Le preclusioni dinanzi al giudice di pace

Cesare Taraschi
17 Aprile 2018

Le disposizioni del codice di rito inerenti al procedimento davanti al giudice di pace (artt. 311-322 c.p.c.) differenziano tale giudizio dal modello tipico del processo di cognizione ordinario, atteso che il primo (in vigore dall'1 maggio 1995) si presenta notevolmente semplificato rispetto al secondo. Tuttavia, pur essendo il procedimento dinanzi al giudice di pace disciplinato secondo criteri di ius singulare rispetto al procedimento ordinario, il relativo rito è, in parte, caratterizzato dal medesimo regime di preclusioni che assiste il procedimento dinanzi al tribunale monocratico, le cui disposizioni sono pur sempre applicabili in mancanza di diversa disciplina, come si ricava dal richiamo contenuto nell'art. 311 c.p.c..
La fase introduttiva

In linea di principio, nei giudizi dinanzi al giudice di pace la costituzione delle parti avviene con la massima libertà di forme e non è individuabile alcun meccanismo preclusivo in riferimento agli atti introduttivi, mentre le preclusioni, come si vedrà in prosieguo, sono essenzialmente collegate allo svolgimento della prima udienza davanti al giudice, ex art. 320 c.p.c..

In particolare, per quanto attiene alla fase introduttiva del giudizio, la domanda si propone con citazione a comparire ad udienza fissa (con ricorso nei giudizi ex artt. 6 e 7d.lgs. n. 150/2011), ma può essere proposta anche oralmente (art. 316 c.p.c.). In quest'ultimo caso, l'attore si presenta al giudice di pace (in giorni prestabiliti), esponendo i fatti: di tale esposizione il giudice fa redigere un verbale, che deve, poi, essere notificato, a cura dell'attore, al convenuto, con l'invito a comparire ad udienza fissa (stabilita dal giudice); la pendenza della lite si ha, in tal caso, con la notifica del verbale. La mancata sottoscrizione da parte del cancelliere del processo verbale della domanda proposta oralmente non comporta l'inesistenza o la nullità dell'atto, ma una semplice irregolarità, non vertendosi in un'ipotesi di mancanza di un requisito di forma indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto (vocatio in ius), una volta che questo sia stato conseguito con la notifica del verbale alla controparte (Cass. civ., 21 aprile 1998, n. 4033).

La facoltà dell'attore di proporre domanda davanti al giudice di pace verbalmente (comunque di rarissima applicazione) è prevista in tutte le cause di competenza del giudice stesso, e non solo in quelle di valore non eccedente € 1.100. Nelle cause eccedenti tale valore, tuttavia, la parte non ha la possibilità di stare in giudizio personalmente: pertanto, se il valore della causa è superiore ad € 1.100, sono valide la domanda proposta oralmente e la successiva notifica del verbale al convenuto effettuate dalla parte personalmente, mentre non è valida la costituzione personale dell'attore davanti al giudice di pace, attività da compiersi a mezzo del difensore (Cass. civ., 19 luglio 2001, n. 9844).

Poichè l'opposizione a decreto ingiuntivo è devoluta dall'art. 645 c.p.c., in via funzionale e inderogabile, alla cognizione del giudice che ha adottato il decreto, l'opposizione al decreto ingiuntivo emesso dal giudice di pace, davanti al quale ai sensi dell'art. 316 c.p.c. la domanda si propone con citazione a comparire a udienza fissa, in materia esorbitante dalla sua competenza (ad es. locatizia, per il pagamento degli oneri accessori dell'immobile locato) deve essere proposta, per la dichiarazione della nullità del provvedimento monitorio, innanzi allo stesso giudice di pace con citazione e non mediante ricorso, previsto, in via generale, per la particolare materia trattata (art. 447-bis c.p.c.), la cui eventuale conversione in citazione, peraltro, è ammissibile, purchè siano rispettati i termini per la notifica stabiliti dall'art. 641 c.p.c., e quindi con notificazione del ricorso stesso alla controparte nel termine di giorni quaranta (Cass. civ., 16 novembre 2007, n. 23813; Cass. civ., 30 dicembre 2011, n. 30193). Si è, altresì, rilevato che, nel caso di tempestiva opposizione orale in udienza dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell'art. 316 c.p.c., l'omesso rispetto, da parte dell'ingiunto - opponente, del termine perentorio di cui all'art. 641 c.p.c. nell'assolvimento dell'obbligo di notifica all'ingiungente del verbale di udienza, dovuto ad ignoranza del relativo onere, non gli consente l'opposizione tardiva, ai sensi dell'art. 650 c.p.c., giacché l'ignoranza non configura nè una causa di forza maggiore, da intendere come forza esterna ostativa in assoluto, nè un caso fortuito, da intendere come fattore meramente oggettivo, avulso dalla volontà umana, non voluto, nè prevedibile o comunque evitabile (Cass. civ., 19 dicembre 2000, n. 15959).

