Prova per testimoni e limiti oggettivi: evoluzione giurisprudenziale
26 Aprile 2018
Inquadramento normativo e sviluppi giurisprudenziali
Per testimone si intende quel soggetto che, pur essendo estraneo ad una lite, ha comunque la percezione diretta (de visu vel auditu) di alcuni fatti passati ritenuti rilevanti per l'insorta controversia e, in ragione di ciò, viene citato in giudizio ad iniziativa di parte o su ordine del giudice, al fine di rendere una dichiarazione orale avente ad oggetto la ricostruzione storica di quanto in sua conoscenza (cfr., fra tutti, Andrioli, 329; Carnelutti, 123; Chiovenda, 826; Laudisa, 47-52; Taruffo, 729). Ciò premesso, occorre innanzitutto rilevare che la giurisprudenza ha costantemente precisato che la ratio dei limiti previsti dagli artt. 2721, 2722, 2723 e 2726 c.c., non è ricondotta a ragioni di ordine pubblico, quanto piuttosto all'esigenza di tutelare interessi di natura privatistica, cioè stabilite nell'esclusivo interesse delle parti. Da ciò consegue che l'inammissibilità della prova testimoniale potrà essere eccepita solamente dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio e, all'opposto, non potrà essere rilevata d'ufficio. Difatti, secondo quanto precisato dalla Suprema Corte nella nota sentenza n. 21443/2013, la violazione delle suddette limitazioni, non solo non può essere rilevata d'ufficio dal giudice, ma neppure è rilevabile dalle parti ove non sia stata dedotta in sede di ammissione della prova, ovvero nella prima istanza o difesa successiva o, quanto meno, in sede di espletamento della stessa (cfr. Cass. civ., sez. II, 19 settembre 2013, n. 21443). Vista la natura relativa di tale nullità, ne consegue che, nel caso in cui la prova testimoniale sia stata ammessa nonostante l'eccezione d'inammissibilità della parte interessata, quest'ultima ha comunque l'onere di eccepire, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c., la nullità della prova assunta subito dopo il compimento dell'atto. Secondo la richiamata pronuncia, quindi, l'eccezione d'inammissibilità non va né confusa né sovrapposta a quella di nullità: la prima eccezione, infatti, opera ex ante per impedire un atto invalido; la seconda, invece, agisce ex post per evitare che gli effetti di esso si consolidino. Questo perché, l'interesse a sollevare una determinata eccezione può essere apprezzato in modo differente dalla medesima parte, la quale può valutare comunque vantaggioso l'esito della prova stessa che, in virtù del principio acquisitivo, giova o nuoce indipendentemente da chi abbia dedotto quello specifico mezzo istruttorio. Da quanto appena rilevato, fa eccezione il divieto di prova testimoniale sancito dall'art. 2725 c.c., il quale vieta la prova testimoniale per i contratti per cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam vel probationem, facendo salva l'eccezione della perdita incolpevole del documento di cui all'art. 2724, n. 3, c.c.. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, occorre distinguere il regime di rilevabilità della violazione del divieto a seconda che per il contratto sia richiesta la forma scritta quale prova del negozio, oppure quale elemento essenziale dello stesso: nel primo caso, si ritiene si tratti di un divieto stabilito nell'interesse delle parti e, quindi, derogabile; nel secondo, trovandoci in presenza di contratti per i quali la forma scritta è richiesta a pena di nullità, è pacifico ritenere che la norma in esame tuteli l'ordine pubblico, rendendo conseguentemente rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo l'inammissibilità della prova testimoniale in violazione della norma in commento (cfr. Cass. civ., sez. III, 14 agosto 2014, n. 17986). Ambito di applicazione delle norme
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, il divieto di provare per testimoni si riferisce essenzialmente ai casi in cui il contratto venga invocato in giudizio dalle parti contraenti quale fonte di diritti ed obblighi, vale a dire quale titolo principale della domanda giudiziale, non anche a quelle fattispecie in cui esso sia dedotto in giudizio quale “mero fatto storico” influente per la decisione (cfr. Cass.civ, sez. I, 19 febbraio 2015, n. 3336; Cass.civ., sez. I, 15 luglio 2009, n. 16538; Cass.civ., sez. II, 18 novembre 2005, n. 24395; App. Firenze, 12 maggio 2008, n. 759). Alla luce delle riflessioni teoriche sul giudizio di fatto, si è soliti ritenere che il contratto venga dedotto in giudizio quale “mero fatto storico” in tutti quei casi in cui questo assuma la veste di “fatto secondario”, utile quindi a dimostrare esclusivamente un diverso “fatto principale”. Il “mero fatto storico”, pur non avendo efficacia giuridica diretta, assume rilievo per la sua efficacia indiziaria o presuntiva, idonea a costituire la base per argomentare in via