Mutamento del rito

Cesare Taraschi
24 Aprile 2018

Il mutamento del rito è lo strumento processuale con il quale il giudice può rimediare all'errore commesso da una parte nell'individuazione del rito applicabile al rapporto dedotto in giudizio e ha la finalità di consentire la conservazione degli atti già compiuti, salvaguardando il diritto delle parti di difendersi e l'esigenza che il processo giunga ad una decisione sul merito.
Inquadramento

Il mutamento del rito è lo strumento processuale con il quale il giudice può rimediare all'errore commesso da una parte nell'individuazione del rito applicabile al rapporto dedotto in giudizio, tenendo conto, a tal fine, della situazione sostanziale controversa, per come prospettata nella domanda e non per l'effettivo modo di essere della stessa, come potrebbe emergere al momento della decisione di merito (Cass. civ., n. 5544/96).

In evidenza

Il mutamento del rito ha la finalità di consentire la conservazione degli atti già compiuti, salvaguardando il diritto delle parti di difendersi e l'esigenza che il processo giunga ad una decisione sul merito, ma presuppone l'esistenza di due procedimenti a cognizione piena (ad es., rito ordinario e rito del lavoro), tra i quali soltanto è possibile un fenomeno di conversione dell'uno nell'altro (Cass. civ., n. 16202/13).

Secondo la tesi prevalente, il rito non è requisito di validità della domanda giudiziale, sicchè l'errore in ordine allo stesso non determina la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma, ma comporta solo l'adozione, d'ufficio, di un provvedimento ordinatorio di mutamento del rito, che consenta al processo di pervenire ad una decisione di merito secondo il rito prescritto dalla legge (è da precisare che in questa sede si sta parlando di atti compiuti secondo le forme di un rito poi rivelatosi errato, non della violazione di singole norme sul rito: in questo secondo caso, la violazione non darà luogo a nullità in base all'applicazione del principio generale del raggiungimento dello scopo di cui all'art. 156 c.p.c.).

Le norme in tema di mutamento del rito di più risalente applicazione sono contenute negli artt. 426 e 427 c.p.c., le quali, nel dettare le modalità per il passaggio dal rito ordinario a quello del lavoro e viceversa, escludono anzitutto implicitamente, anche per ragioni di economia processuale, che il processo debba chiudersi senza decisione nel merito per il solo fatto di essere stato iniziato secondo un rito errato, ossia che l'esattezza del rito costituisca un presupposto processuale (Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2013, p. 26; Balena, Le conseguenze dell'errore sul modello formale dell'atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle sezioni unite), in Giusto proc. civ., 2011, pp. 658 ss.; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, p. 223 ss.).

Passaggio dal rito ordinario al rito speciale

L'art. 426 c.p.c. disciplina l'ipotesi della controversia di lavoro erroneamente proposta nelle forme del giudizio ordinario. Tale norma, ai sensi dell'art. 447-bis, comma 1, c.p.c., si applica, in quanto compatibile, anche alle controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e a quelle di affitto di aziende. Qualora, con il medesimo atto, siano introdotte domande diverse, non tutte assoggettate al rito del lavoro, sovviene l'art. 40 c.p.c., per cui in caso di cumulo di cause connesse prevale il rito speciale quando una di esse rientri tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 c.p.c. (Cass. civ., n. 24037/15, secondo cui il ricorso all'art. 40 c.p.c. non può comunque sanare ex post una decadenza già verificatasi per effetto della scelta del rito sbagliato, posto che l'art. 156 c.p.c. – che si riferisce esclusivamente all'inosservanza di “forme” in senso stretto – non si applica alle decadenze processuali).

La regola prevista dall'art. 426 c.p.c. non riguarda, comunque, questioni di competenza, ma la semplice esigenza che nelle controversie de quibus si applichi il rito speciale. Infatti, nel prevedere il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, l'art. 426 c.p.c. contempla l'ipotesi in cui una causa relativa ad uno dei rapporti di cui all'art. 409 c.p.c. (o ai rapporti locativi, ex art. 447-bisc.p.c.) sia stata sì proposta davanti al tribunale (perché, se altrimenti proposta davanti al giudice di pace, si verificherebbe un'ipotesi d'incompetenza per materia), ma nelle forme ordinarie (Mandrioli-Carratta). É questo, ad es., il caso dell'opposizione a decreto ingiuntivo per un credito inerente ad un rapporto di locazione di immobile urbano, introdotta con citazione anziché con ricorso nelle forme del rito locatizio. In tale ipotesi, la citazione, perché possa considerarsi tempestiva (ed evitare che il decreto divenga definitivo), deve essere depositata (ossia iscritta a ruolo), e non solo notificata, nel termine di cui all'art. 641 c.p.c. (Cass. civ., n. 27343/16, Cass. civ., n. 797/13, Cass. civ., n. 8014/09; secondo Cass. civ., n. 7263/00, il deposito della velina dell'atto di opposizione ad ingiunzione di pagamento di canoni locativi, proposto con citazione anziché con ricorso, non equivale a deposito della citazione e, dunque, non impedisce la decadenza di cui si discorre); in caso di citazione tardivamente depositata, l'opposizione è inammissibile, senza che tale vizio possa essere sanato dalla conversione nel rito locatizio (Trib. Bari, 10 marzo 2016; Trib. Parma, 27 marzo 2015; in senso difforme, Trib. Roma, 20 gennaio 2015, che ha ritenuto tempestiva l'opposizione, richiamando il principio di cui all'art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150/2011, secondo cui, in caso di mutamento del rito, «gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento»), e ciò anche se il decreto non contenga alcuna indicazione sulla specialità del rito, non vigendo il principio dell'affidamento in materia processuale (Cass. civ., n. 8/98, nonché Corte cost., ord., n. 152/00). Nel caso opposto, in cui il decreto ingiuntivo sia stato emesso sulla base di un contratto non assoggettato al rito locatizio, l'opposizione va proposta con citazione e, se erroneamente proposta con ricorso, la conversione di quest'ultimo in citazione è ammissibile purchè sia rispettato il termine per la notifica di cui all'art. 641 c.p.c. (Cass. civ., n. 30193/11, Cass. civ., n. 23813/07).

L'erronea applicazione del rito ordinario è rilevata anche d'ufficio dal giudice, il quale fissa con ordinanza l'udienza di discussione e il termine perentorio (la cui entità è determinata discrezionalmente dal giudice: Cass. civ., n. 2657/84), antecedente all'udienza, per l'integrazione degli atti difensivi. L'ordinanza di mutamento del rito non è soggetta a preclusioni e può essere emessa in qualunque stato del procedimento (anche dopo l'esaurimento della fase istruttoria o in fase di decisione), rimanendo validi gli atti compiuti, salvo che la mancata adozione del rito speciale non abbia causato un concreto pregiudizio alle parti riguardo al regime delle prove ed all'esercizio del diritto di difesa (Cass. civ., n. 4620/99). In dottrina si afferma l'esigenza che l'ordinanza in esame venga emessa, però, previa instaurazione del contraddittorio e audizione delle parti, sicchè si esclude l'emanazione della stessa mediante la lettura della sentenza in udienza, dovendosi comunque fissare nuova udienza di discussione (Tarzia-Dittrich, Andrioli, Proto Pisani; contra Cass. civ., n. 5929/85).

Se l'ufficio non è diviso in sezioni, il giudice, ravvisata l'erroneità del rito prescelto, deve limitarsi ad applicare il rito del lavoro o locatizio; altrimenti, è tenuto a disporre il cambiamento del rito e la conseguente rimessione al capo dell'ufficio per la relativa assegnazione al giudice del lavoro (Cass. civ., n. 3617/13, secondo cui, se il tribunale abbia impropriamente dichiarato la propria incompetenza per essere competente il giudice del lavoro presso lo stesso ufficio, è inammissibile il regolamento di competenza proposto avverso l'indicata pronuncia).

É controverso in dottrina se l'ordinanza in esame possa essere revocata, mentre la giurisprudenza è pressochè unanime nel ritenere che la stessa costituisca un atto interno di natura ordinatoria che non involge questioni di competenza e che, in quanto ritrattabile ed inidoneo a pregiudicare la decisione della causa, non è suscettibile di impugnazione né di regolamento di competenza (Cass. civ., n. 15751/02, Cass. civ., n. 5174/01); tale ordinanza ha effetto imperativo per tutto l'ulteriore corso del procedimento e non ne è ammessa la revoca implicita, sicchè è nulla la sentenza resa con le forme del rito ordinario (Cass. civ., n. 9014/09).

A differenza dell'art. 427 c.p.c., l'art. 426 c.p.c. nulla prevede riguardo alla sorte delle prove raccolte nella fase processuale antecedente la trasformazione del rito: si ritiene che esse conservino valore (Cass. civ., n. 5334/84) e che in base ad esse il giudice possa dare lettura della sentenza anche nella stessa udienza, se ritiene matura la causa per la decisione (Tarzia-Dittrich, Verde-Olivieri, Vaccarella). In ogni caso, la validità formale degli atti compiuti prima della conversione dev'essere valutata in base al rito ordinario applicato nel momento in cui essi sono stati posti in essere (Cass. civ., n. 27519/14).