A differenza di quanto avviene per i giudizi dinanzi al tribunale, per i quali la parte che iscrive la causa a ruolo deve contestualmente costituirsi, nei giudizi dinanzi al giudice di pace, caratterizzati da semplificazione di forme, gli artt. 316, 319 c.p.c. e 56 disp. att. c.p.c. delineano un sistema in cui la costituzione in giudizio dell'attore può anche non coincidere con l'iscrizione della causa a ruolo ed essere, invece, formalizzata nella prima udienza di trattazione. Pertanto, il deposito del fascicolo di parte, con l'atto di citazione e gli altri documenti, effettuato in cancelleria contestualmente all'iscrizione a ruolo, deve intendersi finalizzato a tale iscrizione, e la citazione non può ritenersi nulla per carenza di procura, se quest'ultima sia depositata nella prima udienza di trattazione, in tal modo perfezionandosi la costituzione in giudizio (Cass. civ., 24 ottobre 2008, n. 25727; Cass. civ., 9 settembre 2002, n. 13069). Inoltre, potendo l'attore costituirsi direttamente in udienza, non opera il principio secondo cui, nell'opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell'opponente va equiparata alla sua mancata costituzione (Cass. civ., 26 febbraio 2002, n. 2830).

Come già detto, davanti al giudice di pace le parti possono stare in giudizio senza il patrocinio di un difensore nelle cause di valore non superiore ad € 1.100 o se sono autorizzate dal giudice di pace (art. 82, commi 1 e 2, c.p.c., come modificato dal d.l. n. 212/2011, conv. in l. n. 10/2012, in vigore dal 23 dicembre 2011, che ha elevato il precedente importo di euro 516,46, applicabile ai giudizi instaurati anteriormente a tale data). Il diniego dell'autorizzazione alla parte a stare in giudizio di persona, al pari della sua concessione, non necessita di formule particolari ed è desumibile dallo svolgimento dell'attività processuale; l'autorizzazione può essere successiva all'instaurazione del giudizio e risultare anche implicitamente o per facta concludentia con efficacia sanante ex tunc del rapporto processuale, che, altrimenti, non è regolarmente costituito (Cass. civ., 10 marzo 2016, n. 4732). Di recente, si è ribadito che l'autorizzazione non esige il rigore formale della espressa scrittura, potendo risultare implicitamente dai verbali di causa e desumersi, in particolare, dalla circostanza che il giudice abbia provveduto su di una determinata istanza senza rilevarne l'avvenuta proposizione ad opera della parte personalmente (Cass. civ., 2 marzo 2018, n. 5013, secondo cui la violazione di tale ultima disposizione, che si realizza allorchè la parte stia in giudizio senza che ne ricorrano i presupposti, genera comunque una nullità relativa, non rilevabile d'ufficio).

Inoltre, in deroga al principio di cui all'art. 77 c.p.c., le parti possono nominare un rappresentante processuale, ossia possono conferire ad un terzo il potere di rappresentarle in giudizio, di transigere e di conciliare la lite (Cass. civ., Sez.Un., 8 febbraio 2001, n. 48). In tal caso, non è richiesto che la scrittura privata di conferimento dell'incarico sia munita di autenticazione (Cass. civ., 21 aprile 2005, n. 8339).

