Rettifica ex post del bilancio e superamento delle soglie di fallibilità

Silvia Zenati
04 Maggio 2018

Non può considerarsi bilancio intermedio di liquidazione un bilancio riapprovato dopo un anno e mezzo dalla sua chiusura, che risulti privo del verbale di consegna ai liquidatori e della situazione contabile alla data di effettivo scioglimento della società, nonché privo del rendiconto della gestione degli amministratori e del bilancio ed inventario iniziale di liquidazione, oltre che privo dei criteri di valutazione adottati.
Massima

Non può considerarsi bilancio intermedio di liquidazione un bilancio riapprovato dopo un anno e mezzo dalla sua chiusura, che risulti privo del verbale di consegna ai liquidatori e della situazione contabile alla data di effettivo scioglimento della società, nonché privo del rendiconto della gestione degli amministratori e del bilancio ed inventario iniziale di liquidazione, oltre che privo dei criteri di valutazione adottati. Un tale bilancio, dunque, siccome redatto con il solo intento di abbassare l'attivo patrimoniale al di sotto dei limiti di fallibilità di cui all'art. 1 l.fall., non può essere considerato ed utilizzato a tale scopo.

Il caso e le questioni giuridiche sottese

La sentenza della Corte d'appello di Milano, resa in ordine al reclamo proposto dal liquidatore civile avverso la dichiarazione di fallimento, affronta il problema della verifica del superamento delle soglie di fallibilità di cui all'art. 1 l.fall., nella particolare fattispecie di una società che, nel periodo interessato dalla verifica di legge, si trovi in stato di liquidazione.

Inoltre, la sentenza prende posizione anche in merito alla possibilità di rettificare ex post il bilancio di una delle annualità prese in esame ai fini della verifica di superamento, o meno, delle soglie.

Il reclamante nel caso di specie deduceva, infatti, che la società, nel periodo antecedente la dichiarazione di fallimento, era stata posta in liquidazione volontaria, e che il bilancio del primo periodo di liquidazione era stato inizialmente redatto secondo i principi di valutazione di un'azienda in continuità, secondo criteri di going concern.

Accortosi dell'errore, il liquidatore avrebbe provveduto a redigere un bilancio rettificativo, regolarmente approvato e depositato, a valori di realizzo, essendo venuto meno il riferimento alla continuazione dell'attività d'impresa, così giustificando la valutazione delle attività al costo storico: secondo il liquidatore tale mutamento di prospettiva giustificava altresì l'eliminazione dei costi pluriennali dal bilancio della società.

Grazie a tale mutamento nei criteri di rilevazione, l'attivo patrimoniale di bilancio sarebbe sceso sotto soglia, determinando il venir meno di uno dei presupposti dimensionali normativamente previsti ai fini della dichiarazione di fallimento della società.

Ciò premesso, merita, quindi, di essere analizzato il profilo della verifica dei requisiti dimensionali, tenuto conto che è espresso onere del debitore, che voglia escludere la propria assoggettabilità a fallimento, di allegare e provare il possesso congiunto dei tre requisiti dimensionali indicati nelle lettere a), b), c) dell'art. 1, comma 2, l.fall.,. ciò in quanto il legislatore ha inteso evitare, con l'introduzione di tali limiti, l'attivazione di procedure concorsuali qualora il dissesto produca trascurabili ripercussioni sull'economia.

In questa ottica, pur rilevando come i parametri dimensionali siano in linea generale desumibili dalle scritture contabili dell'imprenditore, si è valorizzata la prevalenza della sostanza sulla forma, in quanto ciò che rileva sono le risultanze sostanziali della contabilità (cfr. Trib. Udine, 30 novembre 2012, in Il caso, che, valutata l'errata contabilizzazione della voce titolare conto prelievi, ha ritenuto di respingere l'istanza di fallimento, osservando che “ciò che rileva sono le risultanze sostanziali della contabilità”).

Quindi, l'attivo patrimoniale deve essere tale da esprimere e rappresentare la reale dimensione dell'impresa, anche prescindendo dalla formale applicazione dei principi contabili e della normativa in tema di redazione dei bilanci, “ogniqualvolta la loro applicazione rigorosa possa comportare una divergenza tra il dato formale contabile e la realtà economica dell'impresa” (Trib. Udine, 13 gennaio 2012, in Il caso).

A questa apertura sostanziale all'apprezzamento e valorizzazione della realtà aziendale fa da pendant la assoluta centralità e rilevanza riconosciuta dalla dottrina agli articoli 2424 e 2425 c.c., giusta il disposto dell'art. 2217, comma 2, c.c., ai sensi del quale "nelle valutazioni di bilancio, l'imprenditore deve attenersi ai criteri stabiliti per i bilanci delle società per azioni, per quanto applicabili" (B. Quatraro, Istruttoria prefallimentare e dichiarazione di fallimento: la prassi milanese, in L. Panzani, Il fallimento atto terzo: spunti di dottrina e giurisprudenza, Milano, 2008, 44 e ss.).

Premesso che, come sottolineato dalla Suprema Corte (Cass. 7 aprile 2016, n. 6752), nella ricostruzione dell'attivo patrimoniale assume diretto rilievo l'appostazione contabile in sé, senza che le considerazioni critiche indicate in nota integrativa o la richiesta del debitore possano consentire ex post una rivalutazione di veridicità del bilancio, per attivo patrimoniale deve intendersi il complesso delle voci di cui all'articolo 2424 c.c., appostate in conformità ai criteri di valutazione previsti dal successivo art. 2426 c.c.: per le immobilizzazioni, il criterio di valutazione, a valori di funzionamento, è il costo storico o il costo di produzione.