Restano ferme, inoltre, le preclusioni e decadenze già verificatesi (Cass. civ., n. 10569/17), nonchè gli effetti della litispendenza (Tarzia-Dittrich, Verde-Olivieri).

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che, nonostante la mancanza di un'esplicita previsione, l'ordinanza ex art. 426 c.p.c. deve essere comunicata alla parte contumace, a pena di nullità della sentenza e senza possibilità di rimettere la causa al giudice di primo grado, in quanto fattispecie non prevista dall'art. 354 c.p.c. (Cass. civ., n. 24341/15, Cass. civ., n. 26611/08). La mancata comunicazione può essere fatta valere solo dal contumace, successivamente costituitosi o in sede di appello, e non anche dall'altra parte (Cass. civ., n. 26611/08, Cass. civ., n. 4481/83).

Con l'ordinanza in esame il giudice deve assegnare alle parti un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti, al fine di soddisfare le esigenze di completamento delle difese poste dagli artt. 414 e 416 c.p.c.. Secondo alcuni la perentorietà del termine riguarda solo la decadenza relativa alle eventuali domande nuove e ai nuovi mezzi di prova, ed il suo mancato rispetto non dà luogo ad estinzione del processo (Mandrioli-Carratta). La prevalente giurisprudenza di merito, inoltre, assegna un termine differenziato per attore e convenuto, per consentire la dialettica dell'integrazione delle domande attoree, da una parte, e la successiva replica del convenuto, dall'altra. La mancata assegnazione di detto termine può dar luogo a vizi del procedimento, sino alla nullità della sentenza, ma solo quando essa abbia comportato un concreto e determinato pregiudizio al diritto di difesa (Cass. civ., n. 14186/17, Cass. civ., n. 1448/15), diversamente difettando l'interesse ad agire con l'impugnazione, con la sua conseguente inammissibilità (Cass. civ., n. 22325/14).

In ordine al possibile contenuto delle memorie integrative, si è rilevato che occorre distinguere l'ipotesi di erronea individuazione del rito da quella di trasformazione del procedimento speciale di convalida di sfratto a seguito di opposizione. In questo secondo caso, oltre al fatto di restare l'attore vincolato alla domanda introdotta con la citazione per convalida (ma tale conclusione è controversa, come si dirà in prosieguo), le parti non incorrerebbero in apprezzabili preclusioni, per cui l'attore ben potrebbe effettuare produzioni documentali e deduzioni istruttorie, mentre il convenuto potrebbe proporre domande riconvenzionali, oltre a documenti o istanze istruttorie. Diversamente, nel caso della trasformazione del rito da ordinario in locatizio per erronea individuazione del rito da parte dell'attore, entrambe le parti andrebbero soggette alle decadenze nelle quali siano incorse nella causa secondo il rito ordinario (Cass. civ., n. 8256/87); in particolare, il convenuto non potrà proporre domande riconvenzionali, né eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, non tempestivamente proposte nella fase a rito ordinario, e non potrà chiedere di chiamare in causa un terzo, essendo pacifico che l'integrazione degli atti introduttivi, ammessa dall'art. 426, non possa consentire il superamento di preclusioni e decadenze eventualmente già maturate secondo il rito ordinario (Cass. civ., n. 10569/17).

INAMMISSIBILITA' O MUTAMENTO DEL RITO: ORIENTAMENTI A CONFRONTO SUL RITO FORNERO

Nel procedimento disciplinato dal cd. Rito Fornero non possono essere proposte domande fondate su fatti costitutivi diversi rispetto a quelli rilevanti ai fini della decisione sulla legittimità del licenziamento ex art. 18 l. n. 300/1970; esse devono quindi essere dichiarate improponibili, senza che si possa provvedere alla separazioni dei procedimenti ed al mutamento del rito.

Trib. Roma, 9 dicembre 2013

Laddove sia proposta la domanda con il cd. Rito Fornero, ma l'oggetto del contendere non sia in via immediata «l'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18, l. n. 300/1970», come previsto dall'art. 1 comma 47 l. n. 92/2012, il Giudice propone il mutamento del rito assegnando alle parti dei termini per l'integrazione dei rispettivi atti.

Trib. Palermo, 15 gennaio 2013

Con il ricorso ex art. 1, commi 47 ss., l. n. 92/2012, non possono essere proposte domande diverse da quelle di impugnativa del licenziamento e di tutela ex art. 18 Stat. Lav. novellato (comma 48), salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. Nel caso di errore nella scelta del rito che emerga sin dall'atto introduttivo del giudizio deve, pertanto, emettersi un provvedimento con il quale si disponga la conversione del rito, assegnando un termine per la regolarizzazione degli atti, in aderenza al principio della conservazione degli atti. Devono viceversa essere dichiarate inammissibili le domande riconvenzionali, anche se fondate su fatti costitutivi identici, non essendo prevista nella fase sommaria la possibilità della loro proposizione, trattandosi di determinazione legislativa chiaramente connessa alle esigenze di celerità che la caratterizzano.

Trib. Taranto, 30 novembre 2012

Nel caso di impugnativa del licenziamento proposto con ricorso ex art. 1, commi 47 e ss., l. n. 92/2012 (cd. rito Fornero), in fattispecie soggetta al regime sostanziale del d.lgs. n. 23/2015 (cd. Jobs Act), che comporta la proposizione dell'impugnativa con il rito del lavoro ex art. 414 e ss. c.p.c., occorre fare applicazione analogica della disposizione processuale di cui all'art. 4 d.lgs. n. 150/2011, e dei principi generali che prevedono che l'erronea scelta del rito non dia luogo a pronuncia di inammissibilità o improponibilità della domanda, dovendosi garantire la prosecuzione del giudizio nelle forme processuali corrette, attraverso un provvedimento di mutamento del rito.

Trib. Roma, sez. lav., ord., 23 marzo 2016

Passaggio dal rito speciale al rito ordinario

L'art. 427 c.p.c. contempla la fattispecie opposta rispetto a quella prevista dall'art. 426 c.p.c., in cui una causa non rientrante tra quelle di cui all'art. 409 c.p.c. (o all'art. 447-bis c.p.c., per il richiamo contenuto in tale norma) sia stata promossa con il rito del lavoro (o locatizio), ponendo una disciplina differenziata a seconda che la causa proposta rientri o meno nella competenza del giudice adito. In entrambi i casi, il giudice deve disporre il mutamento del rito e, quindi, il passaggio dal rito speciale al rito ordinario; in caso di giudice incompetente, il giudice dovrà altresì disporre la rimessione della causa al giudice competente, fissando per l'incombente un termine non superiore a trenta giorni.

La prima ipotesi prevista dalla norma in esame è quella in cui la causa rientri nella competenza per territorio e per valore del giudice adito, ma venga promossa secondo il rito speciale, pur avendo ad oggetto un rapporto diverso da quelli che vi rientrano. In tal caso, il giudice, con ordinanza, dispone il mutamento del rito e la regolarizzazione fiscale degli atti. Il rapporto deve risultare estraneo alle materie soggette al rito speciale fin dall'atto introduttivo in base alla prospettazione fattane nella domanda e non invece secondo quanto emerga a seguito dei risultati dell'istruzione probatoria o delle difese del convenuto (Cass. civ., n. 1916/93, Cass. civ., n. 7561/87).

Se il tribunale è suddiviso in sezioni, il mutamento del rito determinerà l'assegnazione della causa da parte del capo dell'ufficio ad un giudice della sezione ordinaria; secondo l'indirizzo prevalente, spetterà a quest'ultimo fissare l'udienza di prosecuzione con ordinanza comunicata alle parti a cura della cancelleria (Tarzia-Dittrich, Luiso).

L'ordinanza non si ritiene reclamabile né impugnabile, bensì revocabile, previa audizione delle parti, secondo alcuni solo dopo che l'istruzione sia esaurita (Tarzia-Dittrich, Proto Pisani), secondo altri auspicabilmente prima (Ianniruberto), considerato che nel rito speciale il giudice gode di più ampi poteri istruttori.

A prescindere dal momento in cui il giudice provveda alla conversione del rito, le parti hanno il diritto di integrare le difese secondo quanto prevede il rito ordinario (artt. 180, 183 e 184 c.p.c.), mentre permangono le decadenze già maturate comuni ai due riti (Tarzia-Dittrich): il giudice, quindi, nel mutare il rito, dovrebbe fissare l'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., per l'assegnazione dei termini di cui al sesto comma.

Finchè non intervenga l'ordinanza di mutamento del rito, continua ad applicarsi la disciplina del rito del lavoro anche ai fini dell'esclusione della sospensione feriale dei termini per impugnare (Cass. civ., n. 5599/14).