La domanda deve contenere solo l'indicazione del giudice, delle parti e dell'oggetto, oltre all'esposizione dei fatti (art. 318, comma 1, c.p.c.). A differenza della domanda proposta dinanzi al tribunale, quindi, non è necessaria l'esposizione dei motivi di diritto, né l'indicazione delle prove: la Corte costituzionale, tuttavia, con sent. 22 aprile 1997, n. 110, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 318, comma 1, c.p.c. nella parte in cui non prevede che l'atto introduttivo debba contenere l'indicazione della scrittura privata che l'attore offre in comunicazione. Non è necessario predisporre i fascicoli di parte, in quanto gli atti e i documenti delle parti possono essere inseriti anche nel fascicolo d'ufficio (art. 320, comma 5, c.p.c.).

Secondo alcuni, la domanda deve contenere anche l'indicazione dei documenti prodotti, in base a quanto deciso da Corte cost. n. 214/1991, che ha dichiarato parzialmente illegittimo l'art. 313 c.p.c. originario (Besso, Luiso, Tarzia). Secondo altri, invece, anche se il novellato art. 318 c.p.c. riproduce il contenuto del precedente art. 313 c.p.c., è necessaria una nuova pronuncia di incostituzionalità da parte della Consulta (Dittrich, Garbagnati, Mandrioli).

In ogni caso, in ottemperanza al principio della massima semplificazione delle forme del giudizio dinanzi al giudice di pace, è possibile integrare i fatti già dedotti e allegare fatti nuovi entro i limiti temporali previsti dall'art. 320 c.p.c.. Pertanto, l'atto di citazione deve ritenersi nullo solo nel caso in cui, per la mancata o incompleta esposizione dei fatti, non sia possibile l'instaurazione del contraddittorio (Cass.civ., 30 aprile 2005, n. 9025; Cass.civ., 13 aprile 2005, n. 7685).

Come la costante giurisprudenza conferma, non è prescritto in questo tipo di procedimento, tra gli elementi che l'atto introduttivo deve necessariamente contenere, l'avvertimento circa le conseguenze della costituzione tardiva del convenuto (art. 163, n. 7, c.p.c.), non operando le decadenze relative agli atti introduttivi (Cass. civ., 11 luglio 2003, n. 10909; Cass. civ., 2 giugno 1999, n. 5342).

I termini minimi di comparizione delle parti sono ridotti alla metà rispetto a quelli previsti dall'art. 163-bis c.p.c., ossia, in seguito alla riforma del 2005, sono pari a 45 giorni, se la citazione va notificata in Italia, ed a 75 giorni, se va notificata all'estero (art. 318, comma 2, c.p.c.). L'assegnazione alla parte nell'atto di citazione di un termine a comparire inferiore a quello previsto dall'art. 318 produce la nullità della citazione ex art. 164, comma 1, c.p.c., che va rilevata d'ufficio dal giudice, a pena di nullità della sentenza (Cass. civ., 5 maggio 2009, n. 10307; Cass. civ., 12 aprile 2006, n. 8523; Cass. civ., 9 agosto 2005, n. 16752, secondo cui tale nullità non è sanata per effetto dell'integrazione del termine conseguente al rinvio d'ufficio dell'udienza di comparizione per non esservi udienza nel giorno fissato nell'atto di citazione).

Se nel giorno fissato nella citazione il giudice non tiene udienza, la comparizione è rinviata automaticamente alla prima udienza successiva (art. 318, comma 3, c.p.c.), senza alcun obbligo di comunicazione da parte del cancelliere (Cass. civ., 25 gennaio 2000, n. 801).

Si ritiene che il rinvio operato all'art. 163-bis c.p.c. non sia limitato al comma 1, bensì esteso all'intero articolo, con la conseguente ammissibilità di una abbreviazione dei termini a comparire.

Poiché l'art. 319 c.p.c. consente alle parti di costituirsi in cancelleria o in udienza, garantendo loro libertà di forme, ben può il convenuto considerarsi esonerato dall'onere di presentare la comparsa di costituzione (Cass. civ., 29 marzo 2006, n. 7238).

