., ma non dell'esistenza delle più gravi fattispecie. Con reclamo, insisteva nel domandare l'accertamento di quest'ultima.

Le questioni

La Corte di Appello affronta, principalmente, le seguenti questioni di diritto:

a) se un lungo periodo di malattia costituisca un handicap ai sensi della normativa antidiscriminatoria in materia di lavoro, con applicazione delle relative tutele;
b) se anche il motivo illecito ex art. 1345 c.c. possa provarsi per presunzioni;
c) se queste possano essere integrate dalla (manifesta) insussistenza del g.m.o. di recesso, unitamente alla coincidenza temporale del licenziamento con il momento di rientro dal periodo di malattia.

Le soluzioni giuridiche

È anzitutto da escludere che la malattia pur lunga, per sé sola, integri la nozione giuridica di handicap, quale fattore protetto dalla disciplina antidiscriminatoria di derivazione comunitaria. Da un lato, infatti, anche alla stregua dell'interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia dell'UE (v. CGUE 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11), la malattia comporta la disabilità solo se ne conseguono menomazioni durature che, in interazione con ostacoli di diversa natura, incidano sulla possibilità di eseguire la prestazione lavorativa in condizioni di parità con gli altri prestatori. Dall'altro, il novero dei motivi discriminatori, per quanto ampio, è da considerarsi tassativo (CGUE 18 dicembre 2014, C-354/13).

Simile esclusione, se conduce a disapplicare i principi della tutela antidiscriminatoria (in particolare, la rilevanza oggettiva e anche non esclusiva della discriminazione), non impedisce di vagliare fattori di rischio non contemplati sulla base dell'art. 1345 c.c., che colpisce con la nullità (anche) gli atti negoziali unilaterali esclusivamente determinati da motivo illecito. E non può dubitarsi che il licenziamento di un prestatore per l'unica ragione di aver esercitato il diritto alla sospensione del rapporto per causa di malattia, ex art. 2110 c.c., sia riconducibile a detto motivo, quale recesso ritorsivo o di rappresaglia.

Sul piano processuale, è vero che l'agevolazione dell'onere probatorio di cui all'art. 28, comma 4, D.Lgs. n. 150/2011, è letteralmente prevista per le sole discriminazioni (“quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione”). Tuttavia, talora, essa è estesa anche alle fattispecie di motivo illecito ex art. 1345 c.c. (v. Trib. Busto Arsizio, 10 novembre 2014); talaltra, come per la decisione in commento, i giudici fanno comunque utilizzo della prova presuntiva ex art. 2729 c.c.

Ora, sembra assodato che l'insussistenza, anche manifesta, del g.m.o. non renda per sé discriminatorio o nullo il recesso, posto che si tratta di fattispecie distintamente contemplate e sanzionate, sia nella L. n. 92/2012 di riforma dell'art. 18, L. n. 300/1970, sia nel D.Lgs. n. 23/2015, in riferimento al contratto a tutele crescenti (v. App. Bari, 19 aprile 2017, n. 1107). Tuttavia, la palese carenza di giustificazione del recesso potrebbe costituire un primo elemento presuntivo che, unitamente ad altri, potrebbe denotare l'esistenza di motivazioni diverse e non esternate del recesso sollecitando l'attenzione del giudice, secondo una tendenza che in effetti sembra farsi strada in giurisprudenza (v. Trib. Milano, 13 giugno 2017; Trib. Ancona, 2 maggio 2016; Trib. Roma, 24 giugno 2016, n. 4517).

Osservazioni

La pronuncia appare condivisibile sia con riguardo alle argomentazioni sulle singole questioni di diritto, sia alla luce della recente evoluzione della disciplina dei licenziamenti di cui alla L. n. 92/2012 e al D.Lgs. n. 23/2015.

