La dichiarazione di fallimento della società in concordato: il problema dell’omisso medio

26 Aprile 2018

Allorché sia decorso l'anno di cui all'art. 186 l. fall., è da ritenersi che il potere di promuovere istanza per la dichiarazione di fallimento si riespanda in favore dell'imprenditore e del pubblico ministero, rilevandosi l'insolvenza nella incapacità di far fronte con regolarità alle obbligazioni assunte con la proposta concordataria e maturate durante la procedura.
Massima

Allorché sia decorso l'anno di cui all'art. 186 l. fall., è da ritenersi che il potere di promuovere istanza per la dichiarazione di fallimento si riespanda in favore dell'imprenditore e del pubblico ministero, rilevandosi l'insolvenza nella incapacità di far fronte con regolarità alle obbligazioni assunte con la proposta concordataria e maturate durante la procedura.

Il caso

Con il provvedimento in oggetto il Tribunale di Rovigo torna ad affrontare la controversa questione concernente la possibilità di far dichiarare il fallimento di una società assoggettata a concordato preventivo (omologato) in assenza della preventiva risoluzione del concordato stesso.

Nei fatti in causa, un creditore concordatario ricorreva al Tribunale perché fosse dichiarata ex art. 186 l. fall. la risoluzione del concordato e, in via consequenziale, fosse accertato lo stato di insolvenza della società debitrice e, quindi, ne fosse dichiarato il fallimento. Quest'ultima eccepiva la decorrenza del termine decadenziale di cui al terzo comma dell'art. 186 l. fall. e, in ogni caso, l'inammissibilità della dichiarazione di fallimento omisso medio.

Il Tribunale di Rovigo ha rilevato in primo luogo “che il sistema prevede già endemicamente (ed indiscutibilmente) la possibilità che una società in concordato sia dichiarata fallita senza la preventiva risoluzione, allorché vi sia stata continuità aziendale, sia maturata una nuova insolvenza e agisca in giudizio un creditore non concordatario, bensì "nuovo (nel senso che ha maturato un credito dopo la omologazione del concordato in virtù della prosecuzione dell'attività imprenditoriale)”. Di conseguenza, conclude che “allorché sia decorso l'anno di cui all'art. 186 l.f. (durante il decoroso di tale termine la ammissione del c.d. fallimento omisso medio determinerebbe evidentemente una violazione implicita dell'art. 186 l.f., poiché sulla base di presupposti diversi e più ampi si otterrebbe il medesimo effetto della risoluzione limitata sotto il profilo della legittimazione attiva e sotto quello più stringente dei presupposti), [è predicabile che] si riespanda un potere di istanza fallimentare sia da parte dell'imprenditore, sia da parte del pubblico ministero, rivelandosi l'insolvenza nella incapacità di far fronte con regolarità - ovvero secondo le modalità e i tempi del piano - alle obbligazioni assunte con la proposta concordataria e maturate durante la procedura”.

Si osservi, per completezza espositiva, come l'argomentazione ora citata rappresenti in realtà un obiter dictum, giacché il Tribunale, disattendendo l'eccezione di tardività della domanda promossa ex art. 186 l. fall., ha preliminarmente accolto la richiesta di risoluzione della procedura e solo consequenzialmente accertato lo stato di insolvenza e, dunque, dichiarato il fallimento della società. Cionondimeno, quanto affermato si offre quale utile spunto per una ricognizione della tematica.

Impostazione del problema

Come noto, ai sensi del riformato art. 186 l. fall. solo i creditori concordatari sono legittimati a richiedere la risoluzione del concordato, qualora l'inadempimento non abbia scarsa importanza e purché la domanda sia proposta entro un anno dalla “scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato”.

Con la riforma operata dal D.Lgs 12 settembre 2007, n. 169 è stata, peraltro, abrogata la disposizione precedentemente prevista dal terzo comma in base alla quale “con la sentenza che risolve o annulla il concordato il tribunale dichiara il fallimento”.

Parte della dottrina ha interpretato la riformulazione della norma in esame come sintomo della maggiore attenzione riservata agli interessi del ceto creditorio, alla luce della quale si è quindi contestata la possibilità che durante l'esecuzione del concordato soggetti esterni al ceto creditorio stesso possano richiedere l'accertamento dello stato d'insolvenza della società e la conseguente dichiarazione di fallimento (F. Lamanna, Fallimento dell'impresa in concordato senza previa risoluzione: un problema ancora aperto, in questo portale, 5 maggio 2017).

Con opposto orientamento si è, invece, pronunciata parte della giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto per il Pubblico Ministero e per il debitore in concordato la legittimazione a richiedere il fallimento omisso medio.

Tra le due soluzioni ora richiamate appare, però, residuare lo spazio per una lettura intermedia la quale, non escludendo in assoluto la possibilità di dichiarazione di fallimento in assenza di preventiva risoluzione del concordato, la circoscriva ad ipotesi compatibili con il sistema. In questa prospettiva, risulta utile affrontare la questione secondo un'argomentazione di tipo induttivo e quindi analizzare, seppur in estrema sintesi, la (eventuale) legittimazione dei diversi soggetti coinvolti - il pubblico ministero,il debitore concordatario ed il creditore pretermesso - e valutare se sia possibile ricavare una regola generale partendo dall'analisi del caso particolare.