In ogni caso, il convenuto che intenda chiamare in causa un terzo ha l'onere di costituirsi nel termine di rito e, a pena di decadenza, di farne esplicita richiesta nell'atto di costituzione, chiedendo, nel contempo, il differimento della prima udienza, a cui il predetto giudice deve dar luogo anche nel caso in cui lo stesso convenuto si costituisca direttamente alla prima udienzae si renda necessario provvedervi in base all'attività svolta dalle parti in tale udienza. Al di fuori di dette situazioni processuali al convenuto non è consentito di invocare la chiamata in causa di un terzo all'udienza successiva alla prima che eventualmente venga celebrata, ostandovi la struttura concentrata e tendenzialmente completa dell'udienza prevista dall'art. 320 c.p.c., tesa a compendiare le fasi di trattazione preliminare, istruttoria e conclusiva (Cass. civ., 10 aprile 2008, n. 9350; Cass. civ., 5 agosto 2005, n. 16578). In senso contrario, Cass. civ., 5 marzo 2002, n. 3156 ha sostenuto che la previsione della decadenza dalla possibilità di chiamare in causa un terzo se il convenuto non ne manifesti l'intenzione nella comparsa di risposta, non si applica nel procedimento davanti al giudice di pace, trattandosi di decadenza ricollegabile in tale procedimento soltanto alla prima udienza e non ad un termine o difesa anteriore (cfr. anche Cass. civ., 7 luglio 2005, n. 14314).

Anche nell'opposizione a decreto ingiuntivo innanzi al giudice di pace, l'opponente che intenda chiamare un terzo in causa, avendo posizione di convenuto, deve farne richiesta nell'atto di opposizione, a pena di decadenza, non potendo formulare l'istanza direttamente in prima udienza (Cass. civ., 14 maggio 2014, n. 10610).

Infine, l'intervento ad adiuvandum è possibile fino all'udienza di precisazione delle conclusioni e subisce limiti e preclusioni fin dalle udienze (la prima ed eventualmente la seconda) previste dall'art. 320, commi 3 e 4, c.p.c., in relazione all'art. 268, comma 2, c.p.c. (Giudice di pace Casamassima, 23 novembre 2002, A. g. circ. 03, 130).

La fase istruttoria

Nella prima udienza effettiva, il giudice di pace deve procedere all'interrogatorio libero delle parti personalmente, se presenti, o dei loro rappresentanti. La mancata comparizione personale delle parti non è sanzionabile in alcun modo, pur potendo il giudice ordinarne la comparizione ex art. 317, comma 1, c.p.c..

Il giudice deve, innanzitutto, tentare la conciliazione delle parti (art. 320, comma 1, c.p.c.). Se la conciliazione riesce, viene predisposto un verbale che, ai sensi dell'art. 185 c.p.c., costituisce titolo esecutivo (art. 320, comma 2, c.p.c.).

Comunque, l'omissione dell'obbligatorio tentativo di conciliazione delle parti non determina la nullità del giudizio, a meno che non abbia comportato in concreto pregiudizio del diritto di difesa (Cass.civ., 11 maggio 2010, n. 11411; Cass.civ., 8 ottobre 2004, n. 20074). Ovviamente tale tentativo di conciliazione non è dovuto quando sia stato precluso dalla ingiustificata assenza di una delle parti a tale udienza (Cass. civ., 12 marzo 1999, n. 2177).

Se la conciliazione non riesce, il giudice di pace prosegue il giudizio, e cioè:

  • chiede alle parti i chiarimenti necessari sulla base dei fatti allegati (art. 183, comma 4, c.p.c.);
  • indica le questioni rilevabili d'ufficio, delle quali ritiene opportuna la trattazione (art. 183, comma 4, c.p.c.);
  • invita le parti a precisare le domande (art. 183, comma 5, c.p.c.);
  • invita le parti ad allegare tutti i fatti costitutivi, modificativi, impeditivi, estintivi, su cui si fondano le eccezioni rilevabili ad istanza di parte (art. 320, comma 3, c.p.c.);
  • invita le parti a sollevare tutte le eccezioni non rilevabili d'ufficio, sia quelle di merito che quelle di rito (art. 320, comma 3, c.p.c.);
  • invita le parti ad indicare tutti i mezzi di prova (art. 320, comma 3, c.p.c.);
  • invita le parti a produrre tutti i documenti di cui intendono avvalersi (art. 320, comma 3, c.p.c.).