Nella seconda ipotesi disciplinata dalla norma in esame, ossia se la qualificazione dell'oggetto della domanda in termini di rapporto non rientrante nella previsione dell'art. 409 o 447-bis c.p.c. conduce all'incompetenza – per materia, valore o territorio – del giudice adito, questi rimette la causa con ordinanza al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito ordinario. L'omessa fissazione del termine non implica, tuttavia, nullità della decisione, né priva la pronunzia della propria natura di statuizione sulla competenza, soccorrendo all'uopo il termine ex art. 50 c.p.c. (Cass. civ., n. 2033/17). La riassunzione della causa avanti al giudice indicato dovrà avvenire mediante deposito della comparsa di cui all'art. 125 disp. att. c.p.c., entro il termine fissato nell'ordinanza, a pena di estinzione del processo ex art. 307 c.p.c..

L'ordinanza che dichiara l'incompetenza è impugnabile con regolamento di competenza (Cass. civ., n. 4749/04, Cass. civ., n. 7778/96).

La giurisprudenza ha, però, precisato che se il giudice del lavoro rilevi il proprio difetto di giurisdizione, deve dichiararlo con sentenza, ex art. 420, comma 4, c.p.c., non potendo, in tal caso, emettere l'ordinanza di cui all'art. 427 c.p.c. (Cass. civ., n. 728/97).

Riguardo la sorte delle prove raccolte nella fase processuale precedente la trasformazione del rito, il comma 2 della norma in esame prevede che «le prove acquisite durante lo stato di rito speciale avranno l'efficacia consentita dalle norme ordinarie». Secondo alcuni, le prove assunte d'ufficio nell'esercizio dei più ampi poteri istruttori del giudice del lavoro sarebbero inefficaci nel rito ordinario (Andrioli); secondo altri, la norma in esame presuppone l'esistenza di prove efficaci per il rito speciale ma non per quello ordinario, le quali devono considerarsi, dopo il mutamento di rito, tamquam non essent, mentre il limite in esame non riguarderebbe l'iniziativa di acquisizione della prova, con conseguente permanente efficacia delle prove disposte d'ufficio (Di Marzio-Di Mauro).

Infine, nel caso di causa di lavoro introdotta innanzi ad un giudice diverso da quello funzionalmente competente (es., giudice di pace), il giudice erroneamente adito deve dichiarare la propria incompetenza, purchè quest'ultima venga eccepita o rilevata entro i limiti temporali di cui all'art. 38 c.p.c.; altrimenti, la causa resta radicata presso il giudice adito, discutendosi se questi debba procedere o meno al mutamento del rito (per la tesi positiva, Proto Pisani, Ianniruberto; per quella negativa, Luiso). Nel caso in cui l'incompetenza sia stata tempestivamente eccepita o rilevata, il giudice deve assegnare il termine di cui all'art. 50 c.p.c. se la causa ha seguito fino a quel momento il rito ordinario, mentre deve assegnare il termine di trenta giorni di cui all'art. 427 c.p.c., qualora la causa sia stata introdotta con il rito speciale.

Mutamento del rito nella convalida di sfratto

L'art. 667 c.p.c. disciplina il passaggio dalla fase sommaria del procedimento per convalida di sfratto alla fase a cognizione piena. Precisamente, l'opposizione della parte intimata, ovvero il rilievo d'ufficio da parte del giudice dell'insussistenza dei presupposti per la convalida, ovvero, ancora, nel caso dell'art. 666 c.p.c., il pagamento da parte dell'intimato delle somme non contestate, comportano la chiusura della fase speciale e la prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie del rito locatizio.

Il procedimento, pur a seguito del mutamento del rito, rimane unico, ragion per cui non è necessaria una nuova iscrizione a ruolo, nè una nuova costituzione delle parti, salvo il caso di comparizione solo personale dell'intimato nella fase sommaria (in tal senso anche Carrato-Scarpa, che pure considerano già costituito l'intimato comparso di persona, cui andrebbero notificati, ex art. 170, comma 3, c.p.c., i provvedimenti contemplati dagli artt. 663-666-667 c.p.c.); del pari, gli effetti sostanziali e processuali della domanda decorrono dalla data di notificazione dell'atto di citazione originario.

Precisamente, ai sensi dell'art. 667 c.p.c., il giudice emette l'ordinanza di mutamento del rito, con cui, a norma dell'art. 426 c.p.c., fissa l'udienza di discussione ed assegna alle parti un termine perentorio per provvedere ad integrare gli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. Dette memorie servono quindi a definire gli esatti termini della controversia locativa, sia sotto il profilo del thema decidendum che del thema probandum, e sono per questo assimilabili ai rispettivi atti introduttivi di un procedimento ordinario intrapreso con ricorso ex art. 447-bisc.p.c., dovendosi per l'appunto seguire la disciplina del rito locativo ordinario nell'ulteriore svolgimento della lite.

Il provvedimento di trasformazione del rito delle controversie in materia di locazione, ex artt. 667 e 426 c.p.c., non è impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. (Cass.civ., n. 514/98).

Anche se il legislatore ha rimesso alla discrezionalità del magistrato la determinazione del termine perentorio per il deposito di memorie integrative, appare tuttavia opportuna, onde assicurare il pieno rispetto del principio del contraddittorio, la concessione di un termine sfalsato. Nella prassi giurisprudenziale è diffuso l'uso di assegnare trenta giorni all'intimante e dieci giorni all'intimato, da calcolarsi a ritroso rispetto all'udienza di discussione. Termini mutuati rispettivamente dagli artt. 415, comma 5, e 416, comma 1, c.p.c..

La mancata assegnazione dei termini perentori predetti vizia il procedimento, fino a poter determinare la nullità della sentenza, qualora la suddetta omissione abbia in concreto comportato pregiudizi o limitazioni del diritto di difesa (Cass. civ., n. 511/2001). In ogni caso, nel calcolo dei termini perentori si deve tener conto della sospensione feriale, atteso che il procedimento per convalida è sottratto al regime della predetta sospensione solo nella fase sommaria (Cass.civ., n. 12979/2010).

L'omissione del mutamento di rito, di cui all'art. 667 c.p.c., non integra alcuna delle ipotesi tassativamente previste dagli artt. 343 e 354 c.p.c. per la rimessione della causa al primo giudice (Cass. civ., n. 14625/17).

L'ordinanza ex art. 667 c.p.c., come già rilevato sub art. 426 c.p.c., va comunicata all'intimato rimasto contumace (Corte cost. n. 14/77; cfr. anche Cass. civ., n. 1209/85); lo stesso principio vale anche nel caso in cui a non essersi costituito sia il locatore e vi sia stata la richiesta del conduttore costituito di procedere in contumacia del medesimo locatore. La comunicazione alla parte che sia comparsa personalmente va fatta unicamente se l'ordinanza sia stata resa fuori udienza. La comunicazione dell'ordinanza di mutamento del rito va fatta dalla cancelleria, atteso che l'art. 426 c.p.c. non prevede la notifica a cura delle parti, onde l'eventuale inosservanza dell'ordine erroneamente formulato dal giudice non comporta decadenza a carico delle stesse, dato che, per espressa situazione normativa nel rito delle locazioni, a tutte le notifiche e comunicazioni provvede l'ufficio (Cass.civ., n. 10271/02).

Dalla mancata comunicazione – se non sanata ovviamente dalla costituzione del contumace – deriva la nullità del primo grado del giudizio, sia pure limitatamente alla fase successiva all'ordinanza di trasformazione del rito, per cui il processo andrà rinnovato a partire dal momento in cui si è verificata detta nullità, vertendosi in una situazione assimilabile a quelle di cui all'art. 354, comma 1, c.p.c. (Cass.civ., n. 77/10).

Per quanto attiene alla mediazione di cui al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, come modificato dal d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con modif. in l. 9 agosto 2013, n. 98, che ha reintrodotto (a seguito della declaratoria di incostituzionalità di cui a Corte cost. n. 272/12) l'obbligatorietà del tentativo di mediazione (a decorrere dal 21 settembre 2013) come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, deve rammentarsi che tale improcedibilità, come previsto dall'art. 5, comma 4, lett. b), del predetto d.lgs., non trova, però, applicazione nel procedimento per convalida di licenza o sfratto nella sua fase sommaria, e precisamente fino all'eventuale mutamento del rito conseguente all'opposizione dell'intimato o al rigetto d'ufficio dell'istanza di convalida. La ragione dell'esclusione è da rinvenire nella natura sommaria del procedimento speciale regolato dagli artt. 657 e ss. c.p.c., diretto a garantire una celere tutela al locatore che intenda riacquisire la disponibilità del bene; pertanto, allorquando, con l'ordinanza di mutamento del rito ex art. 667 c.p.c., le esigenze di celerità sono cessate e la causa prosegue con il rito di cui all'art. 447-bis c.p.c., la mediazione diventa obbligatoria.

