La cessazione della materia del contendere e gli effetti sulla pretesa sostanziale oggetto di giudizio
06 Aprile 2018
Massima
La pronuncia che dichiara la cessazione della materia del contendere ha carattere meramente processuale ed è inidonea a costituire giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere in giudizio. Il caso
C.M.L. impugnava dinanzi alla CTP di Roma gli avvisi di accertamento emessi dal Comune di Roma in materia di Ici per gli anni dal 2000 al 2003 sostenendo che, in relazione agli immobili di sua proprietà, spettava la riduzione dell'imposta come prevista dall'art. 2, comma 5, d.l. n. 16/1993, trattandosi di beni di interesse storico ed artistico. La commissione tributaria provinciale di Roma accoglieva il ricorso, condividendo la prospettazione della parte ricorrente. Avverso la decisione proponeva appello il Comune di Roma e il gravame era accolto dalla commissione tributaria regionale del Lazio. La sentenza della CTR era oggetto di ricorso per cassazione da parte del contribuente. La questione
Il ricorrente eccepiva l'avvenuto formarsi di un giudicato esterno, derivante da altra sentenza intervenuta tra le medesime parti (n. 270/60/13 pronunciata dalla commissione tributaria provinciale di Roma) e con cui era stato dichiarato estinto il giudizio per cessata materia del contendere, per aver l'ente disposto l'annullamento dell'atto impositivo afferente l'anno 2004 in relazione alla medesima tipologia di tributi oggetto di controversia. Le soluzioni giuridiche
L'eccezione era respinta dalla Suprema Corte, che rigettava anche nel merito il ricorso, confermando la sentenza della CTR di Roma. In particolare, i Giudici di legittimità escludevano che potesse assegnarsi valore di giudicato esterno alla sentenza dichiarativa della cessata materia del contendere tra le parti in altro processo, trattandosi di pronuncia di carattere meramente processuale, come tale inidonea a spiegare gli effetti di cui all'art. 2909 c.c. sulla pretesa fatta valere nel relativo giudizio. Trattasi, peraltro, di principio di diritto che richiama un orientamento consolidato della Suprema Corte, sempre convergente sulla medesima direttiva ermeneutica (cfr., tra le tante, Cass. civ., sez. III, sent., n. 10960/2010; Cass. civ., sez. Lav., sent., n. 7185/2010; Cass. civ., sez. III, sent., n. 17312/2015). Osservazioni
La cessazione della materia del contendere è istituto non disciplinato dal codice di rito (a differenza di quanto accade, ad esempio in seno al processo tributario o a quello amministrativo), ma che, tuttavia, può dirsi pienamente esistente anche nell'ordinamento processuale civile in forza di un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità - quale “diritto vivente”, a partire da Cass. civ., Sez. Un., 19 gennaio 1954, n. 92 - che la considera forma di definizione del processo a cui ricorrere ogni qual volta viene meno la stessa ragion d'essere della lite, per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interesse alla prosecuzione del giudizio e alla sua definizione in punto di merito (tra le tante, cfr. Cass. civ., sez. III, sent., n. 10478/2004; Cass. civ, sez. lav., sent., n. 9332/2001; Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 1048/2000; Cass. civ., sez. lav., sent., n. 2268/1999; Cass. civ., sez. lav., sent., n. 2572/1998; Cass. civ., sez. II, sent., n. 4283/1997). La pronuncia va emessa, in particolare, d'ufficio o su istanza di parte, quando i contendenti si diano reciprocamente atto dell'intervenuto mutamento della situazione evocata in giudizio, potendo al più residuare un contrasto solo sulle spese di lite, che il giudice deve risolvere secondo il criterio della cosiddetta “soccombenza virtuale” e, cioè, delibando solo a fini di regolamentazione delle spese la fondatezza delle domande ed eccezioni originarie delle parti (cfr. in tal senso: Cass. civ., sez. III, sent., n. 6395/2004; Cass. civ., sez. III, sent., n. 6403/2004; Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 13969/2004; Cass. civ., sez. III, sent., n. 11962/2005). Peraltro, l'interesse alla prosecuzione del giudizio può venire meno anche in una fase del giudizio che non permette di stimare in pieno la fondatezza delle pretese delle parti, ad esempio perché non è stata ancora compiuta o completata l'istruttoria: in tali casi, è da ritenere che le spese debbano essere regolate secondo un principio di causalità, di cui la soccombenza, anche virtuale, è espressione (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., n. 7625/2010), nel senso che le spese, in forza del criterio generale di cui all'art. 91 c.p.c., vanno poste a carico della parte che, azionando una pretesa accertata come infondata o resistendo ad una pretesa fondata, abbia dato causa al processo o alla sua protrazione e che debba qualificarsi tale in relazione all'esito finale della controversia. Causare un processo, tuttavia, significa anche costringere alla proposizione di un'iniziativa giudiziaria che poteva essere evitata grazie ad un comportamento esigibile della parte nei cui confronti la domanda è proposta. Non è, quindi, esente dall'onere delle spese la parte che, con un suo comportamento antigiuridico, dovuto alla trasgressione di norme di diritto sostanziali, abbia provocato la necessità del processo (cfr. Cass. civ., Sez. Un., sent., n. 16092/2009). La cessazione della materia del contendere, in presenza dei presupposti sopra richiamati, va dichiarata anche in sede di legittimità e in tal caso la Corte decide sulle spese secondo il principio della soccombenza virtuale rispetto all'intero processo, in forza del combinato disposto degli artt. 384 e 385 c.p.c. (così Cass. civ., sez. III, sent., n. 14267/2017). Molteplici sono gli effetti processuali che si ricollegano ad una sentenza di cessazione della materia del