Va precisato, inoltre, che la prima udienza costituisce anche il termine entro il quale può essere proposta una domanda riconvenzionale da parte del convenuto (Cass.civ., 6 settembre 2017, n.20840; Cass. civ., 17 aprile 2013, n. 9359) e può essere richiesta la chiamata in causa di un terzo da parte dell'attore (argomentando ex art. 183, comma 5, c.p.c.). Ne consegue che al convenuto contumace, che si costituisce in seconda udienza, è preclusa la proposizione della domanda riconvenzionale, anche nel caso in cui il rinvio sia stato effettuato a norma dell'art. 181 c.p.c. (Cass. civ., 5 marzo 2004, n. 4529; Cass.civ., 8 agosto 2003, n. 11946), salvo che non sia stato rimesso in termini ex art. 294 c.p.c. (Cass. civ., 29 gennaio 2003, n. 1287), essendogli consentito svolgere unicamente attività difensive, tendenti alla mera contestazione delle pretese avversarie e delle prove addotte a sostegno delle medesime; l'inammissibilità della domanda riconvenzionale va rilevata d'ufficio, anche in caso di acquiescenza dell'altra parte (Cass. civ., 18 marzo 2008, n. 7270).

In ogni caso, deve essere concesso un rinvio all'attore, ove lo richieda, per poter replicare alla domanda riconvenzionale del convenuto (Cass. civ., 21 aprile 2016, n. 8108; Corte cost., 12 novembre 2002, n. 447).

In sostanza, dopo la prima udienza, in cui il giudice invita le parti a “precisare definitivamente i fatti”, non è più possibile proporre nuove domande o eccezioni (come quella di prescrizione: Cass. civ., 4 gennaio 2010, n. 18; Cass. civ., 3 dicembre 2007, n. 25185) e allegare a fondamento di esse nuovi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi, né tale preclusione è disponibile dal giudice di pace mediante un rinvio della prima udienza, per consentire tali attività oramai precluse, e parimenti l'omissione da parte del giudice del predetto formale invito non impedisce la verificazione della preclusione (Cass. civ., 16 maggio 2008, n. 12454). L'espressione “precisazione dei fatti” è comprensiva della possibilità di allegazione di fatti nuovi o di modificazione delle domande ed eccezioni già formulate (emendatio libelli); fino al momento di tale precisazione, l'attore può proporre nuove domande ed eccezioni solo se queste siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto (reconventio reconventionis), e può altresì chiedere di chiamare in causa un terzo, se il relativo interesse è sorto dalle difese del convenuto.

In ogni caso, la parte decade dalla facoltà di chiedere l'ammissione delle prove se non ne fa richiesta entro l'udienza di comparizione (Cass. civ., 15 dicembre 2003, n. 19186); analogamente, l'assenza della parte interessata alla prima udienza di trattazione si risolve nella decadenza dalla prova medesima (Cass. civ., 22 maggio 2006, n. 11973).

É, inoltre, preclusa alle parti la possibilità di produrre documenti in udienza successiva alla prima, che non sia stata fissata a norma del quarto comma dell'art. 320 c.p.c. (Cass. civ., 21 dicembre 2011, n. 27925; Cass. civ., 25 agosto 2006, n. 18498; Cass. civ., 13 maggio 2003, n. 7291), fattispecie peraltro non configurabile rispetto ad un presupposto di proponibilità della domanda, per il quale la documentazione deve essere prodotta già con l'atto introduttivo (Cass. civ., 3 agosto 2017, n. 19359, la quale ha confermato la sentenza di merito che, in accoglimento dell'eccezione del convenuto, aveva dichiarato improponibile, ai sensi dell'art. 145 d.lgs. n. 209/05, la domanda di risarcimento del danno derivante da un incidente stradale, per difetto di prova della messa in mora della società assicuratrice per la r.c.a., non essendo utilizzabile allo scopo la documentazione prodotta oltre la prima udienza tenuta dal giudice di pace). Infatti, l'art. 320, comma 3, c.p.c. nel prevedere che alla prima udienza le parti precisano definitivamente i fatti posti a base delle domande ed eccezioni, stabilisce un'implicita decadenza, giacché il rinvio ad un'udienza successiva è consentito dal comma quarto soltanto per ulteriori produzioni e richieste di prova (Cass. civ., 10 aprile 2008, n. 2350; Cass. civ., 5 marzo 2004, n. 4529). Ovviamente, il deposito tardivo di un documento non infirma la validità della sentenza, ove di esso il giudicante non abbia tenuto alcun conto (Cass.civ., 2 dicembre 1998, n. 12245).