In tale ipotesi, quindi, l'ordinanza di mutamento del rito si arricchirà di un ulteriore contenuto, ossia la fissazione del termine di 15 giorni per l'inizio del procedimento di mediazione (anche in relazione ad eventuali domande riconvenzionali già proposte dall'intimato): invero, sebbene nulla preveda in proposito il citato art. 5, comma 4, d.lgs. n. 28/2010, l'assegnazione del predetto termine si desume dal sistema e, in particolare, dall'espressa previsione di esso per il caso in cui il giudice rilevi in limine il mancato esperimento della mediazione obbligatoria (art. 5, comma 1-bis), nell'ipotesi in cui il giudice disponga la mediazione nel corso della lite (art. 5, comma 2), nel caso in cui la mediazione sia disposta perchè contrattualmente prevista (art. 5, comma 5). L'esame complessivo di tali disposizioni, cioè, rivela che, nel caso in cui la mediazione non sia stata già introdotta dalle parti, è il giudice ad assegnare ad esse il termine di 15 giorni entro il quale le stesse debbono provvedervi a pena di improcedibilità.

L'art. 6 d.lgs. n. 28/2010 prevede, poi, che il procedimento di mediazione abbia una durata non superiore a 3 mesi, non soggetta a sospensione feriale, che decorre, nel caso in esame, dalla scadenza del termine fissato dal giudice per il deposito della domanda di mediazione.

Ciò comporta, come emerge anche dalla prassi seguita da una parte della giurisprudenza di merito, che l'udienza di discussione di cui all'art. 420 c.p.c., la cui fissazione è prevista dall'art. 426 c.p.c., deve essere dilazionata di almeno cinque mesi, così da consentire l'espletamento del procedimento di mediazione e, in caso di suo fallimento, il deposito delle memorie integrative di cui al medesimo art. 426 c.p.c.. In particolare, il termine (preferibilmente sfalsato) per il deposito di tali memorie comincerà a decorrere (o, comunque, scadrà) dopo la scadenza del termine di tre mesi e quindici giorni previsto per l'inizio e la conclusione del procedimento di mediazione.

Il giudice deve, quindi, fissare il termine perentorio ex art. 426 c.p.c. con scadenza congruamente successiva ai termini di cui all'art. 5, comma 1-bis, e art. 6, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, e l'udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. a seguire.

Nella giurisprudenza di merito, tuttavia, si è anche sostenuto che il termine per l'esperimento della mediazione va assegnato non in sede di procedimento di convalida di sfratto, bensì (ove le parti non abbiano nel frattempo autonomamente provveduto ad esperire la mediazione) in occasione dell'udienza che si svolge all'esito del mutamento del rito (Trib. Bologna, 17 novembre 2015, Arch. loc., 2016, 201).

In caso di mancata instaurazione del procedimento di mediazione, viene a mancare una condizione per la decisione nel merito, ed il processo, su eccezione di parte o su rilievo officioso del giudice da effettuare non oltre la prima udienza di discussione ex art. 420 c.p.c. fissata con l'ordinanza di mutamento del rito, va chiuso con sentenza che ne dichiari l'improcedibilità (limitatamente alla domanda per la quale non sia stata esperita la mediazione).

In ordine alla vexata quaestio della proponibilità di nuove domande da parte del locatore nella memoria integrativa, la prevalente e più recente giurisprudenza ritiene che l'opposizione dell'intimato ex art. 665 c.p.c. determina la conclusione del procedimento a carattere sommario e l'instaurazione di un nuovo e autonomo procedimento a cognizione piena, nel quale le parti potrebbero esercitare tutte le facoltà connesse alle rispettive posizioni, compresa quella, per il locatore, di proporre una domanda nuova (Cass. civ., n. 7430/2017, Cass. civ., n. 15399/2010, Cass. civ., n. 23908/2006, Cass. civ., n. 21242/2006) – ad es., la risoluzione per inadempimento in relazione al mancato pagamento di canoni od oneri condominiali non considerati nella convalida di sfratto o, ancora, la riduzione in pristino dell'immobile e quella di risarcimento del danno (Trib. Palermo, 22 febbraio 2017) – e, per il conduttore, di dedurre nuove eccezioni e domande riconvenzionali (Cass. civ., n. 5356/2009).

In ogni caso, prima del deposito delle memorie integrative (finalizzate a cristallizzare le posizioni delle parti) non si ritiene possibile configurare la non contestazione dei fatti (Cass. civ., n. 26356/2014).

Trasformato il rito, il procedimento si svolge secondo le norme del rito speciale locatizio (ossia quello dettato dall'art. 447-bis c.p.c., il quale richiama la maggior parte delle disposizioni di cui agli artt. 414 e ss. c.p.c.), concludendosi con sentenza, che assorbe ipso iure l'ordinanza provvisoria di rilascio eventualmente concessa, anche se meramente confermativa delle decisioni ivi adottate. Non appare, pertanto, necessaria l'esplicita revoca dell'ordinanza di rilascio, avendo la stessa natura di provvedimento provvisorio endoprocessuale, sia che la domanda del locatore venga accolta (magari con concessione di un diverso termine per l'esecuzione ex art. 56 l. n. 392/78), sia che la stessa venga rigettata.

É, tuttavia, possibile che la trasformazione del procedimento per convalida nel procedimento ordinario non avvenga nelle forme del rito speciale locatizio, essendovi ipotesi rientranti nella disciplina di cui agli artt. 657 ss. c.p.c. ma non in quella dell'art. 447-bis c.p.c. (ad esempio, locazioni non urbane quali quelle di area agricola, in mancanza di un contratto agrario). In tal caso, dopo la chiusura della fase sommaria, con concessione o meno dell'ordinanza di rilascio, la fase di merito si svolgerà nelle forme del rito ordinario e la norma da applicare al mutamento di rito sarà quella di cui all'art. 427 c.p.c. (Buttafoco). L'intimante-attore avrà la facoltà, nei termini di cui all'art. 183, commi 4 e 5, c.p.c., di proporre nuove domande ed eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Applicandosi alla fase di merito gli artt. 163 ss. c.p.c., tra cui gli artt. 166 e 167 c.p.c., deve essere cura del giudice fissare l'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. in modo da concedere al convenuto lo spatium deliberandi di cui agli artt. 163-bis e 166 c.p.c. per proporre domande riconvenzionali non avanzate nella fase sommaria.

Inoltre, la prosecuzione del giudizio di merito con il rito ordinario, anziché con quello di cui all'art. 447-bis c.p.c., può verificarsi anche nell'ipotesi di connessione “forte” (artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.) tra cause cumulate, ossia qualora, ad esempio, l'intimato, nell'opporsi alla convalida, formuli fin dalla fase sommaria domanda riconvenzionale di usucapione per effetto di operata interversione del possesso, oppure l'intimazione di sfratto per morosità contenga richiesta di rimborso delle spese relative alle utenze di acqua, luce, gas o telefono inerenti all'immobile locato, ove le stesse siano rimaste intestate al locatore e, per espressa pattuizione contenuta nel contratto, debbano essere invece sostenute dal conduttore.

In tali ipotesi, premesso che, ai sensi dell'art. 40, comma 3, c.p.c., le cause connesse vanno trattate tutte con il rito ordinario (prevedendo tale norma l'applicazione del rito speciale unicamente quando una delle cause riunite rientri tra quelle di lavoro o previdenziali), appare antieconomico che l'ordinanza ex art. 667 c.p.c. debba necessariamente sfociare dapprima in un'udienza di discussione da trattare secondo il rito locativo, per poi disporsi nel corso di questa il passaggio dal rito speciale al rito ordinario; più semplicemente, il giudice del procedimento di convalida potrebbe, in questi casi, fissare in prosieguo un'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., assegnando alle parti termini per l'eventuale deposito di memorie integrative che abbiano il contenuto dell'atto di citazione e della comparsa di risposta.

Conversione del rito sommario di cognizione in rito ordinario

Alla prima udienza del rito sommario di cognizione – ossia quella originariamente fissata nel decreto o la nuova fissata dal giudice a seguito della richiesta di chiamata del terzo nella comparsa di costituzione da parte del convenuto - è dedicata la prima parte dell'art. 702-ter c.p.c., che si limita ad individuare una serie di provvedimenti che il giudice designato è chiamato a pronunciare nel corso della stessa.

In termini generali, le attività da compiersi nella prima udienza, a parte le verifiche preliminari, sono quelle in primo luogo dirette a stabilire se sussistono le condizioni per l'accesso e la trattazione del procedimento nelle forme del rito sommario. Solo all'esito della verifica positiva, ha inizio la trattazione nelle forme semplificate.

In sostanza, anche nel rito sommario, la prima udienza di comparizione (perciò non le eventuali altre udienze successive) è destinata alla fissazione del thema decidendum e del thema probandum, al fine di consentire al giudicante di valutare se proseguire con il rito sommario (qualora l'istruttoria sia non complessa) o provvedere alla conversione dello stesso (nel caso di istruttoria complessa). Ciò significa che il medesimo giudicante deve avere la possibilità di stabilire, proprio alla prima udienza, quali fatti debbano essere provati, in quanto contestati, e quali, invece, possano ritenersi non bisognevoli di attività istruttoria, ad es. in quanto non (tempestivamente) contestati. Consentire alle parti, successivamente alla prima udienza, di sollevare nuove contestazioni significherebbe alterare il quadro complessivo della controversia dopo che il giudicante ha già deciso se proseguire o meno col rito sommario.