logico-inferenziale l'esistenza o meno di un fatto immediatamente rilevante per la decisione (Taruffo, 207 e ss.). Seguendo la direzione dell'orientamento innanzi riferito, si è giunti a ritenere che il divieto non operi nemmeno quando si tratti di provare “meri fatti storici” che pure risultino rilevanti nell'ambito della fattispecie contrattuale perché connessi alla stipulazione di un contratto, nonché quelli diretti a chiarire il comportamento delle parti o il valore negoziale del documento senza alterarne il contenuto (Cass. civ., sez. II, 9 febbraio 1987, n. 1337; App. Milano, sez. IV, 11 febbraio 2016, n.499). Pertanto, gli atti di accreditamento e di versamento in conto corrente non sono qualificabili quali autonomi negozi giuridici o quali pagamenti (vale a dire come atti estintivi di obbligazioni), ma quali atti di utilizzazione di un unico contratto di conto corrente ad esecuzione ripetuta, dimodoché per essi non valgono i limiti di ammissibilità della prova testimoniale stabiliti dagli artt. 2721 e ss. c.c., in quanto ritenuti meri fatti storici sia pur connessi con il contratto stesso (cfr. Cass. civ., sez. I, 15 luglio 2009, n. 16538). Allo stesso modo, esula dallo spazio applicativo del divieto la prova riguardante accordi con contenuto non patrimoniale o atti illeciti (cfr. Patti, 20). In ogni caso, il limite d'ammissibilità della prova testimoniale vale solo per le parti contrattuali, i loro eredi o aventi causa, non operando quando si tratti di provare contratti che vincolano una parte ad un terzo, ovvero quando il contratto sia prodotto direttamente dal terzo stesso. Ad esempio, è stato ritenuto terzo il curatore che agisce in revocatoria fallimentare (cfr. Cass. civ., sez. I, 19 febbraio 2015, n. 3336), l'erede che agisce in riduzione rispetto alle donazioni dissimulate dal de cuius con altri eredi (cfr. Cass.civ.,sez. II, 25 maggio 2001, n. 7134; Trib. Vicenza, sez. II, 29 febbraio 2016, n. 361), oppure il mandante rispetto all'accordo simulatorio intervenuto tra mandatario e l'acquirente del bene (cfr. Cass. civ., sez. II, 24 aprile 2008, n. 10743). Al di là dei casi disciplinati dall'art. 2726 c.c. con cui si estende il regime degli artt. 2721 e ss. c.c. anche al pagamento e alla remissione del debito (cfr., ad esempio, Trib. Roma, sez. lav., 2 maggio 2017, n. 4007, secondo cui, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2721, 2726 e 2724 c.c., è inammissibile la prova testimoniale articolata dal debitore volta a dimostrare l'avvenuto pagamento), il divieto di prova testimoniale non investe gli atti unilaterali fra vivi aventi contenuto patrimoniale, come la promessa unilaterale di pagamento o il riconoscimento del debito. Difatti, l'art. 1324 c.c. estende a tali atti, ove compatibili, solo le norme che disciplinano il contratto nel suo aspetto sostanziale, non anche il regime di prova cui esso soggiace (cfr. Cass.civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 10989). Le deroghe ai limiti di valore
L'ammissione della prova testimoniale in misura maggiore rispetto ai limiti di valore stabiliti dall'art. 2721 c.c., oltre che oggetto di deroga delle parti, può costituire esercizio di un potere discrezionale del giudice di merito alla luce della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, comunque insindacabile in sede di legittimità ove correttamente motivata (cfr. Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2015, n.8704; Cass.civ., sez. III, 22 maggio 2007, n. 11889). La giurisprudenza, poi, interpreta in termini affatto riduttivi il secondo comma dell'articolo de quo ed ammette che il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dalla norma, non sia obbligato a tenere conto di tutti i criteri indicati dalla disposizione, in quanto elencati soltanto a titolo esemplificativo (cfr. Cass.civ., sez. I, 5 febbraio 1988, n. 1257). Per quanto riguarda la deroga riferita alla qualità delle parti, la giurisprudenza ha dato rilievo ai rapporti personali di convivenza e/o di parentela, nonché a tutte quelle ragioni personali che possono aver indotto le parti a non premunirsi di una prova documentale. Ad esempio, è stata ammessa la prova per testi: della stipula di un contratto di mutuo di modesto valore, tra soggetti legati da un vincolo di parentela (cfr. Cass.civ., sez. VI, 7 giugno 2013, n. 14457); oppure del versamento in contanti di un corrispettivo superiore ai limiti imposti delle norme predette, in considerazione della particolare natura dei rapporti di amicizia intercorsi tra le parti (cfr. App. Milano, sez. II, 2 gennaio 2017, n. 8). In merito alla natura del contratto, invece, occorre fare riferimento agli usi o la prassi in virtù dei quali alcuni contratti, anche se di ingente valore economico, potrebbero non essere stipulati per iscritto; ciononostante, all'opposto, è stata