Tuttavia, poiché tale preclusione concerne la facoltà di prova delle parti, e non si estende ai poteri istruttori che il giudice può esercitare d'ufficio, è liberamente utilizzabile dal giudice di pace il verbale redatto dalle autorità di polizia in occasione di un incidente stradale, richiesto ex art. 213 c.p.c. dal giudice stesso, anche se depositato soltanto nell'ultima udienza (Cass. civ., 13 maggio 2003, n. 7291). Al giudice di pace sono, altresì, ritenute applicabili le disposizioni dell'art. 281-ter c.p.c., sulla formulazione d'ufficio della prova testimoniale, e dell'art. 203 c.p.c., sulla prova delegata.

In applicazione dei predetti principi, secondo la casistica giurisprudenziale, non è, quindi, possibile:

  1. indicare il teste da escutere quando siano già maturate le preclusioni istruttorie (Cass. civ., 31 maggio 2010, n. 13250);
  2. rilevare d'ufficio, da parte del giudice di pace, l'incompetenza per materia, per valore e per territorio inderogabile (ossia nei casi previsti dall'art. 28 c.p.c.) oltre la prima udienza (Cass. civ., 23 aprile 2010, n. 9754; Cass. civ., 7 luglio 2004, n. 12476);
  3. produrre un documento unitamente alla comparsa conclusionale all'udienza di precisazione delle conclusioni (Cass. civ., 27 maggio 2005, n. 11274).

Inoltre, le parti, qualora siano state invitate, ai sensi dell'art. 320 c.p.c., a precisare le conclusioni di merito, devono formulare anche le richieste di prova testimoniale o di esibizione di documenti, pure se la causa sia stata rimessa in decisione per la definizione di una questione preliminare di merito o di una pregiudiziale, giacché in tali casi, ai sensi dell'art. 187 c.p.c., il giudice è investito del potere di decidere l'intera controversia, eventualmente allo stato delle risultanze esistenti in mancanza di conclusioni istruttorie (Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14596).

Analogamente, qualora le parti, mediante ripetuti rinvii da loro richiesti "per deliberare", siano state poste in grado di allegare i fatti e svolgere le proprie difese, deve escludersi che sussista violazione dell'art. 320 c.p.c., ancorché sia mancato un invito formale a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere. Pertanto ove il giudice, su richiesta congiunta delle parti, ritenendo la causa matura per la decisione, abbia fissato l'udienza di precisazione delle conclusioni e discussione, risulta tardiva la produzione di documenti in detta udienza (Cass. civ., 17 aprile 2002, n. 5482).

Occorre precisare che, in virtù del rinvio integrativo di cui all'art. 311 c.p.c., l'assunzione di prove, in mancanza di specifiche disposizioni, è regolata dalla disciplina dettata per l'istruzione probatoria nel procedimento innanzi al tribunale in composizione monocratica (v. art. 281-bis c.p.c.).

In virtù del principio di concentrazione, che caratterizza il giudizio in esame, il giudice può assumere le prove in prima udienza ed invitare le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa nella stessa udienza (Cass. civ., 12 aprile 2005, n. 7527). Da ciò deriva che, ove in tale udienza sia stata prodotta una scrittura privata e siano state altresì precisate le conclusioni (senza che nessuna delle parti abbia chiesto un rinvio per esame), il relativo disconoscimento (che deve avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione ex art. 215 c.p.c.) non può che ritenersi definitivamente precluso, in quanto esso avrebbe potuto trovar luogo soltanto in sede di precisazione delle conclusioni, costituendo tale momento processuale, di necessità (e segnatamente in assenza di un'udienza successiva), la prima risposta successiva alla produzione, utile alla contestazione de qua (Cass.civ., 17 settembre 2004, n. 18748). In ogni caso, sempre in ossequio al principio di concentrazione, è previsto che l'assunzione dei mezzi di prova avvenga non oltre la terza udienza successiva a quella in cui gli stessi sono stati ammessi o alla comunicazione dell'ordinanza di ammissione, se questa non è stata pronunciata in udienza (art. 60 disp. att. c.p.c.).