Fermo quanto precede, va a questo punto evidenziato che, secondo l'art. 702-ter, comma 3, c.p.c., quando «ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un'istruzione non sommaria, il giudice, con ordinanza non impugnabile, fissa l'udienza di cui all'articolo 183. In tal caso si applicano le disposizioni del libro II».

Trattasi, come è palese, di un provvedimento che costituisce espressione di un potere affatto discrezionale, non suscettibile di controllo (una vera e propria conversione del rito, senza alcuna rimessione in termini, nel senso che restano ferme le preclusioni già maturate, che si radicano soprattutto in capo alla parte convenuta e sono quelle di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c.: restano, tuttavia, escluse le decadenze istruttorie, atteso che all'udienza ex art. 183 c.p.c. potranno essere concessi, su istanza di parte, i termini di cui al comma 6 di tale norma): l'ordinanza, invero, non può essere modificata o revocata nel corso del procedimento di primo grado (ex art. 177, comma 3, n. 2, c.p.c., in quanto espressamente dichiarata “non impugnabile”), ed ovviamente nessuna censura nei suoi confronti può essere avanzata in grado di appello.

Il giudice è, in altri termini, chiamato a svolgere una valutazione di compatibilità delle difese delle parti con il rito semplificato, a valutare, cioè, se il procedimento instaurato possa essere trattato e deciso con le modalità di cui all'art. 702-ter c.p.c. ovvero se esso debba essere trasformato in procedimento ordinario, e, nel fare ciò, il giudice deve considerare, nell'ordine: 1) l'oggetto originario del processo ed i fatti costitutivi della domanda (anche in relazione al valore della causa); 2) le eventuali domande riconvenzionali e quelle nei confronti di terzi e le difese svolte in sede di costituzione dal convenuto e dai terzi; 3) l'impostazione complessiva del sistema difensivo del convenuto (e dei terzi), da cui desumere le questioni, di fatto e di diritto, controverse tra le parti, tenendo anche conto di singole eccezioni di rito e di merito, nonché delle richieste istruttorie già formulate o comunque prospettate quale thema probandum.

All'esito di queste verifiche il medesimo giudice è chiamato ad effettuare una valutazione complessiva e di sintesi, prefigurando il percorso che si rende necessario per la decisione e la sua compatibilità con le forme semplificate.

Nonostante gli sforzi esemplificativi non è agevole definire astrattamente quando una controversia possa qualificarsi ad istruttoria non complessa, ma si può ragionevolmente presumere che le controversie complesse siano in numero superiore a quelle che consentono l'accesso al rito semplificato. Secondo parte della dottrina (Arieta), le tipologie di controversie che, almeno di norma, sembrano essere maggiormente compatibili con l'istruttoria semplificata, a parte quelle contumaciali, potrebbero essere, ad esempio, le cause risarcitorie, condominiali, di pagamento o rimborso di somme di denaro.

La superfluità dell'istruzione probatoria, ad es., è un indice rilevante, purchè non si accompagni alla necessità di decidere una questione di diritto su cui incidono una pluralità di fonti non solo interne o su cui si è creato un contrasto di orientamenti.

Secondo la giurisprudenza di merito (Trib. Mondovì, 23 ottobre 2009), la non sommarietà dell'istruzione deve valutarsi non tanto in riferimento all'oggetto della domanda, quanto, piuttosto, in relazione alle prove necessarie per la decisione, sulla base delle difese assunte dalle parti. La distinzione non va, quindi, operata tra cause oggettivamente complesse e cause semplici, bensì tra cause in cui l'istruttoria può essere complessa e lunga e cause in cui l'istruttoria può essere condotta in modo deformalizzato e con rapidità. La differenza tra le due tipologie può dipendere dalla natura della lite (che non richiede accertamenti in fatto, o li richiede in misura limitata), ovvero, più frequentemente, dalle posizioni assunte dalle parti, dal momento che esse determinano la quantità e la qualità di domande ed eccezioni e, soprattutto, la quantità di istruttoria necessaria, attraverso le contestazioni o meno dei fatti allegati dalla controparte. Possono dunque configurarsi cause astrattamente complesse, ma con istruttoria sommaria nel caso concreto (si pensi, ad esempio, ad uno scioglimento di comunione ereditaria in cui la massa da dividere sia rappresentata unicamente da una somma di denaro lasciata dal de cuius, la quale può essere agevolmente, con un semplice calcolo aritmetico, suddivisa tra gli eredi), ovvero cause oggettivamente semplici la cui istruttoria si presenti complessa in ragione della pluralità delle parti e delle domande, principali e riconvenzionali, proposte dalle medesime parti, nonché delle conseguenti articolate richieste istruttorie da queste ultime formulate.

Spostando la riflessione sulla “complessità della controversia” dalla fase istruttoria in senso stretto a quella della trattazione delle questioni di diritto ed alla fase deliberativa, è opportuno evidenziare che il potere discrezionale del giudice di definire le scansioni del procedimento riguarda anche la fase decisionale, in particolare sotto il profilo dell'autorizzazione al deposito di memorie difensive. Pertanto, nel caso in cui le questioni di diritto siano realmente complesse o si ponga il problema della scelta tra opzioni interpretative difformi riguardanti novità normative, si ritiene che le esigenze di un adeguato sviluppo dialettico del contraddittorio non siano compatibili con la semplificazione del rito: ciò vuol dire che il rito sommario non si addice, e va quindi disposto il mutamento del rito nelle forme ordinarie, a quei giudizi che, anche se di natura esclusivamente documentale o comportanti un'attività istruttoria contenuta, implichino l'esame e la soluzione di questioni tecniche o giuridiche di una certa complessità che possono richiedere una trattazione non semplificata, sia per l'esigenza delle parti di svolgere e puntualizzare le proprie difese sulla base di quelle della controparte, sia per quella del giudice di far chiarire alle parti i rispettivi assunti nello svolgimento successivo delle udienze, formando in maniera graduale il proprio convincimento (Trib. Verona, 9 agosto 2011).

A favore di tale interpretazione estensiva del concetto di “complessità” dell'istruttoria milita la recente introduzione dell'art. 183-bis c.p.c., il quale, in tema di passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione, prevede che il giudice monocratico di tribunale, nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre che si proceda a norma dell'art. 702-ter c.p.c.. Ebbene, diversamente da quanto espressamente previsto dall'art. 702-ter,comma 3, c.p.c. nel passaggio dal rito ordinario al rito sommario il giudice è tenuto a valutare congiuntamente questioni sia giuridiche che probatorie, potendo essere indotto al mutamento del rito dalla “non complessità della lite” oltre che dalla sommarietà dell'istruzione probatoria, sicchè il nuovo art. 183-bis c.p.c., come sostenuto anche in dottrina (G. Finocchiaro, in Guida al dir., 2014, 40, inserto 12, p. XXVII), è funzionale a gettare lumi anche sull'interpretazione del predetto terzo comma dell'art. 702-terc.p.c., in cui invece si richiama solo la “non sommarietà dell'istruzione”, trattandosi di norme specularmente simmetriche nell'individuazione dei presupposti che possono ispirare l'opzione giudiziale di mutamento del rito. In sostanza, l'art. 183-bis c.p.c. può rappresentare una “chiave di lettura” del preesistente art. 702-ter c.p.c..

Ed infatti, proprio di recente, la Suprema Corte ha statuito che la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti, bensì all'intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l'altro, della complessità della controversia, del numero e della natura delle questioni in discussione (Cass. civ., n. 6563/2017).

Pertanto, anche l'eventuale natura esclusivamente documentale delle prove non comporta l'automatica decidibilità della causa con il procedimento sommario: il cumulo delle cause, la pluralità delle parti, l'entità delle questioni da decidere, la molteplicità dei documenti, possono fare ritenere la causa complessa e indurre il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, a mutare il rito.

In ordine alle conseguenze nel caso in cui si aderisca alla tesi dell'incompatibilità del rito sommario di cognizione monocratico con alcune tipologie di controversie (cause laburistiche e locatizie, opposizione esecutive, opposizione a decreto ingiuntivo), ossia se debba dichiararsi la domanda inammissibile oppure procedersi al mutamento del rito, si rimanda a Taraschi, Ambito applicativo del rito sommario di cognizione monocratico, in www.ilProcessoCivile.it.

Il favore legislativo verso l'utilizzo diffuso del procedimento sommario si coglie anche dalla norma contenuta nel comma 4 dell'art. 702-ter c.p.c., secondo la quale il giudice, se ritiene che la domanda riconvenzionale tempestivamente proposta dal convenuto non sia assoggettabile, per la sua complessità, al procedimento sommario, ne dispone la separazione.

