I rapporti tra onere di riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte e appello incidentale
07 Maggio 2018
Premessa
Il tema concernente la posizione dell'appellato il quale, pur essendo vittorioso nel merito, abbia però visto risolte a suo sfavore una o più questioni dal giudice a quo, è uno dei temi più controversi del giudizio di impugnazione. La formulazione generica dell'art. 346, infatti, ha dato luogo a non pochi quesiti interpretativi; allo scopo di cogliere l'esatto significato della norma, occorre: 1) individuare l'oggetto dell'iniziativa imposta dalla norma all'appellato e, di conseguenza, l'oggetto dell'appello incidentale; 2) stabilire in che modo debba avvenire detta riproposizione. Riproposizione o appello incidentale? L'impostazione tradizionale seguita dalla giurisprudenza più risalente
Per stabilire quando onerare l'appellato del compito di proporre appello incidentale e quando invece permettergli il più semplice compito di limitarsi alla riproposizione delle domande e delle eccezioni, la giurisprudenza più risalente affermava che l'art. 346 c.p.c. fosse una norma fondamentalmente rivolta alla parte integralmente vittoriosa nel merito, che cioè non avesse risentito alcuna soccombenza materiale, i.e. alcun pregiudizio pratico in seguito alla pronuncia di prime cure; questa parte, dunque, non aveva normalmente l'onere di proporre appello incidentale, neppure in via condizionata all'accoglimento dell'appello principale avversario, ma soltanto quello di riproporre al secondo giudice le domande, le eccezioni, le questioni, le istanze non accolte in prime cure, vuoi perché non esaminate (per omissione o per assorbimento in senso stretto, id est perché ritenute superflue dal primo giudice), vuoi perché espressamente rigettate, ma rimaste assorbite, in senso ampio e sul piano utilitaristico, nella vittoria comunque e altrimenti conseguita, giusta il criterio della «ragione più liquida», cioè di quella che, con il minore sforzo processuale ed istruttorio, aveva consentito di decidere la causa. Secondo quest'impostazione tradizionale, l'interesse ad appellare in via incidentale sussisteva solo in caso di soccombenza pratica, dacché la situazione di pregiudizio prodotta dalla pronuncia di primoe generatrice dell'interesse ad impugnare in via incidentale, in nulla differiva dalla situazione di concreto svantaggio che consente all'appellante di proporre appello in via principale; pertanto, in mancanza di una tale soccombenza pratica (fatto salvo il caso in cui la soccombenza teorica fosse derivata da sentenza non definitiva, poiché in tal caso l'appello incidentale diveniva inevitabile, quale mezzo ordinario di impugnazione di una sentenza, anche non definitiva, cui la riproposizione ex art. 346 non poteva in alcun modo sopperire), si riteneva che la parte non avesse interesse ad appellare la sentenza di prime cure, ma potesse semplicemente riproporre al secondo giudice tutto ciò che riteneva opportuno venisse riesaminato o esaminato per la prima volta in appello, per il caso in cui la decisione sulle parti di sentenza impugnate ex adverso fosse modificata dal giudice ad quem, secondo un criterio (che si potrebbe definire) di «assorbimento in senso lato» della domanda o dell'eccezione o dell'istanza non accolta, nel senso di indifferenza utilitaristica del rigetto o del mancato esame della stessa rispetto alla vittoria altrimenti conseguita in prime cure dalla parte appellata (Cass. civ., 14 aprile 2015, n. 7457; Cass. civ., 12 dicembre 2014, n. 26159; Cass. civ., 12 giugno 2014, n. 13411, in Foro it., 2015, I, 1751; Cass. civ., 14 marzo 2013, n. 6550; Cass. civ., 6 luglio 2011, n. 14925). Nel concetto fondato sull'indifferenza utilitaristica per un soggetto del mancato esame o del rigetto di domande o di eccezioni venivano inglobati tutti quei casi in cui la domanda, la ragione di essa o l'eccezione non esaminate o, addirittura, espressamente respinte, restavano superate dalla vittoria altrimenti conseguita, senza recare alla parte alcun pregiudizio sotto un profilo pratico-utilitaristico, sicché le «domande e le eccezioni non accolte» (anche se espressamente respinte) venivano, appunto, «assorbite» dal vantaggio altrimenti apportato alla parte tramite la sentenza. Dunque, in definitiva, il criterio usato era il seguente: l'appellato vittorioso nel merito era tenuto a proporre appello incidentale solo allorché avesse mirato al conseguimento di un'utilità maggiore di quella accordata dalla sentenza di primo grado, mentre in ogni altro