esclusa la possibilità di utilizzare la testimonianza come prova di un accordo concluso solo verbalmente tra operatori commerciali che, di norma, erano soliti concludere i propri contratti per iscritto (Trib. Latina, sez. II, 8 ottobre 2009; Trib. Tivoli, 10 ottobre 2009). Come norma di chiusura, il secondo comma dell'art. 2721 c.c., dispone che il giudice possa ammettere la prova per testimoni facendo richiamo ad “ogni altra circostanza”, così da lasciare allo stesso un ampio margine di discrezionalità, virtualmente indefinito (Taruffo, 744). In conclusione, occorre rilevare come nel giudizio di Cassazione, la parte che lamenti il mancato uso da parte del giudice di merito del potere discrezionale di derogare al limite di valore di cui all'art. 2721 c.c., ha l'onere di indicare le circostanze pretermesse dal giudice e che la medesima reputava determinanti ai fini dell'ammissibilità del mezzo istruttorio (cfr. Cass. civ., sez. III, 29 ottobre 2001, n. 13413; Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2001, n. 7134). I patti aggiuntivi o contrari al contenuto di un documento
Il precetto dell'art. 2722 c.c. rappresenta in modo emblematico il mito del predominio del documento scritto sulla prova orale, esprimendo un'implicita presunzione di inverosimiglianza dell'ipotesi in cui, anteriormente o contestualmente alla conclusione di un contratto, le parti abbiano potuto prevedere patti aggiuntivi o, addirittura, contrari al contenuto del negozio documentato (Comoglio, 571 e ss.; Patti, 37). Il divieto in esame presuppone l'esistenza di una disciplina pattizia diversa da quella risultante dal negozio consacrato in un documento contrattuale, con contenuto aggiuntivo o modificativo del medesimo e collocazione temporale anteriore. Di essa la norma in commento vieta in senso assoluto la prova per testi, poiché si presume che, se le parti hanno consacrato l'accordo contrattuale in un documento, non è verosimile l'apposizione di variazioni senza darne conto per iscritto (la cd. presunzione di completezza del documento contrattuale). Se, da una parte, per patto aggiunto si è soliti intendere quel patto diretto ad ampliare il contenuto del documento contrattuale mediante l'introduzione di un quid che le parti non avevano previsto, dall'altra, per patto contrario si indica l'accordo diretto a modificare o ad estinguere gli effetti delle clausole contrattuali, oppure a contraddire ciò che risulta dal contratto con quanto sarebbe stato pattuito successivamente. Ciononostante, occorre invero precisare che la distinzione tra due tipi di patti è più apparente che reale, poiché la giurisprudenza è solita utilizzare le due categorie in modo congiunto, sintetizzandole nell'incompatibilità diretta tra le risultanze documentali e quelle a cui è diretta la prova orale. Ad ogni modo, occorre precisare che la giurisprudenza ha evidenziato che tale divieto si riferisce al documento contrattuale formato con l'intervento di entrambe le parti e che racchiuda una convenzione, non operando con riguardo agli atti formati unilateralmente da una sola parte (cfr. Cass. civ., sez. III, 7 marzo 2014, n. 5417; Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2006, n. 6109). Ciò non toglie che, fini dell'applicazione del divieto di cui all'art. 2722 c.c., viene considerato documento anche la proposta contrattuale redatta per iscritto, da cui risultino gli estremi di una convenzione e che risulti poi essere stata accettata dal destinatario; tant'è vero che la norma in esame ha trovato applicazione in un caso in cui, sebbene la proposta e l'accettazione risultassero per iscritto, una parte sosteneva di aver revocato la propria proposta contrattuale prima che fosse intervenuta l'accettazione (Cass.civ., sez. III, 19 novembre 1999, n. 12826). Il maggior rilievo pratico assunto dal divieto di cui all'art. 2722 c.c., si è in particolare manifestato nel generale quadro delle azioni di invalidità o di inefficacia contrattuale, allorquando sia controversa la simulazione dell'accordo documentato. Dopo un ampio dibattito giurisprudenziale e dottrinale in merito ai rapporti tra gli artt. 2722 e 1417 c.c., le Sezioni Unite si sono espresse in senso favorevole all'applicazione della norma limitatrice della prova per testimoni anche con riferimento alla simulazione del prezzo pattuito nel contratto di compravendita, poiché – riconosciuto che la simulazione relativa occupa larga parte dell'applicazione dell'art. 2722 c.c. – è stato affermato che la simulazione del prezzo della compravendita, integrando gli estremi della simulazione relativa, soggiace al divieto di prova per testimoni (cfr. Cass.civ., Sez.Un., 26 marzo 2007, n. 7246; nonché Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2012, n. 17761; Trib. Salerno, sez. II, 6 novembre 2017, n. 5025). In questo modo, quando