contendere: tra questi, l'inammissibilità, avverso essa, dell'istanza di regolamento di competenza, essendo priva di rilevanza ogni questione inerente alla determinazione del giudice competente a provvedere sulla domanda (Cass. civ., sez. VI-3, ord., n. 18530/2016); l'applicabilità dell'art. 2945, comma 3, c.c., che prevede, per il solo caso di estinzione del processo, il venir meno dell'effetto interruttivo permanente della prescrizione durante il corso del giudizio (Cass. civ., sez. I, sent., n. 23867/2015); l'inammissibilità dell'impugnazione proposta avverso la motivazione di simile sentenza, difettando un interesse attuale ad ottenere la rimozione di eventuali accertamenti contenuti nella pronuncia (Cass. civ., sez. III, sent., n. 10960/2010). Più complesso appare essere il profilo dell'efficacia sostanziale da assegnare alla sentenza di cessazione della materia del contendere, specie a fronte di una delibazione incidentale sulla fondatezza delle pretese delle parti avvenuta a fini di regolamentazione delle spese di lite: sin dalle sue pronunce più datate, tuttavia, la Suprema Corte si è mostrata costante nel ritenere che la declaratoria di cessazione della materia del contendere, anche ove contenente la valutazione di soccombenza virtuale per la liquidazione delle relative spese di lite, non è idonea ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, né preclude la riproposizione in diverso giudizio (cfr. Cass. civ., sez. III, sent., n. 17312/2015 e altre pronunce sopra citate). Ciò in quanto trattasi di pronuncia di mero rito, che si limita ad accertare la circostanza del venir meno dell'interesse a proseguire un determinato giudizio, impregiudicato, quindi, ogni diverso aspetto. La medesima conclusione di non estensibilità al di fuori del processo in cui la decisione è resa vale, come detto, anche per la valutazione di soccombenza virtuale: ipotizzare, infatti, che quanto considerato ai fini di una soccombenza meramente virtuale, cioè sul presupposto che nel merito non si possa entrare, possa comportare un valido pregiudizio delle questioni di fatto e di diritto che si dichiara di non potere e non volere esaminare, comporterebbe, secondo la Suprema Corte, una «violazione della funzione stessa dell'istituto e la sua sostanziale vanificazione»(così Cass. civ., n. 17312/2015 cit.). Se, tuttavia, da un lato appaiono pacifiche le conclusioni della Suprema Corte sul valore da attribuire alla pronuncia di cessazione della materia del contendere (salvo quanto si dirà infra, con riferimento all'ipotesi della rinuncia all'azione), deve riconoscersi che non sempre è agevole il rilievo dei presupposti per l'adozione di una simile pronuncia: anche, infatti, quando le parti non si diano reciprocamente atto della composizione della lite, il giudice può, in qualsiasi stato e grado del processo, dare atto d'ufficio della cessazione della materia del contendere intervenuta nel corso del giudizio, se risulti ritualmente acquisita o non contestata una situazione dalla quale emerga che è venuto meno ogni ragione di contrasto tra le parti (al di là del profilo delle spese). Allorquando, invece, la sopravvenienza di un fatto che si assume suscettibile di determinare la cessazione della materia del contendere sia allegata da una sola parte e l'altra non aderisca a tale prospettazione, è necessario, ai fini dell'adozione d'ufficio della relativa pronuncia, che la situazione sopravvenuta soddisfi in modo pieno ed irretrattabile il diritto esercitato, in modo che non residui alcuna utilità alla pronuncia di merito (Cass. civ., sez. II, sent., n. 4034/2007; Cass. civ., sez. lav., sent., n. 6909/2009). Al di fuori di tali ipotesi, il giudice, il quale ritenga che il fatto sopravvenuto abbia determinato il soddisfacimento del diritto azionato, deve dichiarare il difetto di interesse ad agire, regolando le spese giudiziali alla luce del sostanziale riconoscimento di una soccombenza; qualora, invece, ritenga che il fatto in questione abbia determinato il riconoscimento dell'inesistenza del diritto azionato, deve pronunciare sul merito dell'azione, dichiarandone l'infondatezza e statuendo sulle spese secondo le regole generali (cfr. Cass. civ., sez. VI-5, ord., n. 5188/2015; Cass. civ., sez. III, sent., n. 16150/2010; Cass. civ., sez. III, sent., n. 11962/2005). Deve, peraltro, osservarsi che una parte della dottrina paventa, almeno a fronte di alcuni eventi causativi della cessazione della materia del contendere, la possibilità di effetti sostanziali e non solo processuali della relativa pronuncia, ad esempio a seguito della rinunzia all'azione; del venir meno dell'oggetto del processo per morte della parte in azioni personali ed intrasmissibili; in situazioni riconducibili alla volontà delle parti quali l'inadempimento e la transazione. Si è osservato, infatti, che in presenza delle richiamate fattispecie, la sentenza di cessazione della materia del contendere è equiparabile alla decisione di rigetto nel merito per sopravvenuta infondatezza della domanda, idonea a generare, nel caso di riproposizione della domanda rinunciata, un'exceptio rei iudicatae. In presenza, invero, di rinuncia all'azione, anche la giurisprudenza riconosce effetti di giudicato sostanziale alla pronuncia di cessazione della materia del contendere; ciò in quanto la rinuncia all'azione comporta una vera e propria disposizione del diritto sostanziale sottostante, con la conseguenza che, intervenuta la relativa pronuncia, equiparabile ad un rigetto nel merito (cfr. Cass. civ., sez. I, sent., n. 18255/2004; Cass. civ., sez. III, sent., n. 23749/2011), non potrà più essere riproposta la domanda giudiziale per la tutela del diritto stesso una volta che la relativa statuizione sia passata in giudicato. Riferimenti
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