Neonato perde la capacità di lavoro: criteri di capitalizzazione del danno patrimoniale
19 Aprile 2018
IL CASO Un bambino nasce con un grave ritardo neuromotorio dovuto ad ipossia cerebrale durante il parto, cagionato dalla colpevole condotta dei sanitari che non avevano prontamente eseguito il parto cesareo nonostante un evidente quadro di sofferenza fetale, somministrando anzi alla paziente dosi eccessive di ossitocina. I genitori del bimbo convengono dinnanzi al Tribunale di Napoli, l'Università che gestiva il Policlinico Universitario per ottenere il risarcimento dei danni patiti da loro, dal bimbo e dai suoi fratelli, nati successivamente. La domanda viene accolta in primo grado; durante il giudizio d'appello, da un lato viene aumentata la misura del danno patrimoniale subito dai genitori e di quello non patrimoniale patito dal minore, dall'altro viene invece negato il risarcimento ai fratelli perché il fatto di essere nati dopo impediva la sussistenza del nesso causale tra errore dei sanitari e danno lamentato. I genitori del minore propongono ricorso principale per la cassazione della sentenza, e l'Università ricorso incidentale.
NESSUN DANNO RIFLESSO La Suprema Corte conferma che per i fratelli nati successivamente all'evento dannoso non è configurabile alcun danno, sia per carenza di causalità materiale, che per carenza di causalità giuridica. La Cassazione ribadisce che «la scelta di generare o non generare figli non è conseguenza necessitata di alcun atto o fatto altrui» e che non è possibile rinvenire nella fattispecie concreta alcun profilo del cd “danno riflesso” o “danno da rimbalzo”, che, ricorda la Corte, sono quelli che «costituiscono una conseguenza indefettibile dell'illecito, che attingono in modo immediato persone diverse dalla vittima primaria dell'illecito e che attingono persone collegate da un legame significativo già esistente con il soggetto danneggiato in via primaria» (Cass. civ., Sez. Un., 1 luglio 2002 n. 9556).
DANNO DA SOPPRESSIONE DELLA CAPACITÀ LAVORATIVA La Corte accoglie invece il secondo motivo del ricorso incidentale, ove l'Università denunciava la violazione dell'art. 1223 c.c. per avere la Corte d'appello sovrastimato il danno da soppressione della capacità lavorativa della vittima primaria, liquidandolo sotto forma di capitale, ottenuto capitalizzando il reddito annuo che la vittima, se sana, avrebbe verosimilmente guadagnato, senza attenersi però al coefficiente corrispondente all'età che la vittima avrebbe avuto al momento del suo ingresso nel mondo del lavoro.
SCARTO TEMPORALE La Cassazione afferma che quando la capacità di lavoro viene persa da un soggetto che non ha ancora raggiunto la possibilità di percepire un reddito da lavoro, si verifica uno scarto temporale tra il momento in cui si verifica la causa del danno (ossia la perdita della capacità di lavoro) e quello in cui si manifesta il suo effetto (ossia la perdita del reddito di lavoro), che comincerà a prodursi allorquando la vittima, pur avendo raggiunto età idonea per lavorare, dovrà rinunciare all'impiego, perdendo quindi il reddito da esso ricavabile.
CAPITALIZZAZIONE DEL DANNO La Suprema Corte indica poi i due metodi che possono essere alternativamente utilizzati per operare correttamente e non incorrere nella violazione dell'art. 1223 c.c. che si avrebbe in caso di attribuzione di una somma di denaro a titolo di redditi mai perduti: - Capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all'età della vittima al momento del danno, e poi ridurre il risultato moltiplicandolo per il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione; - Capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all'età della vittima al momento in cui avrebbe iniziato presumibilmente a lavorare.
PRINCIPIO DI DIRITTO La Corte cassa dunque la sentenza impugnata e rinvia gli atti alla Corte d'appello che dovrà decidere attenendosi al seguente principio di diritto: «(A) Il danno da perdita della capacità di lavoro deve essere liquidato:
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