Illegittima la norma sulla compensazione delle spese di lite: si ritorna al passato?
20 Aprile 2018
Massima
Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 92, comma 2, c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre quelle nominativamente indicate.
Il caso
Un socio lavoratore di una società cooperativa ha promosso un giudizio civile per ottenere la condanna di quest'ultima al pagamento di differenze di compenso per l'attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili; in via subordinata, lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un'integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e di malattia. Il tribunale di Torino, pronunciandosi nell'instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese di lite. In tale sede, ha sollevato d'ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 92, comma 2, c.p.c., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un'eccessiva remora a far valere i propri diritti in giudizio. Analoga questione è stata sollevata dal tribunale di Reggio Emilia, nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l'impugnativa di un licenziamento, promossa con il cd. “rito Fornero” da una lavoratrice nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento, ma anche di altre società, sull'asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si concludeva con un'ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite, il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest'ultima ha resistito all'opposizione eccependo, tra l'altro, l'illegittimità costituzionale dell'art. 92, comma 2, c.p.c.; eccezione che il giudice dell'opposizione ha accolto promuovendo l'incidente di legittimità costituzionale. La questione
La questione che il Giudice delle Leggi si trova a dover scrutinare è quella relativa alla legittimità costituzionale della norma di cui all'art. 92, comma 2, c.p.c. (nel testo modificato dall'art. 13, comma 1, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132 conv. con modif. nella l. 10 novembre 2014, n. 162). La disposizione prevede che il giudice, se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti, può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. I dubbi di legittimità costituzionale si incentrano sulla mancata previsione, in caso di soccombenza totale, del potere del giudice di compensare le spese di lite tra le parti anche in casi ulteriori rispetto a quelli ivi previsti. Le soluzioni giuridiche
La Consulta giunge alla conclusione che la norma è affetta da vizi di costituzionalità, ponendosi in contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.), con il canone del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.). A tale approdo la Corte costituzionale perviene dopo un'ampia premessa sulla ratio della regolamentazione delle spese processuali nell'ambito del giudizio. Essa, invero, risponde alla regola generale victus victori fissata dall'art. 91, comma 1, c.p.c. nella parte in cui – ripetendo l'analoga prescrizione dell'art. 370, comma 1, del codice di procedura civile del 1865 − prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa». Quindi, la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L'alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. In proposito, si è affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l'attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento» (Corte cost., 10 aprile 1987, n. 135). La Corte sottolinea, peraltro, che «l'istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile» (Corte cost., 24 novembre 1982, n. 196): come è consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo comma dell'art. 92 c.p.c. (disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità del legislatore modulare l'applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite. Ampia, quindi, è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze 28 novembre 2012, n. 270; 21 dicembre 2007, n. 446; 9 maggio 2003, n. 158), «non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese» (Corte cost., 2 aprile 1999, n. 117).
La disposizione censurata è stata oggetto di diversi interventi del legislatore che sono andati tutti nel senso di restringere il più possibile l'ambito di applicazione dell'istituto della compensazione delle spese di lite. Indicativo di tale disegno è quanto è scritto nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del d.l. n. 132/2014: «Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione». L'art. 92, comma 2 c.p.c., nella formulazione sottoposta a vaglio di costituzionalità, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento, ai fini della compensazione, a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca: da un lato, il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti»; dall'altro, «l'assoluta novità della questione trattata». Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative – osserva la Consulta – violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. La prevista ipotesi del «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito – sta, appunto, nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite, senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia, senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell'Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia. Ciò può predicarsi anche per l'altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l'«assoluta novità della questione» – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni». Si ha, quindi, che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti. La Corte, quindi, conclude dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 92, comma 2, c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. Osservazioni
Quali sono le indicazioni che, a tutta prima, l'operatore del diritto potrebbe trarre dalla lettura della pronunzia in rassegna? Il ripetuto richiamo alla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» quale criterio di compensazione delle spese di lite parrebbe volere significare un ritorno alla disciplina prevista prima della riforma del 2014. Con la conseguenza che il giudice potrebbe compensare le spese, motivando, di volta in volta, la ricorrenza di siffatte, non meglio specificate «gravi ed eccezionali ragioni». E, tuttavia, non è da escludersi che, nella prassi, si possa affermare un'applicazione più restrittiva dell'istituto, sulla scorta di alcuni passaggi argomentativi contenuti nella sentenza in rassegna. Si è visto, infatti, che il Giudice delle leggi ha, sostanzialmente, ricondotto la fattispecie del «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» nell'ambito di categorie più generali, quali il «sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite» ovvero il «sopravvenuto mutamento dei termini della controversia». Altrettanto dicasi con riguardo alla «assoluta novità della questione», che è stata considerata come fattispecie particolare rientrante in quella più ampia rappresentata dall'«assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite». Analizzando, poi, i profili di incostituzionalità della norma per violazione del canone del giusto processo (art. 111, comma 1, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1, Cost.), la Corte ha fatto riferimento a «qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile», in presenza della quale la rigida applicazione della condanna alle spese in caso di soccombenza potrebbe costituire una remora ingiustificata alla tutela giurisdizionale. Ebbene, una lettura in controluce di questa importante sentenza potrebbe, alla fine, avallare un'interpretazione del dato normativo, nel senso di ri(con)durre la risuscitata clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» ai soli casi in cui di a) «sopravvenuto mutamento dei termini della controversia»; b) «assoluta novità della questione», c) «situazione del tutto imprevista ed imprevedibile». Con il risultato, paradossale, di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla parta.
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