caso in cui l'appellato, al contrario, avesse ambito ad ottenere un'utilità minore o, al massimo, equivalente a quella conseguita nel precedente grado di giudizio, sarebbe stato per lui sufficiente riproporre, ai sensi dell'art. 346, la domanda o l'eccezione non accolta (nel duplice senso di non esaminata o di espressamente respinta). Tale criterio aveva il merito: 1) di non rendere necessario un riferimento al controverso concetto di «parte» o «capo» di sentenza; 2) di non esigere l'adesione ad alcuna particolare teoria del giudicato; 3) di essere facile applicazione per l'operatore pratico. In sintesi, per domande non accolte si intendevano: a) le domande di merito proposte in via alternativa o subordinata che non avevano formato oggetto di esame da parte del giudice a quo, perché assorbite dall'accoglimento della domanda principale; b) le semplici «ragioni» di una domanda di merito, ritenute infondate dal giudice a quo, ovvero dichiarate assorbite. Anche il vocabolo eccezioni usato dall'art. 346 c.p.c. andava inteso in senso ampio, potendo indicare sia le eccezioni sostanziali in senso stretto, sia le eccezioni sostanziali in senso ampio, quando l'effetto giuridico fosse rilevabile d'ufficio, sia le eccezioni processuali concernenti il rito. Veniva poi precisato, quanto alle questioni rilevabili ex officioche, laddove fossero state già esaminate dal primo giudice, esse non avrebbero potuto essere devolute direttamente alla cognizione del giudice ad quem senza un'iniziativa della parte interessata: le questioni rilevabili d'ufficio su cui il giudice di primo grado si era già espressamente pronunciato, infatti, nel passaggio da un grado all'altro della controversia, perdevano questa loro caratteristica, in applicazione della regola dell'assorbimento dei vizi di nullità di cui all'art. 161, comma 1, c.p.c.. Pertanto, una volta che l'eccezione fosse stata presa in considerazione dal primo giudice, il riesame da parte del giudice ad quem era necessariamente condizionato in ogni caso all'iniziativa di parte, fossero esse eccezioni in senso stretto ovvero eccezioni basate su questioni astrattamente rilevabili anche d'ufficio (v. per tutte Cass. civ., 5 giugno 2007, n. 13082; Cass. civ., Sez. Un., 20 gennaio 1998, n. 494, in Foro it., 1998, I, 365): tale distinzione, infatti, perdeva valore una volta che sulla questione fosse intervenuta una pronuncia, richiedendosi comunque l'iniziativa della parte interessata per evitare che tale statuizione venisse coperta da una preclusione irrevocabile conseguente a giudicato interno (Cass. civ., 12 settembre 1995, n. 9645). Pertanto, ove l'eccezione fosse rimasta assorbita in primo grado e non fosse stata neppure esaminata, spettava alla parte riproporre le sole eccezioni in senso stretto, mentre quelle rilevabili anche d'ufficio tali rimanevano anche in appello se non concretamente rilevate ed esaminate in primo grado. La linearità di tale regola è stata tuttavia spezzata dal revirement della Suprema Corte in tema di giurisdizione, che ha stabilito l'inapplicabilità del principio della rilevabilità d'ufficio in ogni stato e grado di cui all'art. 37 c.p.c., ritenendo che quando il giudice di primo grado giunge a pronunciarsi nel merito deve aver risolto, per quanto implicitamente, la questione relativa alla propria giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., 16 ottobre 2008, n. 25246), aggiungendo la non applicabilità dell'art. 346 c.p.c., con la conseguenza che la parte vittoriosa nel merito, una volta subita la notificazione dell'appello principale, per vedere riesaminata in secondo grado la questione di giurisdizione implicitamente decisa dal giudice di prime cure, dovrà necessariamente ricorrere all'appello incidentale, pena la presunzione di acquiescenza. Infine, restavano (e restano ancora) fuori dall'ambito applicativo dell'art. 346 le contestazioni sull'esistenza del fatto costitutivo della stessa, anche dette “eccezioni apparenti”. Queste ultime, al pari delle contestazioni in punto di solo diritto, integrano delle mere difese, che non introducono nuovi fatti principali da accertare e non incidono, dunque, sull'oggetto del processo. Per tale motivo, con l'istanza di rigetto dell'impugnazione devono sempre intendersi implicitamente sottoposte al giudice di secondo grado gli argomenti difensivi, le prospettazioni giuridiche e le questioni di diritto e di fatto proposte in primo grado, tra cui le contestazioni dell'esistenza del fatto costitutivo (v. da ultimo Cass. civ., 8 aprile 2016, n. 6933).