Detta disposizione, sebbene sia facilmente ipotizzabile un cumulo oggettivo e soggettivo in cui soltanto taluna delle cause connesse si presti ad un'istruzione sommaria, prende in considerazione unicamente la fattispecie della domanda riconvenzionale, lasciando peraltro chiaramente intendere che questo tipo di connessione mai può essere di ostacolo all'utilizzazione del rito speciale, poiché, come si è visto, se è la sola causa riconvenzionale a non prestarsi ad una istruzione sommaria il giudice deve disporne la separazione, verosimilmente fissando per essa soltanto l'udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c..

Da tanto può ricavarsi, allora, il principio generale che la connessione fra cause (pur rientranti tra quelle ammesse al rito sommario dall'art. 702-bis, comma 1, c.p.c.) per le quali il giudice non ritenga opportuna l'istruzione sommaria e cause invece suscettibili di siffatta trattazione resta esclusa dalla disciplina unificatrice dell'art. 40, commi 3 e 4, c.p.c., inapplicabile nei rapporti fra rito sommario e ordinario, comportando invece la separazione dei procedimenti.

La ratio ispiratrice del riportato quarto comma dell'art. 702-ter c.p.c. sembra dunque essere quella di evitare attività dilatorie del convenuto, così come conferma anche l'analoga disposizione del secondo comma della medesima norma, secondo cui, anche quando la connessione si realizza fra cause soggette al rito sommario e cause da esso escluse per legge (a norma dell'art. 702-bis, comma 1, c.p.c.), il simultaneus processus è impedito: in tal caso il giudice, però, non deve disporre la separazione, ma dichiarare l'inammissibilità delle domande (anche riconvenzionali) riservate alla cognizione ordinaria.

Dunque, contrariamente a ciò che è stabilito dall'art. 40 c.p.c., il quale privilegia il simultaneus processus, introducendo deroghe ai riti al fine di favorirne la realizzazione, in questo caso è stata scelta la soluzione della scissione del cumulo e della trattazione separata delle controversie, quante volte il giudice ritenga che una di esse possa seguire i modi sommari, mentre l'altra debba essere indirizzata verso la cognizione ordinaria.

Tale sistema non desta problemi particolari qualora la connessione tra le cause sia tale che eventuali decisioni contrastanti non determinino conflitti di giudicati (è questo il caso delle c.d. connessioni deboli, quali quella causale e quella impropria), la sola controindicazione rivelandosi l'omessa realizzazione dell'economia processuale ed il mancato coordinamento tra le pronunce nella parte motivazionale.

Per contro, difficoltà non secondarie pongono le ipotesi in cui le domande siano collegate in modo tale che eventuali statuizioni non coordinate provochino conflitti di giudicati e diano vita a discipline dei rapporti non omogenee (si tratta delle cd. connessioni forti, quali quelle per pregiudizialità-dipendenza e incompatibilità: si pensi all'ipotesi di domande contrapposte riferite a un unico rapporto negoziale, ossia una di condanna al pagamento del prezzo e l'altra di risoluzione per inadempimento; oppure domanda di nullità assoluta di un contratto e domanda di adempimento o risoluzione dello stesso). Come si è già affermato in dottrina (Menchini), allora, si pone la seguente alternativa: o si ritiene che il meccanismo previsto dalla legge non possa operare in vicende di quest'ultimo tipo, per cui, in deroga a quanto previsto dall'art. 702-ter, comma 4, il giudice ordina la trasformazione del rito non solo per la causa riconvenzionale ma anche per quella principale, conservando il cumulo e trattando l'intero processo con le regole del secondo libro del codice, oppure ci si arrende di fronte al dato normativo e si accettano le conseguenze negative della scissione e della trattazione separata delle liti connesse.

La soluzione da preferire sembra essere la prima perché, da un lato, tiene nel dovuto conto i riflessi che hanno sul piano del processo le interferenze che sussistono tra i rapporti giuridici sostanziali, e, dall'altro lato, rispetta le esigenze di difesa delle parti che emergono in tali fattispecie (si consideri, ad es., anche il caso della domanda principale di rivendica e di quella riconvenzionale di usucapione).

Deve, quindi, concludersi che la norma in esame attribuisca al giudice la facoltà, e non preveda l'obbligo, di separare i procedimenti e di trattenere nell'alveo del rito sommario la causa principale o la sola riconvenzionale, conformemente ai recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità che manifestano la netta propensione verso la riunione dei procedimenti relativi a cause connesse (Cass. civ., n. 1237/07, Cass. civ., n. 1815/05).

Infine, deve rammentarsi che l'art. 8 l. n. 24/17 (cd. Legge Gelli), in tema di controversie per responsabilità medica, prevede che, una volta espletata la consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi senza buon esito, la parte danneggiata deve depositare il ricorso ex art. 702-bis c.p.c. presso la cancelleria del giudice che ha disposto la medesima consulenza. La norma opera un collegamento necessario con il rito sommario di cognizione sul presupposto che, essendo stata già espletata la consulenza tecnica, l'istruttoria non si presenti complicata. Tuttavia, non si esclude la possibilità che la parte possa iniziare il giudizio di merito anche con il rito ordinario, potendo lo stesso giudice optare per il rito sommario di cognizione ex art. 183-bis c.p.c., così come non si dubita che se la parte deposita il ricorso ex art. 702-bis c.p.c., il giudice possa disporre il mutamento del rito se dovesse ritenere che la causa necessiti di un'istruttoria non sommaria. Non si tratta, infatti, di ipotesi di rito sommario di cognizione cd. necessario (Consolo-Bertollini-Buonafede, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle forme di cui all'art. 696 bis c.p.c. e il successivo favor per il rito semplificato, in Corr. giur., 2017), come si evince d'altronde dal riferimento normativo all'art. 702-bis c.p.c..

Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione

L'art. 183-bis c.p.c. è stato introdotto dal d.l. n. 132/14, conv. in l. n. 162/14, ed è applicabile ai procedimenti instaurati a partire dall'11-12-2014. Condividendo il pensiero di una parte della dottrina, il legislatore ha, in sostanza, attribuito al giudice (limitatamente alle cause spettanti al tribunale in composizione monocratica) il potere di sindacare, d'ufficio, l'opportunità della scelta dell'attore di ricorrere al rito ordinario, nelle ipotesi di non complessità (in fatto e/o diritto) della lite e dell'istruzione probatoria (sicché la complessità anche solo delle questioni giuridiche da affrontare dovrebbe escludere il mutamento del rito), specularmente a quanto previsto dall'art. 702-ter c.p.c., che disciplina, invece, il passaggio dal rito sommario a quello ordinario. La finalità è quella di semplificare l'istruzione ed accelerare i tempi processuali per addivenire alla decisione, mantenendo però la pienezza della cognizione, che caratterizza anche il rito sommario di cui all'art. 702-bis c.p.c. (altrimenti non si spiegherebbe la convertibilità dell'uno con l'altro).

I parametri su cui fondare la conversione del rito sono quindi (Tiscini, Riv. dir. proc., 2017, 1, 112 ss.):

1) semplicità/complessità in punto di fatto: a) in relazione ai fatti allegati, ovvero b) alla prova dei relativi fatti;

2) semplicità/complessità in punto di diritto: anche se la causa fosse semplice in termini di allegazioni, a complicarla potrebbero soccorrere le questioni giuridiche ad essa sottese.

L'udienza di trattazione rappresenta il termine iniziale e finale entro cui disporre il mutamento del rito, sicché quest'ultimo sarà ammissibile anche qualora la prima udienza di trattazione venga rinviata per regolarizzare il contraddittorio o per sanare i difetti o vizi di costituzione di cui all'art. 182 c.p.c. oppure, ancora, nell'ipotesi in cui si disponga il rinvio per la conciliazione ex art. 185 c.p.c. Il giudice, in sostanza, può disporre il passaggio al rito sommario di cognizione finché non concede i termini ex art. 183, comma 6, c.p.c..

Il rischio che, alla prima udienza, il giudice proceda al mutamento del rito dovrebbe comportare un implicito onere per le parti di arrivare a tale udienza già con l'indicazione delle proprie istanze istruttorie (senza, tuttavia, che ciò comporti il formarsi di una preclusione implicita non prevista dalla norma, trattandosi solo di invitare le parti ad un auspicabile comportamento processuale in vista della possibile opzione giudiziale per la conversione del rito).

Prima di procedere al mutamento del rito, il giudice deve stimolare il contraddittorio tra le parti; è presumibile, però, che nella prassi il giudice disporrà che il contraddittorio sulla questione del rito si svolga in forma scritta (attraverso l'assegnazione di un termine per memorie alle parti e rinvio ad altra udienza per decidere sulla sola questione di convertibilità del rito) ed in questo caso non sembra che la norma vieti alle parti di poter indicare le prove già nelle predette memorie (contrario al deposito di memorie scritte, Tedoldi, Riv. dir. proc., 2015, 490 ss, il quale rileva l'inutile appesantimento procedimentale e la contraddittorietà della scelta del giudice di chiedere alle parti di esporre per iscritto le ragioni della semplicità o non semplicità della causa, segno, già di per sé, che la causa non è semplice).

