Opposizione a decreto ingiuntivo con citazione anziché con ricorso: si applica la «sanatoria» prevista dal «decreto semplificazione riti»?
27 Aprile 2018
Massima
In tema di opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento di somme dovute a titolo di canoni di locazione, è tempestiva l'opposizione erroneamente proposta con citazione notificata nel termine di 40 giorni di cui all'art. 641 c.p.c., sebbene essa sia stata depositata in cancelleria dopo lo spirare di detto termine. Il caso
Il locatore di un immobile adibito ad uso diverso dall'abitazione chiede ed ottiene un decreto ingiuntivo per canoni scaduti e non pagati, il tutto per un cospicuo importo, non di molto inferiore al milione di euro. Il conduttore propone opposizione al decreto ingiuntivo, e lo fa con atto di citazione, ossia nelle forme del rito ordinario di cognizione, citazione che iscrive a ruolo poi nel termine di cui all'art. 165 c.p.c.. L'iscrizione a ruolo, e con essa il deposito dell'atto di citazione in cancelleria, ha luogo quando il termine di 40 giorni per l'opposizione a decreto ingiuntivo è ormai scaduto. Ovvia e scontata è l'eccezione di inammissibilità immediatamente formulata dal locatore: l'opposizione a decreto ingiuntivo in materia di canoni di locazione introduce una controversia locatizia e, come tale, è soggetta al rito delle locazioni previsto dall'art. 447-bis c.p.c., rito che è modellato su quello del lavoro — anche se da esso presenta rilevanti differenziazioni —, con la conseguenza che la forma dell'atto introduttivo non è la citazione, ma il ricorso, di guisa che, come ognun sa, la litispendenza si determina non già al momento della notificazione dell'atto, bensì del suo deposito. La qual cosa è oggi espressamente stabilita dall'ultimo comma dell'art. 39 c.p.c.. La conseguenza, secondo il locatore — e per la verità secondo una giurisprudenza sterminata — è che l'opposizione a decreto ingiuntivo deve aversi per proposta tardivamente non nella data in cui è stata notificata la citazione, ma in quella successiva in cui, ormai spirato il termine di 40 giorni di cui all'art. 641 c.p.c., essa è stata depositata al momento dell'iscrizione della causa a ruolo. Il tribunale disattende l'eccezione, e lo fa in applicazione, indubbiamente analogica, di una disposizione del cd. «decreto semplificazione dei riti», l'art. 4 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, del cui contenuto daremo conto tra breve. La questione
La sentenza in commento pone il quesito se la norma appena richiamata sia applicabile in via analogica all'opposizione a decreto ingiuntivo in materia locatizia, ossia ad un procedimento estraneo all'ambito disciplinato dal «decreto semplificazione riti». Le soluzioni giuridiche
L'art. 4 del «decreto semplificazione riti» stabilisce al comma 1 che: «Quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza». Il comma 5 della stessa disposizione soggiunge che: «Gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento. Restano ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento». Secondo il tribunale capitolino la norma in questione porrebbe «un principio generale di salvaguardia degli effetti dell'atto processuale che sia erroneamente posto in essere, dalla parte, adottando un rito diverso da quello prescritto dalla legge per la particolare controversia», principio che sarebbe applicabile «in tutte le controversie (come la presente)» introdotte successivamente all'entrata in vigore del menzionato decreto. Sostiene il giudice che la proposta conclusione interpretativa troverebbe riscontro in alcuni principi risultanti da massime scaricate all'interno della sentenza, le quali convergerebbero nel dimostrare che «l'ordinanza di mutamento del rito … non ha effetti retroattivi, e non abilita ad applicare, ora per allora, le preclusioni e decadenze prescritte per il rito effettivamente adottato, dal giudice, solo a partire da un certo momento del processo». Viene aggiunto che il citato art. 4 non potrebbe dirsi applicabile alle sole controversie regolate dal «decreto semplificazione riti», giacché verrebbero altrimenti violati sia il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., che il diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost.: ed infatti resterebbe oscuro il motivo per cui il legislatore avrebbe inteso introdurre, nell'ordinamento, una esplicita clausola di salvaguardia degli effetti processuali dell'atto introduttivo del giudizio per le sole controversie assoggettate allo stesso decreto e non alle altre, tanto più che il cd. «rito locatizio» altro non sarebbe che lo stesso «rito lavoro» adattato alla materia locatizia, con l'ulteriore conseguenza che il legislatore non lo avrebbe richiamato per aver già considerato, nel corpo della norma, il rito del lavoro vero e proprio. Osservazioni
«La lettura della Costituzione», diceva Salvatore Satta, «produce su certi giuristi l'effetto che la lettura dei libri di cavalleria produceva su Don Chisciotte». La giurisprudenza della Suprema Corte è granitica nell'affermare che l'opposizione a decreto ingiuntivo concesso in materia di locazione, come tale soggetta al rito speciale di cui all'art. 447-bis c.p.c., deve essere proposta con ricorso, sicchè, ove promossa erroneamente con citazione, questa può produrre gli effetti del ricorso solo se sia depositata in cancelleria entro il termine previsto dall'art. 641 c.p.c., non essendo sufficiente che, entro tale data, sia stata notificata alla controparte. Mi limito a citare solo le recenti Cass. civ., 29 dicembre 2016, n. 27343 e Cass. civ., 19 settembre 2017, n. 21671, ma ripeto che i precedenti in tal senso sono innumerevoli, e discendono da una linea di