Licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata: la mancata richiesta del congedo familiare non prevale sul principio di proporzionalità

Paolo Patrizio
10 Aprile 2018

In merito alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, non può attribuirsi rilievo esclusivo all'inosservanza delle forme previste per conseguire l'autorizzazione alla fruizione del congedo, prescindendo del tutto dalla considerazione dell'effettività e dell'urgenza delle ragioni dell'assenza destinate, viceversa, ad incidere sulla valutazione della consistenza oggettiva e della qualificazione soggettiva della condotta inadempiente.
Massima

In merito alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, non può attribuirsi rilievo esclusivo all'inosservanza delle forme previste per conseguire l'autorizzazione alla fruizione del congedo, prescindendo del tutto dalla considerazione dell'effettività e dell'urgenza delle ragioni dell'assenza destinate, viceversa, ad incidere sulla valutazione della consistenza oggettiva e della qualificazione soggettiva della condotta inadempiente.

Il caso

Il caso in esame trae spunto dal licenziamento per giusta causa comminato ad una dipendente di una nota catena di bricolage, la quale, dovendo assistere la figlia affetta da una grave forma di depressione post partum, si era assentata dal lavoro per diversi giorni, senza aver inoltrato alla datrice alcuna richiesta di fruizione del congedo per motivi familiari.

Il licenziamento era stato immediatamente impugnato dalla lavoratrice, sul presupposto del dedotto scostamento dai criteri legali di valutazione della giusta causa sotto il profilo della proporzionalità tra mancanza addebitata e sanzione irrogata.

Senonchè, mentre il Tribunale aveva ritenuto di poter accogliere le doglianze della dipendente, la Corte d'appello aveva disposto l'integrale riforma della sentenza di primo grado, ritenendo che la condotta della lavoratrice integrasse una violazione non meramente formale della disciplina del CCNL in materia e che, pertanto, il mancato inoltro all'azienda della richiesta di fruizione del congedo dovesse qualificarsi di gravità tale da legittimare la sanzione espulsiva.

Il caso è stato, quindi, posto all'attenzione della Suprema Corte, la quale, dopo aver sottolineato come l'inosservanza delle forme prescritte, sebbene in violazione di norme all'uopo predisposte, non sia di per sé sufficiente per valutare la proporzionalità che deve sempre sussistere nell'ambito del licenziamento disciplinare tra la condotta inadempiente della lavoratrice e la grave sanzione espulsiva irrogata, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di merito, in diversa composizione, per la riformulazione del giudizio di proporzionalità, alla stregua dei criteri indicati in sede di legittimità.

La questione

La questione giuridica affrontata dalla decisione in esame involge la tematica dell'imprescindibile rispetto del principio di proporzionalità nel giudizio di legittimità del licenziamento disciplinare.

Le soluzioni giuridiche

Il Supremo organo della nomofilachia, nel dirimere la questione posta al suo vaglio, ha ritenuto di dover cassare con rinvio la sentenza di secondo grado impugnata, evidenziando come la Corte territoriale, nel motivare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, avesse attribuito esclusivo rilievo all'inosservanza delle forme previste per conseguire l'autorizzazione alla fruizione del congedo, prescindendo del tutto dalla considerazione dell'effettività e dell'urgenza delle ragioni dell'assenza (nel caso di specie rinvenibili nella necessità, per la lavoratrice, di dover assistere la figlia affetta da una grave depressione post partum) le quali, al contrario, devono considerarsi imprescindibili, siccome destinate ad incidere sulla valutazione della consistenza oggettiva e della qualificazione soggettiva della condotta inadempiente, quali criteri fondamentali per la formulazione del giudizio di proporzionalità.

Osservazioni

Con l'interessante decisione in commento, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema del giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione disciplinare irrogata rispetto alla gravità del fatto addebitato al lavoratore.

Come è noto, la nozione di “proporzionalità”, che trova il proprio addentellato nell'art. 2106 c.c., sotto il profilo dogmatico appare certamente annoverabile, al pari delle stessa “giusta causa”, tra la tipologia delle c.d. clausole generali, notoriamente caratterizzate da una spiccata elasticità ed indeterminatezza contenutistica, in quanto finalizzate ad adeguare il disposto normativo alle mutevoli ed articolate realtà da disciplinare e, come tali, necessitanti di una imprescindibile specificazione in sede interpretativa.

Senonchè, la sintesi del suddetto principio, di certo rappresentativo dell'esercizio di un potere largamente discrezionale da parte del datore di lavoro, trova una delle sue massime esplicazioni proprio nel procedimento valutativo di competenza giudiziale, essendo la magistratura chiamata a stabilire le ipotesi in cui la condotta addebitata abbia avuto una effettiva ripercussione sul rapporto di lavoro, tale da “spezzare e/o incrinare” il vincolo fiduciario posto a base del paradigma lavorativo e porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento del lavoratore rispetto agli obblighi assunti.