Mutato il rito, il giudice deve invitare le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza, i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova contraria; tuttavia, se richiesto, può anche fissare una nuova udienza ed assegnare un termine perentorio non superiore a 15 giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali, nonché ulteriore termine perentorio di 10 giorni per le sole indicazioni di prova contraria.

Si ritiene che, alla prima udienza ex art. 183-bis c.p.c., il giudice, sentite le parti e trasformato il rito da ordinario a sommario, possa contestualmente sia pronunciarsi sulle richieste di prova presentate dalle controparti, sia provvedere alla definizione del procedimento (Trib. Milano, 21gennaio 2016).

Nella giurisprudenza di merito si è ritenuto che la norma in esame sia applicabile anche al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, non ostando a tale interpretazione il rilievo per cui, secondo la giurisprudenza (Cass. civ., n. 14594/12), qualora il giudice dell'opposizione debba dichiarare la propria incompetenza, la relativa pronuncia, comportando anche la revoca del decreto ingiuntivo opposto, va resa in forma di sentenza, anziché di ordinanza, nonostante il novellato disposto dell'art. 279, comma 1, c.p.c.: invero, è sufficiente, in proposito, rilevare che l'ordinanza che conclude il rito sommario ha la medesima efficacia e partecipa della stessa idoneità al giudicato, formale e sostanziale, che contraddistinguono la sentenza, sicchè con tale ordinanza, che fa le veci di una sentenza, può senz'altro procedersi alla revoca del provvedimento monitorio (Trib. Vercelli, 23 marzo 2016).

La norma in esame non prevede, inoltre, la facoltà del giudice di separare la domanda principale da quella riconvenzionale, qualora solo una di queste si presenti complessa.

L'ordinanza di mutamento del rito è «non impugnabile» e, non avendo contenuto decisorio e definitivo, non è neppure ricorribile per cassazione ex art. 111 Cost..

Ultrattività del rito

Il principio di ultrattività del rito postula che, in caso di erronea scelta dello stesso, non corretta dal giudice attraverso ordinanza di mutamento del rito, il giudizio debba proseguire in appello nelle stesse forme, quantunque erronee (Cass. civ., n. 15272/2014).

In altri termini, qualora una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario debbono essere seguite anche per la proposizione dell'appello, che, dunque, va spiegato con citazione ad udienza fissa; ove, invece, l'appello sia stato erroneamente proposto con ricorso, ai fini della tempestività del gravame occorre guardare non alla data di deposito dello stesso, bensì a quella della notifica del ricorso alla controparte unitamente al provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza (Cass.civ., n. 1148/2015).

Se, invece, la controversia sia stata trattata con il rito del lavoro anziché con quello ordinario, la proposizione dell'appello segue le forme della cognizione speciale, sempre in ossequio al principio della ultrattività del rito che – quale specificazione del più generale principio per cui l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell'apparenza, cioè con riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell'azione e del provvedimento compiuta dal giudice – trova specifico fondamento nel fatto che il mutamento del rito, con cui il processo è erroneamente iniziato, compete esclusivamente al giudice (Cass.civ., n. 15897/2014, Cass. civ., n. 682/2005; Trib. Salerno, sez. II, sent., 6 aprile 2016, n. 1534).

Sempre sotto il profilo temporale, deve rammentarsi che, in assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del “tempus regit actum”, in forza del quale lo ius superveniens trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all'intero nuovo rito. Infatti, posto che il “rito” è da intendersi come l'”insieme” delle regole sistematicamente organizzate in vista della statuizione giudiziale, l'applicazione di un nuovo rito ad un processo già iniziato, in assenza di norme transitorie che ciò autorizzino, si tradurrebbe in una non consentita applicazione retroattiva di quell'”insieme”, invece vietata dal principio di irretroattività della legge contenuto nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, di cui lo stesso art. 5 c.p.c. è applicazione. Ne consegue che la sua violazione dà luogo a nullità della sentenza in quanto si risolva in una compressione del diritto al contraddittorio (Cass. civ., n. 20811/2010, in ordine ad una fattispecie in cui il giudice di merito, applicando erroneamente il principio "tempus regit actum", aveva disposto il mutamento del rito, privando le parti del diritto di dedurre mezzi istruttori, anche documentali, nei termini di cui all'art. 184 c.p.c., ed aveva rigettato la domanda anche per difetto di prova).

Mutamento del rito nel d.lgs. n. 150/2011

Con il d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, è stata attuata, conformemente ai criteri di delega dettati dalla l. n. 69/09, la riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione che rientrano nell'ambito della giurisdizione ordinaria e che sono regolati dalla giurisdizione speciale, riconducendoli ai tre modelli previsti dal codice di procedura civile, individuati, rispettivamente, nel rito ordinario di cognizione, nel rito che disciplina le controversie in materia di rapporti di lavoro e nel rito sommario di cognizione.

L'art. 4 della normativa in esame statuisce che, quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal medesimo d.lgs., il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza, la quale viene pronunciata, anche d'ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti.

In particolare, quando la controversia rientra tra quelle per le quali il decreto in esame prevede l'applicazione del rito del lavoro — in considerazione del fatto che tale ultimo rito prevede che le preclusioni, sia assertive che probatorie, scattino in un momento anticipato rispetto agli altri riti — si prescrive che, con l'ordinanza di mutamento del rito, il giudice fissi l'udienza di discussione di cui all'art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria.

Quanto, invece, agli altri riti, l'art. 4, comma 1, pur prevedendo la conversione, non ne esplicita le modalità, soprattutto qualora l'atto presenti delle omissioni che non lo rendono conforme al modello introduttivo previsto dal processo applicabile. In proposito, si è ritenuto che il giudice non possa limitarsi a pronunciare la conversione ma, in analogia con quanto prescrive l'art. 4, comma 3, debba provvedere a disporre l'integrazione degli atti per ripristinare l'architettura procedimentale applicabile. Ad es., nel caso in cui il ricorso sia erroneamente presentato con il rito camerale, invece che con il rito sommario, il giudice, pronunziando la conversione, deve onerare il ricorrente di integrare l'atto introduttivo con le omissioni rilevate che lo rendono inidoneo a conformarsi al modello processuale applicabile ovvero a depositare altro atto giudiziale introduttivo in riedizione, con emenda dei vizi; nell'uno e nell'altro caso, il ricorrente avrà l'onere di notificare alla parte resistente l'atto iniziale originario, il decreto del giudice e l'integrazione/sanatoria (in tal senso, Trib. Varese, 10 novembre 2011).

Al fine di dissipare gli eventuali dubbi interpretativi circa le forme della riassunzione del giudizio, il giudice, anche quando dichiara la propria incompetenza, deve indicare con il medesimo provvedimento il rito corretto da applicare, tra quelli previsti dal d.lgs. n. 150/2011, per la riassunzione dinanzi al giudice competente.

Ai sensi del comma 5 del citato art. 4, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Trattasi di un principio innovativo, ai sensi del quale se, ad es., si doveva notificare un atto di citazione ed invece è stato depositato un ricorso, e magari la legge prevedeva la necessità di proporre la domanda in un termine di decadenza, la decadenza è comunque evitata se nel termine è stato depositato il ricorso (forma errata), anche se poi si passa al rito che invece prevedeva la notifica di una citazione (Campese, secondo cui il principio generale dovrebbe essere, mutatis mutandis, quello evincibile da Cass. civ., Sez.Un., n. 8491/2011, in tema di forma dell'atto di opposizione avverso la delibera di assemblea condominiale).

Sempre ai sensi del medesimo comma 5, ultimo inciso, restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Quindi, nonostante che il processo sia stato avviato col rito sbagliato, le parti subiranno le preclusioni di quel rito che non doveva essere utilizzato. Ciò significa che è più probabile che si subiscano “danni” nel passaggio dal rito lavoro a quello ordinario, perché il rito lavoro prevede preclusioni più strette rispetto al rito ordinario. Anche da questo punto di vista, però, non è tutto chiaro, nel momento in cui il comma 3 del citato art. 4 prevede che, nel passaggio al rito lavoro, il giudice deve fissare l'udienza dell'art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi. Questa disposizione potrebbe apparire in contrasto con l'ultimo inciso del quinto comma del medesimo articolo. Se nel passaggio al rito “giusto” restano ferme le preclusioni maturate nel rito “sbagliato”, il terzo comma va letto restrittivamente, nel senso cioè che fissare l'udienza ex art. 420 c.p.c. e dare termine per integrazione degli atti introduttivi non significa necessariamente rimettere in corsa il convenuto per compiere le attività previste nell'art. 416 c.p.c., né le parti per compiere le attività di allegazione e prova là previste, se tutte queste attività erano ormai precluse nel rito “sbagliato”. La situazione può verificarsi se il mutamento del rito è disposto in fase avanzata (anche in tal caso essendosi evidentemente aderito, da parte dell'organo giudicante, alla tesi che consente la pronuncia dell'ordinanza di mutamento di rito anche ad una udienza successiva alla prima, purchè la corrispondente questione sia stata tempestivamente sollevata). Ecco allora che, nell'interpretazione del predetto art. 4, il terzo comma va letto con la correzione del quinto comma.