I recenti arresti della Cassazione
L'indirizzo appena riportato, già abbandonato da parte della dottrina (v. Poli, La devoluzione di domande e questioni in appello nell'interesse della parte vittoriosa nel merito, in Riv. dir. proc., 2004, pp. 334 e ss., secondo cui l'esame da parte del giudice di appello delle domande respinte o illegittimamente pretermesse, al di fuori dei casi di assorbimento in senso proprio, postula sempre la proposizione di apposito appello incidentale ad opera della parte totalmente vittoriosa nel merito), è stato messo gravemente in crisi dalla riforma dell'appello ad opera del legislatore del 2012. Già nel 2016, con la sentenza n. 7700 del 16 aprile, la Corte di cassazione ha operato un primo mutamento di rotta, affermando che il criterio discretivo tra appello incidentale o onere di riproposizione è la sussistenza o meno della soccombenza e quindi la necessità di criticare, attraverso motivi specifici di impugnazione, una statuizione espressa (o implicita) oppure un'illegittima pretermissione di pronuncia. Analogo presupposto (la soccombenza), viceversa, non si riscontra allorquando le domande e/o le eccezioni proposte siano state ritualmente assorbite, sicché, venendo meno la necessità di rivolgere una critica alla sentenza, è sufficiente la riproposizione dell'istanza non esaminata. Successivamente, con decisione resa a Sezioni Unite (12 maggio 2017, n. 11799), la Corte di cassazione ha affermato che: 1) si è in presenza di rigetto di una eccezione di merito sia tramite affermazioni espresse quanto con affermazioni enunciate in modo indiretto nella motivazione. In entrambi i casi, il convenuto, totalmente vittorioso nel merito, se intende coltivare l'eccezione, dovrà spiegare appello incidentale; 2) si è in presenza di un'eccezione di merito non accolta (i.e. non esaminata) tutte le volte in cui il giudice di prime cure non abbia preso in considerazione, né direttamente né indirettamente, la difesa del convenuto. Ciò con la precisazione che se il convenuto sia soccombente nel merito, l'omesso esame dell'eccezione integra una violazione della regola di cui all'art. 112 c.p.c.; come pure una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sussiste nel caso in cui la domanda attorea sia stata sì rigettata, ma sulla base dell'eccezione proposta in via subordinata e dunque, omettendo l'esame di quella principale. In altre parole, sussiste onere di riproposizione nelle sole situazioni in cui l'omissione di pronuncia sull'eccezione sia lecita. Nel caso di illegittima pretermissione, il convenuto, che voglia sottoporre l'eccezione al giudice di appello, dovrà proporre appello incidentale; 3) quanto alle eccezioni di rito, spetta all'appellato proporre sempre appello incidentale e ciò non solo in presenza di eccezioni respinte, ma anche in presenza di quelle non accolte, giacché per queste ultime il silenzio del giudice si risolve in una violazione della regola di cui all'art. 276, comma 2, c.p.c.. In continuità con i principi espressi dalle Sezioni Unite, Cass. civ., 12 dicembre 2017, n. 29642 ha ribadito che l'opzione fra appello incidentale e riproposizione va risolta a favore del primo tutte quante le volte si concretizzi una mera situazione di soccombenza, che può essere, come è noto, alternativamente correlata al rigetto espresso o implicito di domande (cd. soccombenza materiale) oppure di questioni (cd. soccombenza virtuale) nonché alla violazione dell'ordine di loro decisione, impresso dalla parte, attraverso apposita graduazione. Pare, dunque, destinato a scomparire l'orientamento tradizionale, sinora adottato dalla giurisprudenza per discernere i casi nei quali era necessario l'appello incidentale in luogo della semplice riproposizione ex art. 346 c.p.c.. Sennonché, questo nuovo indirizzo, incentrato sul requisito formale della soccombenza, secondo cui l'onere di impugnazione sorge per il semplice fatto che un'istanza