Compenso avvocati: chi è obbligato a corrisponderlo?

Francesco Bartolini
12 Aprile 2018

La Suprema Corte, nella pronuncia in esame, ha affrontato la questione inerente l'individuazione del soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, per l'opera professionale richiesta.
Massima

Obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l'opera professionale richiesta non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell'interesse di un terzo.

Il caso

Il ricorrente per cassazione è un avvocato che aveva ottenuto, con atto in data 30 novembre 2009, il conferimento di un incarico professionale di assistenza, consulenza, rappresentanza e difesa in tutta una serie di controversie giudiziali afferenti direttamente a costoro, individualmente considerati, nonché ad una società a responsabilità limitata e ad una impresa agricola facenti capo ai medesimi. Il detto avvocato chiese al tribunale di Varese la condanna dei due conferenti a corrispondergli la complessiva somma di euro 128.111,29, oltre agli oneri di legge, a titolo di compenso per l'opera prestata; il tribunale dichiarò i convenuti tenuti unicamente a versare all'attore gli onorari e il rimborso spese per l'attività difensiva svolta in tre procedimenti celebrati presso quell'ufficio giudiziario. L'appello dell'avvocato fu respinto sull'assunto della assoluta genericità del contratto 30 novembre 2009 e in quanto i mandati difensivi, per i rapporti in ordine ai quali la domanda era stata disattesa dal primo giudice, risultavano conferiti dalla società e dall'impresa agricola, e non dai convenuti.

Con il successivo ricorso il professionista soccombente ha proposto due motivi di impugnazione.

La questione

Un primo aspetto della materia condotta all'esame della Corte Suprema ha riguardato la congruità dell'apprezzamento dei giudici di merito relativo al contenuto dell'accordo di incarico professionale 30 novembre 2009. Si era escluso, per la sua genericità, che l'atto fosse idoneo a conferire un preciso mandato difensivo ad opera degli originari convenuti, anche perché, in relazione ai giudizi diversi da quelli per i quali erano dovuti all'avvocato istante i compensi, le procure alle liti erano state rilasciate da soggetti diversi da costoro, vale a dire, da una società e da una impresa agricola.

Un secondo aspetto concerne l'ambito dell'impugnabilità della pronuncia di merito sotto il profilo del vizio di motivazione, dopo le modifiche apportate all'art. 360 c.p.c. dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134. Sul punto, il ricorrente deduceva sia l'insufficienza della motivazione e sia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha escluso che la Corte d'appello si fosse discostata dal principio per cui obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, per l'opera professionale richiesta, non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, ben potendo essere anche colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell'interesse di un terzo: per tal modo instaurandosi un altro e distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l'opera professionale. Fatta salva questa regola di principio, nella specie risultava, in linea di fatto, accertato che l'atto concluso a suo tempo tra l'avvocato ricorrente e gli intimati aveva un contenuto inidoneo a conferire un preciso mandato al difensore; e che, in linea di diritto, la pronuncia del giudice di merito era da considerare corretta, posto che, in difetto di un conferimento di una procura alle liti per la rappresentanza e difesa in giudizio da parte dei due asseriti clienti, occorreva che vi fosse tra l'avvocato ricorrente e costoro un contratto di patrocinio, con il quale il professionista fosse stato appunto incaricato di svolgere la sua attività professionale. Circostanza, questa, esclusa dal giudice d'appello per la detta genericità del documento in oggetto.

Con riferimento ai pretesi vizi di motivazione, il Collegio ha osservato che il ricorrente sottoponeva al suo esame profili di merito, attinenti alla ricostruzione della volontà delle parti, come tali insindacabili in sede di legittimità. Con i motivi formulati si sollecitava una diversa interpretazione del contenuto negoziale dell'accordo tra le parti, senza che peraltro fosse denunciata la violazione dell'art. 1362 c.c. o fossero stati indicati i canoni interpretativi non osservati. Per sottrarsi al sindacato di legittimità, afferma la Corte nella sua ordinanza, l'interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l'unica possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sì che, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che era stata privilegiata l'altra.