Le suindicate preclusioni processuali non sono derogabili nemmeno da parte del giudice di pace, che non può rinviare la prima udienza al fine di consentire alle parti l'espletamento di attività precluse, trovando tale sistema fondamento e ragione nell'esigenza di garantire la celerità e la concentrazione dei procedimenti civili, a tutela non solo dell'interesse del singolo ma anche di quello della collettività (Cass. civ., 29 marzo 2006, n. 7238).

Tuttavia, si è ritenuto che non violi i principi informatori del processo il giudice di pace che, all'udienza di rinvio fissata per la comparizione delle parti e l'esperimento del tentativo di conciliazione, disponga, anche in mancanza di istanza di parte al riguardo, un ulteriore rinvio per consentire alle parti l'articolazione di mezzi istruttori (Cass. civ., 8 marzo 2005, n. 5012).

La disciplina di cui all'art. 320 c.p.c. non comporta alcuna deroga al principio della revocabilità di tutte le ordinanze - salvo quelle espressamente dichiarate non revocabili - da parte del giudice che le ha emesse; ne consegue che l'ordinanza istruttoria relativa all'ammissione delle prove non rientra tra le ordinanze non revocabili ai sensi del terzo comma dell'art. 177 c.p.c., anche qualora sia emessa nel corso di un procedimento davanti al giudice di pace, posto che nessuna delle norme che disciplinano tale procedimento è in contrasto con il predetto principio, né quest'ultimo è logicamente o giuridicamente incompatibile con il giudizio che si svolge dinanzi al predetto giudice (Cass. civ., 10 dicembre 2009, n. 25825).

Il Giudice di pace può, altresì, ordinare la chiamata in causa del terzo ex art. 107c.p.c. in ogni momento del giudizio di primo grado, senza limiti di tempo, e quindi anche dopo l'esaurimento dell'istruttoria orale, non essendo al riguardo vincolato dalle preclusioni in cui siano eventualmente incorse le parti originarie per effetto dell'art. 320 c.p.c. (Cass.civ., 19 gennaio 2004, n. 707).

In definitiva, il legislatore sembra aver previsto un regime preclusivo anche più severo di quello stabilito per il processo innanzi al tribunale, in quanto è imposto l'onere di completare entro la prima udienza la proposizione delle domande, l'allegazione dei fatti, la produzione dei documenti e le richieste istruttorie.

La fase decisoria

Quando la causa è matura per la decisione, il giudice di pace deve invitare le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. Entro 15 giorni (termine ordinatorio) dall'udienza di discussione, la sentenza deve essere depositata in cancelleria (art. 321 c.p.c.). Si è in proposito precisato che la violazione del termine di quindici giorni per il deposito della sentenza non determina nullità della stessa, né è ipotizzabile il potere della Corte di cassazione, investita del ricorso avverso tale pronuncia, di promuovere procedimento disciplinare a carico dell'estensore della decisione stessa (Cass. civ., 14 dicembre 2004, n. 23240).

La fase decisoria innanzi al giudice di pace, dunque, prevede, da un lato, l'oralità della discussione, dall'altro la non immediatezza della pronuncia (come nel processo innanzi al tribunale).

Nel silenzio del legislatore, nulla vieta al giudice di pace di differire la discussione ad altra udienza (successiva a quella di precisazione delle conclusioni) e di autorizzare le parti a discutere la causa sulla base di difese scritte, quando ne ravvisi l'opportunità.

In ogni caso, non trova applicazione la procedura dello scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica di cui all'art. 190 c.p.c., in attuazione del suddetto principio dell'oralità e della concentrazione, sebbene il giudice possa autorizzare le parti al deposito di memorie conclusionali (Cass.civ., 31 luglio 2006, n.17444, in ordine alla mancata concessione del termine per il deposito di tali memorie). La concessione a entrambe le parti, da parte del giudice di pace, di un termine di dieci giorni, a decorrere da quello di precisazione delle conclusioni, per il deposito di note illustrative, non determina, di per sé, alcuna violazione del contraddittorio sanzionata da nullità (Cass. civ., 1 agosto 2006, n. 17482).