La legittimazione del Pubblico Ministero

La fattispecie è stata espressamente affrontata dalla sentenza 26 luglio 2016 del Tribunale di Torino, che ha riconosciuto la legittimazione del Pubblico Ministero rilevando che lo stesso rientra “nel novero di quelli legittimati ex art. 6 e 7 l.fall.”.

Detta interpretazione, tuttavia, si espone ad un'obiezione decisiva. Come rilevato in dottrina, infatti, “non sembra decisivo riferirsi all'art. 6 (e ai soggetti da esso legittimati) come regola valevole in tutte le situazioni di insolvenza. Ed invero, l'art. 186 si pone in rapporto di specialità rispetto alla norma generale dell'art. 6, che trova appunto applicazione nella misura in cui non vi sia una lex specialis a disporre diversamente. La disciplina del concordato non consente di agire nei confronti del debitore per l'esatto adempimento degli obblighi concordatari (nel cui ambito si potrebbe essere tentati di far rientrare l'istanza di fallimento), bensì esclusivamente – come si è visto – per la risoluzione del concordato, dalla quale soltanto può scaturire il successivo – e consequenziale – fallimento” (S. Ambrosini, La risoluzione del concordato preventivo e la (successiva?) dichiarazione di fallimento: profili ricostruttivi del sistema, in Il caso).

La legittimazione del debitore

Per tale ipotesi può essere richiamata la sentenza del 13 aprile 2016 del Tribunale di Napoli Nord (nello stesso senso anche Trib. Venezia, 29 ottobre 2015, entrambe in questo portale).

Il collegio, in particolare, afferma “la possibilità giuridica di dichiarare il fallimento dopo l'omologa del concordato nel caso in cui risulti, tramite una valutazione ex post e in concreto svolta dal tribunale in sede di giudizio prefallimentare e in eventuale antitesi rispetto al giudizio ex ante e in astratto compiuto in sede concordataria sulla fattibilità economica del piano, che l'accordo non abbia risolto la situazione di insolvenza ovvero la stessa sia sopraggiunta nella fase di esecuzione del concordato”.

In proposito, tuttavia, altra giurisprudenza ha convincentemente obiettato che “non si vede quindi la ragione (e neppure l'istante la spiega) per la quale in pendenza del termine per la risoluzione si dovrebbe ritenere superabile la previsione normativa di cui agli artt. 186 e 137 l.f. che consente la dichiarazione di fallimento solo in consecuzione, previa risoluzione del concordato.Ciò vale parimenti nell'ipotesi in esame di ricorso per auto-fallimento. Quale sarebbe la norma costituzionale che imporrebbe la soluzione invocata? Ancora, quale sarebbe l'interesse giuridico a tutela del quale si dovrebbe consentire al debitore in concordato di richiedere il proprio autofallimento in presenza di un concordato liquidatorio inadempiuto? I creditori sono infatti già tutelati da una procedura concorsuale che assicura il rispetto della par condicio creditorum” (Trib. Padova, 30 marzo 2017).

La legittimazione del creditore pretermesso

Sul punto si è pronunciata la Corte Costituzionale con sentenza (interpretativa di rigetto) n. 106 del 7 aprile 2004, rilevando come “la tesi secondo la quale l'assenza della risoluzione del concordato impedirebbe non soltanto dichiarazione di fallimento “in consecuzione”, ma anche una autonoma dichiarazione di fallimento – la quale, ferma l'obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura, prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa – non è affatto imposta dalla legge (e, tanto meno, dal “diritto vivente”), bensì è frutto di una interpretazione che privilegia un – rispettabile ma opinabile – profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente “quella” insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all'art. 5 legge fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura. E' del tutto evidente che il giudice rimettente – investito, ex art. 18 legge fall., della questione della legittimità della dichiarazione di fallimento – ben potrebbe, e dovrebbe, adottare una interpretazione conforme a Costituzione in luogo di quella “sistematica” che egli ritiene confliggente con le evocate norme costituzionali; sicché, ferma l'obbligatorietà della falcidia concordataria sui crediti anteriori, dovrebbe verificare se l'inadempimento di tali crediti, da parte di soggetto qualificabile come imprenditore commerciale, era tale da potersi definire come insolvenza, ai sensi dell'art. 5 legge fall., e trarne le conseguenze di legge in ordine alla legittimità della sentenza dichiarativa di fallimento”.

Conclusioni

La tesi che afferma la possibilità (soltanto) per il creditore pretermesso di richiedere il fallimento omisso medio risulta condivisibile e compatibile con il sistema. Un'opposta interpretazione, infatti, rappresenterebbe un vulnus al diritto di difesa del creditore che, proprio in quanto pretermesso, non potrebbe ricorrere al Tribunale per far dichiarare la risoluzione del concordato e, quindi, si troverebbe privo di una reale tutela. Ciò, peraltro, in una procedura che, a differenza del fallimento, non prevede un effettivo giudizio di accertamento del passivo.

Se, in conclusione, nel rinnovato concordato preventivo il baricentro del sistema si è spostato “dall'eterotutela giudiziale all'autotutela dei creditori” – e questo, a ben vedere, comporta che non possa residuare in capo al pubblico ministero o al debitore concordatario un'autonoma legittimazione alla dichiarazione di fallimento omisso medio – non potrà, di contro, non ammettersi l'esistenza di tale legittimazione in favore del creditore escluso dalla proposta concordataria.

Guida all'approfondimento

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