ragionamento che la Corte di cassazione applica non soltanto all'opposizione a decreto ingiuntivo in materia di locazione, ma nei più svariati contesti in cui la parte interessata adotta la citazione per un procedimento da introdursi invece con ricorso o viceversa. Il ragionamento è stato ad esempio impiegato, tanto per citare un caso tra i tanti, in materia di impugnazione avverso l'ordinanza reiettiva del permesso di soggiorno per motivi familiari (Cass. civ., 6 luglio 2016, n. 13815), ossia in un settore in cui, pure, il rilievo sostanziale dei diritti costituzionali in gioco è ben altro rispetto a quello del diritto al pagamento del corrispettivo della locazione. Né ci sono, nella giurisprudenza della Suprema Corte, affermazioni che possano sostenere la motivazione della sentenza in commento: il tribunale fraintende le massime da esso citate, tutte nel senso che la trasformazione del rito non salva — ed è del resto una cosa intuitiva — dallo spirare di un termine già scaduto. Ora, non vorrei essere pedante nel ricordare che i criteri di interpretazione della legge sono stabiliti dalla legge, ed in particolare dalle disposizioni sulla legge in generale, che in tutti i codici civili in commercio precedono il testo del codice. Ora, all'art. 12 delle preleggi è scritto al comma 1 che: «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e della intenzione del legislatore». Orbene, l'art. 4 d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150 si apre con il seguente inciso: «Quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto». C'è scritto, ripeto, «dal presente decreto». Qui, dunque, c'è poco da fare, la norma può piacere o non piacere, ma è chiara che più chiara non si può: il congegno di salvaguardia ivi contemplato si applica alle controversie «previste dal presente decreto». Non alle altre: affermare qualcosa del genere significa mettere in bocca al legislatore un precetto opposto a quello che egli ha licenziato. La norma, riferita al campo di applicazione del «decreto semplificazione riti», non intende esprimere dunque un principio generale, il che è confermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte che ne esclude, ad esempio, l'applicabilità all'appello (Cass. civ., 6 luglio 2016, n. 13815; Cass. civ., 2 agosto 2017, n. 19298). Il tribunale ha perciò applicato l'art. 4 ad un caso che esso non disciplina. Ebbene, il comma 2 dell'art. 12 delle preleggi regola l'analogia legis e l'analogia iuris. Quanto alla prima e detto che: «Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe». E cioè, perché possa ricorrersi all'analogia occorre che sussistano simultaneamente i presupposti dell'absentia iuris e della eadem ratio. In questo caso non c'è né l'una né l'altra. Non c'è l'absentia iuris perché l'opposizione a decreto ingiuntivo in materia di locazione è disciplinata dal combinato disposto degli artt. 641, 645 e 447-bis c.p.c.. Non c'è l'eadem ratio perché il decreto sulla semplificazione dei riti riunisce materie alle quali il legislatore ha ritenuto di riservare determinati modelli processuali, per l'appunto semplificati, diversi da quelli ordinari, sicché quei modelli non possono essere esportati in campi in cui le regole del processo sono altre. La Costituzione. Qui ci sarebbe da fare un discorso lungo, complicato e spigoloso. Mi limito ad un accenno. Il meccanismo descritto dal legislatore costituzionale era chiaro: se il giudice ritiene che una norma sia in contrasto con la Costituzione non può lui disapplicarla, ma deve investire la Corte costituzionale del giudizio di costituzionalità. Poi le cose sono andate diversamente, e si è affermata un'idea di controllo diffuso di costituzionalità che ha prodotto sovente effetti se non altro di disorientamento, giacché ogni singolo giudice può in sostanza a dire quello che gli pare invocando la leva interpretativa della Costituzione. Nel resto del mondo le cose non vanno così: pensate solo all'interpretazione del trattato dell'unione, che è rimessa alla Corte di giustizia attraverso il congegno del rinvio pregiudiziale. Ma tant'è. Ciò detto, la verifica del rispetto del parametro dell'uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. si fa in funzione di un tertium comparationis, che in questo caso non è menzionato. Basterà ripetere che il «decreto semplificazioni riti» riguarda materie specificamente individuate, per le quali il legislatore non ritiene di ricorrere al procedimento di cognizione ordinario, sicché l'applicazione in tale contesto di regole processuali peculiari è del tutto ovvia. Il legislatore non applica norme diverse a casi uguali, applica norme diverse a casi diversi. Il richiamo all'art. 24 Cost., poi, davvero non mi è chiaro: come può mai essere pregiudicato il diritto di azione se nulla impedisce all'opponente a decreto ingiuntivo in materia di locazione di proporre tempestivamente l'opposizione con decreto, sol che si documenti, come è agevole fare, del rito applicabile? Chiudo. Il processo civile è una cosa complicata. E non è un caso che le parti non possono stare in giudizio personalmente ma debbano servirsi di tecnici della materia. I tecnici, ossia gli avvocati, non subiscono benefici da pronunce che si discostano da orientamenti consolidati. Subisce un beneficio il singolo avvocato che vede respinta l'eccezione di inammissibilità proposta nei confronti della parte da lui rappresentata, tutti gli altri vengono fuorviati. Credo che molti avvocati arrivati a conclusione della lettura di questa nota converranno su un punto: in procedura civile è assai spesso meglio tenersi regole magari severe, ma certe, piuttosto che generare ulteriore incertezza, come se quella che c'è non bastasse. |