La Corte costituzionale “re-introduce” la proponibilità della domanda di equa riparazione lite pendente
02 Maggio 2018
Massima
É costituzionalmente illegittimo l'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. Pinto), nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto. Il caso
Con distinte ordinanze, la Corte di cassazione sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. Pinto), come sostituito dall'art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. in legge n. 134/2012), per assunto contrasto con gli artt. 3, 24, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., in relazione, quest'ultimo, agli artt. 6 e 13 della CEDU, nella parte in cui non contempla, come avveniva nella formulazione previgente a tale modifica normativa, la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione lite pendente. Era posto in rilievo, mediante tali ordinanze di rimessione, che la medesima Corte costituzionale, già sollecitata a pronunciarsi su analoghe questioni, con la sentenza n. 30/2014, pur ravvisando nel differimento all'esperibilità del rimedio all'esito del giudizio presupposto un vulnus all'effettività dello stesso, aveva sollecitato un intervento del legislatore. Peraltro, la legge 28 dicembre 2015, n. 208, nel prevedere, quali condizioni di procedibilità della domanda ex lege Pinto, alcuni rimedi acceleratori non aveva risolto né inciso sulla problematica. La questione
La questione posta all'esame della Corte costituzionale si correla alla possibilità di ritenere rimedio giurisdizionale effettivo, in conformità agli artt. 24 e 111 Cost., nonché all'art. 117 Cost. – laddove prevede un vincolo del legislatore ordinario al rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale – con riguardo agli artt. 6 e 13 CEDU, quello contemplato per ottenere l'equa riparazione per irragionevole durata dei processi dalla legge cd. Pinto nella parte in cui, nel sistema successivo alla legge n. 134/2012, non è più prevista la possibilità di proporre la relativa domanda nel corso del giudizio presupposto, ma soltanto una volta concluso lo stesso (entro il termine di decadenza di sei mesi dal momento nel quale la decisione è divenuta definitiva). Finalità della novella normativa, come evidenziato nella Relazione illustrativa, era quella di evitare il frazionamento del credito relativo all'equo indennizzo dovuto per il ritardo nella definizione di uno stesso processo che poteva derivare dalla possibilità di proporre la domanda lite pendente, che non escludeva, invero, quella, definito il giudizio, di richiedere, nel termine di sei mesi stabilito dall'art. 4 della legge n. 89/2001, l'indennizzo correlato all'ulteriore ritardo maturato nel corso dello stesso. Nondimeno l'inammissibilità della domanda ex lege Pinto nella pendenza del processo presupposto, nell'assetto successivo al d.l. n. 83/2012, si pone in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo per la quale, ai fini della proponibilità di una domanda di equa riparazione, non è necessario che il giudizio in questione sia stato definito, ma soltanto che abbia superato la “soglia” di durata ragionevole. La dottrina più autorevole aveva evidenziato che, in tale prospettiva, il rischio era quello di minare l'effettività del rimedio interno all'eccessiva durata dei processi introdotto dalla legge n. 89/2001 escludendo per le parti la possibilità di richiedere l'equo indennizzo proprio nelle situazioni di più grave ritardo (cfr. Consolo – Negri, 1434; Martino, 552). Le soluzioni giuridiche
La Corte costituzionale, con la pronuncia in esame, ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della l. n. 89/2001, laddove non contempla l'azione indennitaria lite pendente, con riferimento agli artt. 3, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo quale “norma interposta” rispetto agli artt. 6 e 13 CEDU. Tale soluzione è stata argomentata ricordando che, con la propria precedente decisione n. 30/2014, la Corte costituzionale aveva già rilevato la lesione di tali parametri, invitando il legislatore ordinario ad intervenire sulla problematica. La decisione in commento evidenzia, tuttavia, che la legge n. 208/2015, introducendo alcuni rimedi preventivi, il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione, e costituiti dal necessario impiego di riti semplificati o dalla formulazione di istanze acceleratorie, non ha risolto la questione del vulnus all'effettività del rimedio interno arrecata dalla modifica del predetto art. 4 della l. n. 89/2001 ad opera del d.l. n. 83/2012. La ragione fondamentale è che i rimedi in questione, oltre ad incidere, quanto all'introduzione della causa secondo riti più celeri, soltanto per il futuro, si sostanziano nella richiesta di un comportamento diligente della parte interessata ad ottenere l'indennizzo ma non garantiscono una definizione anticipata del giudizio, rimessa in via esclusiva alle scelte dell'autorità giudiziaria. Ne deriva l'ineffettività del rimedio interno, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, che finisce con l'escludere l'accesso alla tutela indennitaria proprio nelle situazioni di più grave ritardo nella definizione del giudizio presupposto. Osservazioni
La decisione della Corte costituzionale deve condividersi, in quanto riconduce il sistema alla necessaria conformità con l'assetto di tutela, ripartito tra giudice nazionale e Corte di Strasburgo, contemplato dal sistema della CEDU. A riguardo, occorre infatti ricordare che il meccanismo sovranazionale di garanzia incardinato nel sistema della Corte europea dei diritti dell'uomo ha carattere sussidiario rispetto alla tutela dei diritti umani che deve essere assicurata innanzitutto in ambito interno. In particolare, il primo paragrafo dell'art. 35 CEDU stabilisce che la Corte europea non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, per come inteso in accordo con i princìpi di diritto internazionale generalmente riconosciuti: tale previsione è conforme ad una regola generale del diritto internazionale consuetudinario, in virtù della quale gli Stati sono tenuti a riconoscere un determinato trattamento agli stranieri sul proprio territorio in mancanza del quale lo Stato di nazionalità degli stessi potrà esercitare la protezione diplomatica ma ciò, soltanto, laddove la vittima si fosse previamente avvalsa nello Stato ospite di ogni strumento di ricorso disponibile ed effettivo idoneo ad accordargli un ristoro a fronte della violazione dei propri diritti. Proprio in relazione alla problematica dell'eccessiva durata dei processi, invero, la Corte di Strasburgo, sin dalla nota pronuncia Kudla c. Polonia, suffragando un'innovativa concezione “positiva” del principio di sussidiarietà, ha evidenziato che gli Stati contraenti sono tenuti, ai sensi dell'art. 13 CEDU, ad introdurre al proprio interno specifici rimedi per lamentare l'eccessiva durata dei processi, ciò è in contrasto con l'art. 13 CEDU, in virtù del quale «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettiva davanti ad un'istanza nazionale» (Corte europea dei diritti dell'uomo, Gr. Ch., 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia). Tali rimedi interni, tuttavia, devono essere effettivi, assicurando una tutela adeguata ed accessibile, non essendo altrimenti precluso l'accesso diretto alla tutela in sede sovranazionale (cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, Gr. Ch., 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
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