Il giudice di pace, pur non essendo obbligato a fissare una particolare udienza per la precisazione delle conclusioni, deve, però, pur sempre consentire alle parti tale imprescindibile attività processuale, e non può, a pena di nullità per violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., pronunciare sentenza subito dopo essersi riservato di provvedere sulle deduzioni delle medesime, senza averle previamente invitate a precisare, nella stessa o in una successiva udienza, le rispettive conclusioni (Cass. civ., 23 luglio 2002, n. 10753).

Invero, la decisione della causa che non sia stata preceduta dalla precisazione delle conclusioni definitive, istruttorie e di merito, né dal semplice invito a provvedervi rivolto dal giudice alle parti, comporta la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa; tale nullità, peraltro, non rientrando tra quelle tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c. che impongono la rimessione della causa al giudice di primo grado, comporta che, in caso di omessa pronuncia del giudice di appello sulla relativa questione, ritualmente sollevata con l'atto d'impugnazione, la causa debba essere rimessa al giudice di secondo grado, il quale deve decidere nel merito previa rinnovazione degli atti nulli, cioè ammettendo le parti a svolgere tutte quelle attività che, in conseguenza della nullità, sono state loro precluse (Cass. civ., 23 dicembre 2011, n. 28681; Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 5225). É sufficiente, però, che nel verbale d'udienza siano effettivamente riportate le conclusioni, a nulla rilevando l'omessa trascrizione a verbale dell'invito del giudice a precisarle (Cass.civ., 2 febbraio 2004, n. 1812).

Al termine eventualmente concesso per il deposito di note conclusive e del fascicolo di parte si applica la sospensione feriale dei termini processuali (Cass. civ., 1 dicembre 2003, n. 18303).

Se è proposta querela di falso, il giudice di pace, quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione, sospende il giudizio e rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento, attesa la competenza funzionale di quest'ultimo in composizione collegiale. Può anche disporre a norma dell'art. 225, comma 2, c.p.c. (art. 313 c.p.c.). Spetta, comunque, al giudice di pace, dinanzi al quale la querela sia proposta, anche se privo della competenza a conoscerne, autorizzare o meno la presentazione della querela sulla base del motivato esame delle condizioni di ammissibilità della stessa, alla stregua del disposto degli artt. 221 e 222 c.p.c. (Cass. civ., 28 settembre 2006, n. 21062; Cass. civ., 8 marzo 2005, n. 5040). Il provvedimento di rimessione stabilirà il termine di riassunzione della causa davanti al tribunale (art. 65 disp. att. c.p.c.). Ovviamente, il procedimento dinanzi al giudice di pace, pur a seguito della rimessione della querela al tribunale, potrà proseguire qualora vi siano altre domande che possono essere decise indipendentemente dal documento impugnato.

Va precisato che il giudice di pace decide secondo equità le cause di valore non superiore a € 1.100, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi ai sensi dell'art. 1342 c.c. (art. 113, comma 2, c.p.c.). I contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 c.c. sono i cosiddetti contratti di massa, ossia quelli conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari. La ragione della loro esclusione dal giudizio d'equità è stata l'esigenza di assicurare uniformità nelle pronunce relative ad identiche fattispecie contrattuali, uniformità che potrebbe essere compromessa dalla discrezionalità connaturata al tipo di giudizio. Dunque, onde evitare pericolose disparità di trattamento, le controversie derivanti dai contratti di massa devono essere decise secondo diritto, anche se di valore non superiore a 1.100 euro.

Il limite di 1.100 euro è stato elevato a 2.500 euro dal d.lgs. n. 116/17, con cui è stata attuata la riforma della magistratura onoraria. Ma tale ampliamento della giurisdizione equitativa del giudice di pace entrerà in vigore il 31 ottobre 2021.

Inoltre, nel caso in cui siano proposte al giudice di pace domanda principale di valore non eccedente i limiti previsti per la decisione secondo equità e domanda riconvenzionale, connessa con quella principale a norma dell'art. 36 c.p.c., la quale, pur rientrando nella competenza del giudice di pace, superi il limite di valore fissato dalla legge per le pronunce di equità, l'intero giudizio deve essere deciso secondo diritto, con la conseguenza che il mezzo di impugnazione della sentenza è, non già il ricorso per cassazione, ma l'appello (Cass. civ., 17 gennaio 2007, n. 967).