Nel provvedimento la Corte di cassazione ribadisce che l'attuale disposto dell'art. 360 c.p.c. consente il gravame per vizio di motivazione esclusivamente nei casi di «mancanza assoluta della motivazione sotto l'aspetto materiale e grafico», di «motivazione apparente» o di «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili»; mentre l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Osservazioni

Nella sua pronuncia la Corte di cassazione ha ribadito un principio che le è servito per introdurre le argomentazioni concernenti la conferma della decisione di merito assertiva della mancata prova, ad opera dell'attore, di un conferimento di incarico difensivo da parte degli originari convenuti. Costoro erano parti in procedimenti nei quali comparivano a titolo personale mentre in altri avevano assunto veste di parte processuale la società a responsabilità limitata e l'impresa agricola che faceva capo alle loro persone. Il mandato alle liti era stato rilasciato dai due convenuti nei procedimenti per i quali i giudici di merito avevano affermato il loro obbligo di remunerare il difensore per l'opera prestata; era stato, per contro, rilasciato dalla società e dall'impresa nei giudizi in cui l'avvocato attore aveva chiesto, senza esito, la condanna dei detti convenuti, in proprio, a retribuirgli le attività compiute. Il principio in questione è enunciato in plurime decisioni del Giudice di legittimità conformi nell'affermare che obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l'opera prestata non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che aveva affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo era stato richiesto ed era stato svolto nell'interesse di un terzo (Cass. civ., sez. III, n. 19416/2016; Cass. civ., sez. I, n. 23626/2015). In proposito Cass. civ., 19416/2016 ha spiegato che, quando il patrocinio è chiesto ed è svolto nell'interesse di un terzo, si instaura un distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l'opera professionale. Pertanto si tratta di stabilire, di volta in volta e in concreto, se il mandato di patrocinio provenga dalla stessa parte rappresentata in giudizio, o invece da un altro soggetto che abbia perciò assunto a proprio carico l'obbligo del compenso. Ed invero, si è dalla Corte osservato, non è infrequente che una parte, la quale debba essere rappresentata e difesa in un giudizio destinato a svolgersi in una città diversa da quella della propria residenza, non conoscendo legali di quel foro, si rivolga ad un professionista della propria città, e che sia poi quest'ultimo a metterla in corrispondenza con un legale del foro ove deve aver luogo il processo, al quale la parte conferisce il mandato ad litem. Quando ciò avviene, risulta possibile che la parte abbia inteso intrattenere un rapporto di clientela unicamente con il professionista che già conosceva, ed abbia conferito al legale dell'altro foro soltanto la procura tecnicamente necessaria all'espletamento della rappresentanza giudiziaria: sicchè il mandato di patrocinio in favore di quest'ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal primo professionista, che ha individuato e contattato il legale del foro della causa e sul quale graverà perciò l'obbligo di corrispondere il compenso. Ma può anche verificarsi che la parte abbia inteso direttamente conferire ad entrambi i legali il mandato di patrocinio (oltre che la procura ad litem). Ed è evidente che, in siffatta ipotesi, è appunto la parte ad essere tenuta al pagamento del compenso professionale, e non invece il primo legale. L'accertare, caso per caso, in quale di tali diverse situazioni si verta integra, a detta della Corte, una questione di fatto, che come tale è rimessa alla valutazione del giudice di merito e, se decisa in base ad adeguata e logica motivazione, si sottrae ad ogni possibile vaglio in sede di legittimità.