La valutazione del nesso di proporzionalità tra l'illecito disciplinare ed il licenziamento irrogato, dunque, deve essere condotta alla stregua di un apprezzamento di fatto, da svolgere non sulla base di una considerazione astratta della condotta addebitata, ma tenendo conto, in modo sistematico ed unitario, di ogni aspetto concreto della vicenda processuale, dovendo il Giudicante dapprima verificare che l'infrazione contestata, ove in punto di fatto accertata o pacifica, sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, per quindi passare successivamente, in caso di esito positivo di tale delibazione, a valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze in cui sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale; e, dall'altro lato, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui poggia la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

Ne deriva, che il sindacato giurisdizionale in ordine alla legittimità del licenziamento con riferimento al principio di proporzionalità (il quale appare, se congruamente motivato, pacificamente riservato al giudice di merito) dovrà spingersi ad approfondire:

  • sotto il profilo oggettivo, le circostanze di tempo e di luogo della condotta, l'entità della mancanza, il tipo di mansioni affidate al lavoratore ed il grado di affidamento richiesto in base all'inquadramento ed alle specifiche attività esercitate, il pregresso andamento del rapporto e la sua durata;
  • sotto il profilo soggettivo, i motivi e le circostanze che hanno animato l'elemento psicologico che ha sorretto la condotta, il suo carattere doloso o colposo, l'eventuale recidiva e la sistematicità del comportamento contestato, le probabilità di reiterazione dell'illecito, nonché in quali casi sia giustificata l'adozione della massima sanzione disciplinare in luogo di una delle sanzioni conservative astrattamente disponibili.

Ciò in quanto è oramai acquisito in materia il dato che l'adozione della sanzione espulsiva debba essere limitata ai soli casi di maggiore gravità, quelli cioè in cui il fatto sia in grado di ledere in maniera irrimediabile il vincolo fiduciario che costituisce il fondamento del rapporto di lavoro stesso, impedendone la prosecuzione, se pur con la doverosa precisazione che la gravità dell'inadempimento deve essere valutata in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all'art. 1455 c.c. e che non rileva la sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, occorrendo valutare soltanto se la lesione dell'elemento fiduciario su cui poggia la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, sicché l'adozione della sanzione espulsiva può essere giustificata.

Viene così in considerazione l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità, per il contesto di riferimento e per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, mettendo in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denotando una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, tanto da far presumere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio dell'interesse datoriale, arginabile soltanto con il recesso in tronco.

Se così è, la proporzionalità della sanzione, implicando un giudizio di adeguatezza eminentemente soggettivo, calibrato sulla gravità della colpa e sull'intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di ogni circostanza soggettiva ed oggettiva che risulti utile ad apprezzarne l'effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale, non può essere mai valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa è destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il fine teleologico della norma non è quello di prevedere una sorta di punizione esemplare, ma di bilanciare l'effettiva esplicazione delle esigenze di responsabilità del lavoratore e di realizzazione dell'interesse aziendale, in un'ottica di reale eticità del rapporto.

Ed allora, è proprio sulla scorta degli evidenziati canoni ermeneutici e dogmatici, che i giudici di legittimità hanno rilevato come, nella fattispecie in commento, la Corte territoriale, nel motivare il proprio convincimento in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, abbia erroneamente attribuito esclusivo rilievo all'inosservanza delle forme previste per conseguire l'autorizzazione alla fruizione del congedo, prescindendo del tutto, invece, dalla necessaria considerazione dell'effettività e dell'urgenza delle ragioni dell'assenza, da considerarsi al contrario imprescindibili, siccome destinate ad incidere sulla valutazione della consistenza oggettiva e della qualificazione soggettiva della condotta inadempiente, quali criteri fondamentali per la formulazione del giudizio di proporzionalità.

Ciò in quanto, come chiaramente sottolineato dalla Suprema Corte, l'inosservanza delle forme procedurali prescritte, sebbene in violazione di norme all'uopo predisposte, non appare di per sé sufficiente a legittimare il licenziamento per giusta causa in assenza di un giudizio inerente il rispetto del requisito della proporzionalità tra la condotta inadempiente del lavoratore e la grave sanzione espulsiva irrogata, a conferma dell'eminente funzione centrale del principio di cui all'art. 2106 c.c. e della sua veste di imprescindibile presupposto sostanziale, di fatto prevalente su eventuali e collaterali violazioni formali, da considerarsi, per ciò solo, non di pari grado sotto il profilo dell'autonoma rilevanza in sede disciplinare.

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