della parte, latamente intesa, non abbia trovato accoglimento nella sentenza, a prescindere dall'esito finale della lite, sembra essere stato messo in forse da Cass. civ., 16 febbraio 2018, n. 3843, per la quale, l'interesse all'impugnazione sussiste solamente in presenza di una posizione di soccombenza pratica, intesa come situazione di fatto in ragione della quale il provvedimento finale abbia tolto o negato alla parte un bene della vita, accordandolo all'avversario. In presenza di una mera situazione di soccombenza teorica non dovrebbe sorgere l'interesse ad impugnare, imponendosi in capo alla parte, vittoriosa nel merito, soltanto un onere di riproposizione ex art. 346 c.p.c. delle domande e/o delle eccezioni respinte o dichiarate assorbite nel corso del giudizio di primo grado. La decisione appena riportata evoca l'orientamento più tradizionale della cd. indifferenza utilitaristica, che, come si è visto sopra, interpreta in senso ampio la nozione di domande ed eccezioni non accolte, ritenendo ricomprese al suo interno tanto le ipotesi di soccombenza virtuale quanto le ipotesi di rituale assorbimento. Modi e termini per la riproposizione delle domande e delle eccezioni (e differenza con l'appello incidentale)
Come si è visto il confine tra appello incidentale e onere di mera riproposizione è assai labile e incerto; intanto, distinguere tra i due strumenti è essenziale, giacché diverse sono le modalità e i termini per l'esercizio delle diverse attività. Quanto ai termini per l'esercizio dell'onere di riproposizione, la giurisprudenza pressoché unanime riteneva che la riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte potesse avvenire – se effettuata dall'appellato vittorioso – fino all'udienza di precisazione delle conclusioni (Cass. civ., 12 gennaio 2006, n. 413; Cass. civ., 19 luglio 2005, n. 15223; Cass. civ., 23 settembre 2004, n. 19126; Cass. civ., 4 settembre 2004, n. 17906). Questo indirizzo giurisprudenziale, però, è stato criticato da parte di alcuni autori (v. tra gli altri Chiarloni, Appello, in EGT, Roma, 1995, 14 e ss.; Bianchi, I limiti oggettivi dell'appello civile, Padova, 2000, 216 e ss;) per la disparità di trattamento riservato all'appellante, al quale, infatti, per questa via viene inibito di proporre nuove censure, diverse da quelle specificate nell'atto di appello, stante il divieto di motivi aggiunti. Secondo quest'indirizzo, in particolare, sarebbe necessario adottare uniforme rigore nei riguardi di entrambe le parti, facendo cadere l'onere della riproposizione ex art. 346 c.p.c. in coincidenza con il deposito della comparsa di risposta in appello o eventualmente anche all'udienza, secondo quanto prevede l'art. 171, comma 2, c.p.c., applicabile anche in appello mercé il generale rinvio alle norme vigenti per il tribunale in prime cure, quale operato dall'art. 359 c.p.c.. Questa tesi, invero, pare oggi essere suffragata dalla novella del 2012, la quale impone la fissazione dell'oggetto della cognizione del giudice di appello sin dall'origine del giudizio di seconde cure anche per consentire la massima concentrazione e la, quanto meno, potenziale conclusione sin dalla prima udienza di trattazione, eventualmente tramite l'ordinanza filtro di cui agli artt. 348-bis e ter c.p.c. o la sentenza con motivazione contestuale ex art. 281-sexies c.p.c.. Ed invero la nuova fisionomia dell'appello ha spinto parte della giurisprudenza a mutare orientamento sul punto affermando che l'indirizzo più liberale poteva giustificarsi sotto la vigenza di un modello processuale in cui non esistevano preclusioni, con la conseguenza che non può più valere in relazione ad un sistema processuale, qual è quello attualmente vigente rigorosamente imperniato su rigide barriere preclusive. L'art. 347 c.p.c., nel richiamare «le forme e i termini» previsti per la costituzione in primo grado ha voluto necessariamente includere anche le decadenze di cui