Il principio così desunto dal rilievo da attribuire ai diversi ambiti, sostanziale e processuale, nei quali operano il contratto di patrocinio e la procura alle liti, non è che la sintesi di osservazioni confermate ripetutamente. Cass. civ., sez. II, n. 18450/2014, ad esempio, ebbe a ribadire che in tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura ad litem è un negozio unilaterale col quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto di patrocinio è un negozio bilaterale col quale il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera secondo lo schema del mandato. Nella pronuncia si aggiungeva che, al fine di riconoscere come dovuto il compenso per le prestazioni svolte dal difensore nel giudizio, occorre accertare, anche d'ufficio, il valido conferimento della procura, non potendo l'invalidità di questa essere superata dal contratto di patrocinio, che può riferirsi solo ad un'attività extragiudiziaria svolta dal professionista in favore del cliente sulla base di un rapporto interno di natura extraprocessuale. Da queste premesse si ricavano due corollari: obbligato al pagamento del compenso professionale dovuto ad un avvocato ben può essere anche persona diversa da quella che gli ha conferito la procura alle liti, ma tale principio non trova applicazione nel caso in cui oltre alla procura sia stato conferito anche un mandato (Cass. civ., sez. III, n. 9297/2015); il professionista che agisce per il conseguimento del compenso ad opera del terzo ha l'onere di provare il conferimento dell'incarico da parte del terzo, dovendosi, in difetto, presumere che il cliente sia colui che ha rilasciato la procura (Cass. civ., sez. III, n. 4959/2012).

Per inciso può notarsi, con riguardo alla vicenda di specie, che nel giudizio dinanzi alla Corte di appello la decisione era stata emanata in forma di sentenza in seguito alla trattazione orale, ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c.. Tale norma è riferita al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica; ma la giurisprudenza ha chiarito che le controversie relative alla liquidazione di spese, onorari e diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente devono essere trattate secondo le regole del rito sommario di cognizione anche laddove la domanda riguardi la sussistenza della pretesa (Cass. civ., sez. VI, n. 10679/2017). Al riguardo Cass. civ., sez. VI, n. 5843/2017 e Cass. civ., sez. VI, n. 4002/2016, hanno specificamente affermato che le controversie per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti dell'avvocato nei confronti del proprio cliente previste dall'art. 28 della l. n. 794/1942 - come risultante all'esito delle modifiche apportategli dall'art. 34 del d.lgs. n. 150/2011 e dell'abrogazione degli artt. 29 e 30 della medesima legge - devono essere trattate con la procedura prevista dall'art. 14 del menzionato d.lgs. n. 150/2011, anche ove la domanda riguardi l'an della pretesa, senza possibilità, per il giudice adito, di trasformare il rito sommario in ordinario, ovvero di dichiarare l'inammissibilità della domanda.

Con l'atto di impugnazione il professionista ricorrente deduceva anche l'asserito vizio motivazionale della pronuncia di appello sia sotto il profilo dell'insufficienza delle argomentazioni svolte e sia per l'asserita omessa considerazione di un fatto decisivo per la controversia. La doglianza è stata dichiarata infondata alla stregua del nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5, come risultante dalle modifiche apportate dal d.l. n. 83/2012. Come è noto, questo provvedimento ha mutato profondamente il regime dell'impugnabilità delle pronunce di merito per asseriti difetti nel percorso motivazionale, al punto di ridurne l'ambito ai casi di sostanziale mancanza della motivazione, con conseguente inosservanza di una precisa norma di legge che tale motivazione impone come requisito essenziale della sentenza. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez.Un., n. 8053/2014) hanno sintetizzato l'assetto normativo risultante dalle cennate modifiche con l'affermare che la riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione.

La riduzione dell'ambito di configurabilità del gravame per vizio motivazionale risulta palese ove si consideri che:

- nel vigore del testo normativo attuale non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza (non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) dell'art. 360 c.p.c.: Cass. civ., sez. VI, n. 13928/2015; Cass. civ., sez. VI, n. 21257/2014);

- la riforma ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive” (Cass. civ., sez. II, n. 14802/2017; Cass. civ., sez. V, n. 21152/2014);

- l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. civ., sez. III, n. 1297/2017; Cass. civ., sez. VI, n. 17500/2016);

- un omesso esame di un fatto - ai fini del nuovo art. 360, n. 5, c.p.c. - non può mai riguardare l'esatto contenuto di un documento, quando di questo si contesta la compiuta analisi in concreto eseguita dal giudicante, visto che un esatto contenuto non è un fatto storico e che quindi tale censura involge con tutta evidenza la congruità del complessivo risultato della valutazione e, quindi, dell'esame, operati dal giudice di appello, dello stesso oggetto del giudizio (Cass. civ., sez. III, n. 2514/2016).

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