Correttamente esclusa l'equiparazione tra malattia e handicap in relazione alla disciplina antidiscriminatoria, la Corte ha ammesso la prova del motivo illecito per presunzioni. Si può discutere se la prova presuntiva della discriminazione, nei termini ex art. 28, co. 4, D.Lgs. n. 150/2011, differisca da quella ex art. 2729 c.c., ma negarne l'utilizzo al fine di accertare la fattispecie ex art. 1345 c.c. significherebbe precludere, di fatto, la prova del motivo illecito, posto che esso di norma non è esternato, ma occulto, quale fatto ignoto desumibile solo a partire da elementi noti.

Ancora la Corte, implicitamente, fa correttamente propria la tesi per cui la manifesta insussistenza del g.m.o. non comporta per ciò solo la natura illecita o discriminatoria del recesso, gravando appunto sul prestatore l'onere della prova relativo. Nemmeno, prudentemente, si spinge a ritenere provato il motivo illecito per la sola coincidenza temporale del recesso con la ripresa del lavoro dopo la malattia. Infatti, la circostanza di tempo ben potrebbe spiegarsi alla luce del fatto che, come noto, il recesso per giustificato motivo intimato durante il periodo di comporto ex art. 2110 c.c. sortirebbe effetto, comunque, solo al termine della sospensione.

Piuttosto, il Collegio, in una complessiva valutazione della fattispecie concreta, considera il momento dell'irrogazione unitamente alla carenza del g.m.o. in ciascuno dei suoi elementi: il fatto posto a base del motivo oggettivo, per l'inesistenza del reparto soppresso; il difetto del nesso causale, per l'immediata copertura delle stesse mansioni da parte di prestatore successivamente assunto; del ripescaggio, per l'esistenza di mansioni utilmente eseguibili dal lavoratore licenziato; dei criteri di scelta, per la maggiore anzianità e le migliori capacità del soggetto espulso rispetto all'unico altro dipendente del medesimo datore.

Da tali elementi di fatto, il giudice ha condivisibilmente dedotto che il licenziamento, evidentemente privo di giustificazione oggettiva, dovesse spiegarsi con ragioni di carattere soggettivo inerenti la persona del prestatore, individuabili unicamente, in mancanza di prova di altre circostanze, nella lunga malattia.

La decisione risente poi, come accennato, del mutato quadro sistematico. Articolato l'apparato sanzionatorio dei licenziamenti, a seguito delle recenti riforme, sulla base del motivo del recesso, diviene rilevante l'accertamento, non solo della inesistenza della ragione esternata, ma anche della sussistenza di quella eventualmente recondita. E ciò, in particolare, quando l'atto espulsivo sia irrogato per g.m.o., se si considera che, in base alla L. n. 92/2012, esso è perlopiù presidiato dalla tutela meramente indennitaria c.d. forte (come anche mostra l'applicazione giurisprudenziale, che solo residualmente applica la tutela reintegratoria c.d. attenuata: v. Cass. sez. lav., 19 gennaio 2018, n. 1373); e che, in base al D.Lgs. n. 23/2015, la tutela indennitaria è la sola esperibile, peraltro con importi ora al vaglio di legittimità costituzionale (v. Trib. Roma, 26 luglio 2017).

A tale stregua, è comprensibile la crescente attenzione dei giudici a verificare un potenziale utilizzo strumentale del licenziamento per motivo oggettivo – al solo fine di scongiurare la reintegrazione e con un rischio di causa accettabile sul piano contabile – e a intercettare motivazioni diverse (discriminatorie, nulle, disciplinari) riconducibili a un più severo trattamento sanzionatorio, con un più accorto utilizzo delle presunzioni.

Guida all'approfondimento
  • M. Biasi, Saggio sul licenziamento per motivo illecito, Milano, 2017
  • S. Brun, Il licenziamento economico tra esigenze dell'impresa e interesse alla stabilità, Padova, 2012
  • F. Marinelli, Il licenziamento discriminatorio e per motivo illecito, Milano, 2017
  • S. Varva, Il licenziamento economico – Pretese del legislatore e tecnica del giudizio, Torino, 2015

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