La sanatoria del quinto comma, in ogni caso, non si applica al mutamento del rito disposto in appello ai sensi dell'art. 439 c.p.c. (Cass. civ., n. 19298/17).

In definitiva, la disciplina del mutamento del rito, di cui all'art. 4 in esame, si discosta in modo significativo dalle analoghe norme contenute nel c.p.c., le quali, per quanto attiene al mutamento del rito nelle controversie laburistiche (artt. 426 e 427 c.p.c.), stabiliscono la possibilità di adottare anche in grado di appello il provvedimento di mutamento del rito (art. 439 c.p.c.), in ossequio ad un particolare favor per il rito del lavoro, utilizzato come strumento per la tutela di una parte processuale debole (il lavoratore), anche in considerazione della connessione, nel rapporto di lavoro, dei diritti del lavoratore con i diritti della personalità.

A fronte di ciò, la fattispecie del mutamento del rito, da sommario di cognizione a ordinario, è, a sua volta, regolamentata dall'art. 702-ter c.p.c. in modo differente, prevedendosi la pronunzia di mutamento delle forme processuali in uno specifico momento del procedimento, ossia la prima udienza di comparizione delle parti, e non permettendola, sia pure implicitamente, in grado d'appello. Infatti, in quella differente fattispecie, in caso di mancato raccordo con le forme ordinarie in prime cure, vi sarà semplicemente un appello più aperto a nuove richieste istruttorie (art. 702-quater c.p.c.), ma non un mutamento del rito in senso proprio, come prescritto, tipicamente, nell'art. 439 c.p.c..

La disciplina posta dall'art. 4 si caratterizza, pertanto, per la sussistenza di una rigida barriera temporale (la prima udienza di comparizione delle parti dinanzi al giudice), oltre la quale, in mancanza di un'eccezione del convenuto o del rilievo ufficioso del giudice, è precluso pronunziare il mutamento del rito, similmente alla disciplina della competenza territoriale dettata dall'art. 38 c.p.c..

Una deroga al principio della conversione del rito è, tuttavia, contenuta nell'art. 3 del d.lgs. n. 150/2011, il quale, nell'ambito delle disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito sommario di cognizione, esclude, per tutte tali controversie, la possibilità di conversione del rito sommario di cognizione nel rito ordinario, prevedendosi la non applicabilità dei commi 2 e 3 dell'art. 702-ter c.p.c.. Da ciò si ricava che, qualora l'inesistenza dei presupposti per l'applicazione del procedimento speciale in esame emerga all'udienza di comparizione delle parti dopo la regolare instaurazione del contraddittorio, deve essere dichiarata esclusivamente l'inammissibilità del ricorso, senza disporre il mutamento del rito al fine di consentire la prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie dinanzi al giudice competente (Cass.civ., n. 23822/12).

In proposito, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 65/2014, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 14, comma 2, d.lgs. n. 150/2011, nella parte in cui, in una controversia in materia di liquidazione di onorari di avvocato di cui all'art. 28 l. n. 794/42, anch'essa assoggettata dal predetto d.lgs. alla cognizione del giudice collegiale nelle forme del rito sommario di cognizione, non consentono, anche in ipotesi di contestazione dei fatti costitutivi del credito dedotto in giudizio e di conseguente ampliamento del thema decidendum, la conversione del rito sommario in rito ordinario, con conseguente declaratoria di inammissibilità del giudizio sommario ed onere per il creditore di reintrodurre il giudizio nelle forme ordinarie. La Consulta ha ritenuto che non fossero stati violati i criteri della legge-delega, atteso che proprio quest'ultima prevedeva il principio della non convertibilità nel rito ordinario dei procedimenti da assoggettare al rito sommario, sicchè non poteva predisporsi una diversa regolamentazione per la sola ipotesi del procedimento di cui all'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, a pena di creare una irragionevole eccezione alla tendenziale uniformità perseguita dal legislatore nell'opera di riduzione e semplificazione dei riti speciali.

Omesso mutamento del rito e conseguenze

L'omesso mutamento del rito (da quello speciale a quello ordinario o viceversa) non determina ipso iure l'inesistenza o la nullità della sentenza, ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. civ., n. 1332/17, Cass. civ., n. 1448/15); rileva, altresì, quando il vizio abbia inciso sulla determinazione della competenza ovvero sul regime delle prove (Cass. civ., n. 1222/06, Cass. civ., n. 9356/02).

La Suprema Corte ha, altresì, precisato che la trattazione della causa con il rito locatizio, invece che con quello ordinario, non involge una questione di costituzione del giudice e che, pertanto, essa determina solo una nullità relativa da considerarsi sanata se non sollevata nella prima difesa o istanza successiva al compimento dell'atto processuale viziato (Cass. civ., n. 1332/17).

Casistica

CASISTICA

Esclusione della rimessione in termini

Il mutamento del rito da ordinario a speciale non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare l'integrazione, prevista dall'art. 426 c.p.c., degli atti introduttivi, alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. (In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto tardiva l'eccezione - ben proponibile, nella fattispecie, nella comparsa di costituzione e risposta - di illegittimità di un secondo licenziamento formulata dal lavoratore soltanto con la memoria difensiva successiva al mutamento del rito). Cass. civ., n. 10569/17.

Il mutamento del rito da ordinario a speciale non determina la rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua del rito ordinario, ma, sul piano formale, gli atti posti in essere anteriormente al passaggio al rito speciale devono essere valutati in base alle regole di quello ordinario, sicché sono ammissibili le domande di ripetizione di somme asseritamente pagate in esubero a titolo di canone di locazione e di restituzione di quanto versato a titolo di deposito cauzionale, perché proposte prima del mutamento del rito ex art. 426 c.p.c., ove vi sia stata accettazione del contraddittorio sul punto (Cass. civ., n. 27519/14).

Non impugnabilità con regolamento di competenza

Non è impugnabile con il regolamento di competenza il provvedimento con cui il giudice, investito secondo il rito locativo di un cumulo di cause, principali e riconvenzionali, rigetti od accolga l'istanza della parte diretta ad ottenere il cambiamento del rito ed il passaggio alla trattazione con il rito ordinario ai sensi dell'art. 40, comma 3, c.p.c., trattandosi non già di una decisione sulla competenza, bensì solo sul rito con cui il giudice adito deve trattare la causa (Cass. civ., n. 14367/15).

In materia di opposizione all'esecuzione

Ove sia stato intimato da un Comune ad un privato il pagamento di una somma a titolo di indennità di occupazione abusiva di aree pubbliche ed il privato abbia promosso il giudizio di opposizione con le modalità del procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione anziché con il rito dell'opposizione all'esecuzione di cui all'art. 615 c.p.c., ciò non costituisce di per sé motivo di inammissibilità della domanda, né di invalidità assoluta del giudizio, essendo il giudice tenuto, anche d'ufficio, a disporre la conversione del rito e a fissare un termine per l'eventuale integrazione dell'atto introduttivo (Cass. civ., n. 16471/11).

Nel giudizio in cassazione

Non sussiste alcun obbligo, né vi sono ragioni di opportunità, perché, all'esito dell'adunanza in camera di consiglio, il collegio rimetta la causa che preveda la trattazione di questioni rilevanti o, comunque, prive di precedenti in pubblica udienza, mediante una sorta di mutamento del rito di cui all'art. 380-bis.1 c.p.c. Invero, una simile soluzione sarebbe priva di costrutto, essendo la trattazione con il rito camerale pienamente rispettosa sia del diritto di difesa delle parti, le quali, tempestivamente avvisate entro un termine adeguato del giorno fissato per l'adunanza, possono esporre compiutamente i propri assunti, sia del principio del contraddittorio, anche nei confronti del P.G., sulle cui conclusioni è sempre consentito svolgere osservazioni scritte (Cass. civ., n. 8869/17).

Riferimenti
  • AA.VV., Codice di procedura civile commentato (a cura di P. Cendon), Giuffrè, 2012;
  • AA.VV., Codice di procedura civile operativo, Napoli, 2017;
  • Buffone – Curto' – Ianni, Disposizioni generali e rito del lavoro, 2013;
  • Carleo – Buttafoco – Sinisi - Troncone, Commentario sistematico al codice di procedura civile, 2016;
  • Carpi – Taruffo, Commentario breve al codice di procedura civile, 2017;
  • Carrato - Scarpa, Le locazioni nella pratica del contratto e del processo, Milano, 2015;
  • Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, I procedimenti speciali, 26^ ed., 2017;
  • Taraschi, Il procedimento per la convalida di sfratto, Piacenza, 2016;
  • Trapuzzano, Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione alla luce del d.l. n. 132/2014, in www.ilProcessoCivile.it;
  • Zaccaria, Commentario breve alla disciplina delle locazioni immobiliari, 2017, sub artt. 426 e 427 c.p.c..
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