all'art. 167 c.p.c., giacché, diversamente opinando, non si comprenderebbe a quali sanzioni processuali andrebbe incontro l'appellato che non rispettasse i suddetti “termini” di costituzione. Pertanto, già con riferimento, alla struttura dell'appello vigente, ratione temporis, tra il 30 aprile 1995 ed il 1° marzo 2006, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 29499 del 7 dicembre 2017 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, affinché essa risolva la problematica concernente i limiti temporali della riproposizione ex art. 346 c.p.c.. Per l'ordinanza di rimessione, si dovrebbe distinguere a seconda che l'oggetto della riproposizione siano, da un lato, le domande (incluse le chiamate di terzi) oppure, dall'altro lato, le eccezioni di rito e/o di merito in senso stretto. Nel primo caso, infatti, le domande sarebbero riproponibili, pena la loro rinuncia, solamente con la comparsa di riposta tempestivamente depositata nei venti giorni anteriori all'udienza di prima comparizione; nel secondo caso, invece, non potendosi estendere all'appello la previsione del previgente art. 180, comma 2, c.p.c., alla luce del quale le eccezioni rilevabili ad istanza di parte dovevano essere sollevate nei venti giorni anteriori all'udienza di trattazione – poiché la distinzione fra udienza di comparizione ed udienza di trattazione, non è rinvenibile in fase di gravame –, le eccezioni in discorso sarebbero riproponibili sino all'udienza di precisazione delle conclusioni. In attesa della decisione delle Sezioni Unite, la stessa Corte di cassazione, con la decisione del 16 febbraio 2018, n. 3843, ha affermato che affinché l'esigenza di garantire la corretta instaurazione del contraddittorio in fase di gravame e quella di permettere di riflesso l'attuazione del diritto di difesa della parte appellante trovino effettiva realizzazione sembra indispensabile propendere per un inevitabile collegamento, sul piano temporale, della facoltà di cui all'art. 346 c.p.c. alla tempestiva costituzione in appello. Si auspica dunque che le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla questione, possano prediligere quest'ultima soluzione non solo per gli appelli introdotti prima della novella del 2005 (l. n. 80/2005) – questione che costituisce l'oggetto immediato dell'ordinanza di rimessione –, ma anche per gli appelli proposti successivamente alla sua entrata in vigore. Stabilire quando sussista in capo alla parte appellata un semplice onere di riproposizione e quando essa abbia l'obbligo di proporre appello incidentale è di fondamentale importanza non solo per il rispetto dei diversi termini previsti dalla legge, ma anche per le diverse modalità in cui si articola la riproposizione rispetto all'appello incidentale: mentre nel primo caso è sufficiente che la parte appellata manifesti, in qualsiasi modo purché chiaro ed univoco, la sua volontà di non rinunziare alle domande e alle eccezioni non accolte (in quanto assorbite) in primo grado, non essendo necessario che le riformuli esplicitamente una ad una, nel caso in cui si renda necessario l'appello incidentale, ancorché condizionato, la parte appellata deve realizzare una proposizione esplicita e specifica, secondo le regole dettate dall'art. 342 c.p.c. per l'atto d'appello; in particolare, l'appellante incidentale – oltre a dover rispettare il termine espressamente fissato dall'art. 343 c.p.c. – è tenuto: 1) ad esporre (così come l'appellante principale) la motivazione con le ragioni di fatto e di diritto che stanno alla base della sua impugnazione, a pena di nullità-inammissibilità del gravame; 2) a produrre copia autentica della sentenza impugnata (ove a ciò non abbia già provveduto un'altra parte dello stesso giudizio di appello); 3) a comparire alla prima udienza, a pena di improcedibilità del gravame, secondo il meccanismo disciplinato dall'art. 348, comma 2 (applicabile anche all'appellante incidentale). |