Si applicano in materia, in quanto espressamente richiamati dalla legge, i principi contabili nazionali emanati dall'Organismo Italiano di Contabilità (OIC), ispirati alla migliore prassi operativa, per la redazione dei bilanci secondo le disposizioni del codice civile.

Nel caso in cui i principi contabili nazionali non fossero adeguati, si può ricorrere ai principi contabili internazionali IAS-IFRS (di cui al D.lgs. 28 febbraio 2005, n. 38, adottati secondo la procedura ex art. 6 del Regolamento CE n. 1606/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002), in linea con il principio, dianzi delineato, che vuole escluse dal fallimento le imprese di minori dimensioni.

Ciò potrebbe portare all'adozione del criterio del “fair value”, considerando le attività patrimoniali al presumibile valore di realizzo, specie nelle ipotesi in cui l'impresa oggetto di istruttoria prefallimentare si trovi in stato di liquidazione (App. L'Aquila, 24 settembre 2014, in Fall. 2015).

Tali conclusioni non sono in contraddizione con quelle cui è pervenuta la Corte d'appello di Milano nella sentenza in esame, in quanto il ragionamento condotto dall'organo giurisdizionale non mette in discussione la possibilità (rectius la doverosità) di redigere il bilancio di liquidazione secondo criteri di realizzo, piuttosto che di funzionamento, bensì le modalità poste in essere per rettificare un bilancio (intermedio), in origine redatto (asseritamente in maniera erronea) secondo criteri di funzionamento, e i termini entro i quali può essere considerata lecita la rettifica.

Risulta infatti, a parere del giudice milanese, che non siano state rispettate né le norme civilistiche a presidio dello svolgimento di una corretta attività di liquidazione, né le norme OIC in tema di liquidazione.

Quanto alle prime, non è stato rispettato l'art. 2487-bis c.c., che prescrive, una volta avvenuta l'iscrizione al registro delle imprese della nomina dei liquidatori, l'immediata aggiunta alla denominazione sociale della notazione che trattasi di società in liquidazione: in particolare il comma 3 del citato articolo prevede che gli amministratori cessati debbano consegnare ai liquidatori, redigendone apposito verbale, i libri sociali, una situazione contabile alla data dello scioglimento ed un rendiconto sulla loro gestione, relativa al periodo successivo all'ultimo bilancio approvato. Ai sensi dell'art. 2490 c.c., i liquidatori devono redigere il bilancio iniziale e presentarlo all'assemblea per l'approvazione alle scadenze previste per il bilancio di esercizio delle società. Nella relazione i liquidatori devono illustrare l'andamento e le prospettive anche temporali della liquidazione ed i principi e criteri adottati per realizzarla. Nella nota integrativa i liquidatori devono indicare e motivare i criteri di valutazione adottati. Infine, compiuta la liquidazione, i liquidatori, ai sensi dell'art. 2492 c.c., devono redigere il bilancio finale di liquidazione e depositarlo quindi presso il registro delle imprese.

Secondo le norme OIC in tema di liquidazione, in particolare il principio n. 5 approvato nel giugno 2008, l'abbandono dei criteri di funzionamento propri del bilancio di esercizio, di cui agli articoli 2423 e seguenti c.c., ed il passaggio ai criteri di liquidazione “deve avvenire nel momento in cui l'azienda non costituisca più un complesso produttivo funzionante e, a seguito della cessazione dell'attività produttiva, si sia trasformata in un mero coacervo di beni destinati al realizzo diretto, all'estinzione dei debiti e alla ripartizione ai soci dell'attivo netto residuo”. Fino a quel momento, afferma l'Organismo Italiano di Contabilità, i criteri di valutazione di funzionamento possono continuare ad essere applicati, pur nella prospettiva della cessazione dell'attività e della liquidazione dell'impresa.

D'altra parte, sia il principio contabile OIC 29, sia il principio contabile internazionale IAS 10 precisano che, se il presupposto della continuità aziendale al momento della redazione del bilancio non risulta essere più appropriato, è necessario che nelle valutazioni di bilancio se ne tenga conto, confermando in ciò quanto emerge dall'interpretazione delle norma del codice civile in tema di liquidazione.

D'altro canto, è anche vero che il venire meno della continuità aziendale, che giustifica il mutamento dei criteri di valutazione, può verificarsi in un momento qualunque dell'esercizio, senza che vi sia alcuna relazione con la messa in liquidazione della società (un elenco di eventi e circostanze che possono fa sorgere significativi dubbi sulla permanenza di validità del postulato del going concern è contenuto nel paragrafo 8 del documento sui principi di revisione nazionale n. 570 “Continuità aziendale” dell'ottobre 2007, raccomandato dalla CONSOB.).

In conclusione

Tutto questo complesso di adempimenti non sarebbe stato rispettato nella fattispecie in esame, in quanto, come argomentato dai giudici meneghini, il bilancio è stato riapprovato un anno e mezzo dopo la chiusura dell'esercizio cui si riferisce, privo del verbale di consegna ai liquidatori, e della situazione contabile alla data di effettivo scioglimento della società, privo del rendiconto della gestione degli amministratori e del bilancio ed inventario iniziale di liquidazione, nonché privo dei criteri di valutazione adottati.

Da qui la censura della Corte d'Appello di Milano, che ritiene non possa parlarsi in questo caso di un “bilancio intermedio di liquidazione, ma di un bilancio redatto con il solo intento di abbassare l'attivo patrimoniale al di sotto dei limiti di fallibilità di cui all'art. 1 l.fall., e dunque non può essere considerato ed utilizzato a tale scopo”.

Ne consegue che il bilancio in esame, riapprovato a distanza di oltre un anno dall'esercizio di riferimento, oltre a non fornire piena prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità, rende inattendibili, e quindi non utilizzabili, anche i bilanci degli esercizi successivi.

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