la simulazione di un atto redatto per iscritto è opposta dai contraenti ad un terzo, valgono i limiti di ammissibilità della testimonianza fissati dall'art. 2722 c.c., a meno che non sia dedotta l'illecita del negozio dissimulato, nonché salvo le eccezioni stabilite all'art. 2724 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 2013, n. 3973); nella fattispecie in esame, la prova dell'avvenuta simulazione potrà essere fornita da controdichiarazioni scritte di data certa anteriore o contemporanea al contratto, nonché da altri mezzi quali la confessione o il giuramento. Quando invece l'azione di accertamento della simulazione viene promossa da un creditore delle parti oppure da un terzo, la prova testimoniale è ammissibile senza alcuna preclusione; al tal fine viene considerata come parte (e non come terzo) chi, pur essendo in apparenza estraneo al contratto, assume di essere uno dei soggetti del contratto dissimulato e abbia perciò interesse all'accertamento ed attuazione del medesimo (Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2010, n. 4933). In ogni caso, l'inammissibilità della prova per testimoni della simulazione non può essere rilevata dal giudice in assenza di un'espressa eccezione di parte, la quale, tuttavia, non soggiace al regime di preclusioni previsto dall'art. 416 c.p.c. per la proponibilità delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, ma al diverso limite della prima istanza o difesa successiva all'eventuale assunzione della prova, atteso che la violazione dell'art. 1417 c.c., al pari di quella delle disposizioni di cui agli artt. 2721 e 2722 c.c., dà luogo ad una nullità relativa, soggetta al regime di cui all'art. 157, comma 2, c.p.c. (così, Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2017, n. 14274). I patti posteriori alla formazione del documento
Nel solco dei medesimi assunti appena analizzati (quali, tra tutti, la generale presunzione di completezza del documento contrattuale), l'art. 2723 c.c. si differenzia dall'art. 2722 c.c. poiché affida, ad una maggiore discrezionalità del giudice, le sorti probatorie dei patti aggiuntivi o contrari che si sostiene essere stati stipulati verbalmente dopo la formazione del documento contrattuale (Comoglio, 571 e ss.). A tale norma si può fare ricorso nel caso in cui il giudice esprima un positivo giudizio di probabilità (rectius di “verosimiglianza”) su quanto dedotto dalla parte sul patto aggiunto o contrario al documento, avendo particolare riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza. In particolare, si considera verosimile l'atto che – rapportato alle condizioni personali, di tempo, di luogo che risultano dalla fattispecie in esame – appare simile al vero, cioè probabile. Ovviamente, il potere di ammissione o meno della prova per testi ha natura discrezionale e, il relativo provvedimento, qualora adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità (Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2006, n. 11932; Cass.civ., sez. II, 28 maggio 2004, n. 10319). I patti aggiunti o contrari di cui all'art. 2723 c.c. sono quelli che apportano aggiunte o modifiche alle clausole contrattuali stipulate in forma scritta, destinate a regolare diversamente per il futuro particolari aspetti del contratto, sul presupposto della persistenza o della prosecuzione dello stesso (Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2013, n. 8118). Considerazioni conclusive
La prova testimoniale, proprio per il fatto di essere una dichiarazione resa da terzi su fatti avvenuti nel passato, è senz'altro una delle prove costituende da sempre viste con maggiore diffidenza dagli operatori del diritto; ciò ha comportato che, ai dubbi riguardanti l'attendibilità dei testimoni, nel tempo si sia cercato di rispondere mediante una rigorosa circoscrizione dei casi di ammissibilità di tale prova orale (cfr. Relazione Ministeriale al Codice Civile del 1942 al n. 1114, da cui emerge chiaramente l'intento del Legislatore di determinare con precisione i limiti della prova per testi). Ciononostante, grazie all'utilizzo diffuso dell'istituto della prova testimoniale e allo sforzo profuso dalla giurisprudenza in fase di applicazione dello stesso, la prassi è riuscita ad abbattere, per quanto possibile, quel muro di diffidenza che aleggiava intorno all'istituto, fornendo alla prova per testi un'interpretazione ben più ampia ed elastica rispetto al passato, di cui le parti processuali possono beneficiare sotto l'attento controllo del giudice. Pertanto oggi risulta incontrovertibile la necessità che, alla serie di limitazioni all'ammissibilità della prova per testi poste dagli artt. 2721 e ss. c.c., occorra affiancare gli espedienti ermeneutici attuati dalla giurisprudenza in senso contrario all'asserita pericolosità del mezzo istruttorio esaminato.
|