Il danno da errata diagnosi di patologie inesistenti

08 Maggio 2018

Ad un soggetto viene diagnosticata una malattia, successivamente rivelatasi insussistente. L'errore medico, intervenendo in un momento anteriore rispetto a quello prettamente terapeutico, non determina l'insorgenza o l'aggravamento di alcuna patologia. Il paziente tuttavia lamenta di aver subito un danno non patrimoniale, manifestatosi sul piano emotivo, relazionale e, in alcuni casi, biologico. Il presente contributo si occupa di esaminare, mediante l'analisi della casistica giurisprudenziale, i presupposti per la risarcibilità di tale pregiudizio.
I requisiti minimi per il risarcimento del danno non patrimoniale

Il tema del risarcimento del danno conseguente all'errore medico diagnostico deve essere affrontato tenendo a mente quanto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione che, nelle note sentenze dell'11 novembre 2008 (nn. 26972, 26973, 26974, 26975), hanno individuato i requisiti minimi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

Il principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte è il seguente:

«Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. - anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni:

(a) che l'interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell'art. 2059 c.c., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile);

(b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza);

(c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità».

Dalla massima sopra riportata si evince come la Cassazione abbia individuato tre condizioni per la risarcibilità del danno non patrimoniale, delle quali occorre indagare la ricorrenza anche nel caso in analisi, ciò al fine di verificare la spettanza della tutela risarcitoria alla vittima di un errore medico prettamente diagnostico.

Il primo requisito: l'errata diagnosi deve aver prodotto una lesione a un diritto inviolabile della persona di rilevanza costituzionale

Come noto, il risarcimento del danno non patrimoniale è, a differenza del danno patrimoniale, improntato al principio della tipicità: mentre infatti il sistema di tutela dei danni patrimoniali, di cui all'art. 2043 c.c., presuppone la lesione di un qualsiasi interesse giuridicamente rilevante, il danno non patrimoniale, a norma dell'art. 2059 c.c., è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell'ingiustizia del danno, la selezione normativa degli interessi meritevoli della tutela risarcitoria.

Se tale selezione è effettuata dal legislatore ordinario, prevedendo espressamente la risarcibilità dei danni non patrimoniali conseguenti a determinati illeciti, allora lo spettro della tutela è più ampio e si estende alle lesioni di ogni interesse meritevole secondo l'ordinamento giuridico. Ciò è quanto avviene, ad esempio, nei casi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente) come reato: la tipicità, in questo caso, è rispettata in ragione della scelta del legislatore (art. 185 c.p.) di affermare come risarcibili i danni non patrimoniali derivanti dal reato.

Viceversa, al di fuori dai casi determinati dalla legge, come quello di specie, l'applicazione del principio di tipicità sancito dall'art. 2059 c.c. impone di riconoscere la tutela risarcitoria solo se venga accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona garantito a livello costituzionale: deve sussistere, in altre parole, una “ingiustizia costituzionalmente qualificata” (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972) che, nell'ambito della responsabilità medica, generalmente consiste nella lesione del diritto alla salute, protetto dall'art. 32 Cost.

Ciò premesso, è possibile che all'errore diagnostico facciano seguito terapie volte a rimuovere la malattia falsamente riscontrata: terapie che, sebbene superflue, possono essere piuttosto invasive e finanche lasciare strascichi permanenti. In tali ipotesi è piuttosto semplice riscontrare la lesione del diritto alla salute, poiché essa si appalesa in un danno cosiddetto biologico, consistente nella compromissione dell'integrità fisica scaturente dall'inutile trattamento medico.

La ricerca della lesione diviene, invece, più difficile laddove alla errata diagnosi non si accompagni alcun trattamento sanitario, per scelta del paziente oppure perché la diagnosi viene corretta prima dell'inizio delle terapie. In questi casi, l'errore diagnostico si manifesta nella sua portata prettamente valutativa, circoscritta cioè all'inesatta rappresentazione della realtà e alla prospettazione di una patologia inesistente. Poiché l'errore non sfocia in un pregiudizio fisico, si potrebbe esser portati a negare l'esistenza di una lesione alla salute.

Tale conclusione sarebbe però errata, perché deriverebbe dall'impropria sovrapposizione dell'accertamento della “lesione” all'accertamento del “danno”. La ricerca della lesione è un accertamento distinto e precedente rispetto alla ricerca del danno; esso consiste nell'individuazione dell'interesse intaccato dalla condotta del danneggiante, a prescindere dalle conseguenze dannose che ne siano eventualmente scaturite. Come il danno patrimoniale, anche il danno non patrimoniale deve essere sottoposto ad un duplice giudizio: il primo, attinente alla meritevolezza dell'interesse leso, onde vagliare l'ingiustizia del danno; il secondo, riguardante le conseguenze scaturenti da tale lesione, onde verificare l'esistenza di un danno. La compromissione delle condizioni di salute, apprezzabile in termini di invalidità permanente o temporanea, attiene all'area del danno e costituisce solo una delle possibili conseguenze pregiudizievoli che possono scaturire dalla lesione dell'interesse protetto. Data la diversità dei due giudizi, da un lato, all'assenza di danni fisici non corrisponde necessariamente l'assenza di una lesione e, dall'altro, l'insussistenza di una lesione di portata costituzionale impedisce a monte la tutela risarcitoria, pur in presenza di danni a valle.

È quindi essenziale valutare preliminarmente se vi sia un interesse costituzionale inciso dalla scorretta diagnosi medica.

La risposta a tale quesito è affermativa e passa per una interpretazione estensiva dell'art. 32 Cost.. Si consideri che il trattamento sanitario, da cui scaturisce l'incisione del bene salute, inizia con lo studio e con la valutazione delle condizioni del paziente, la cui esatta esecuzione è imprescindibile per assicurare la correttezza della terapia. Già nella fase di analisi della patologia, che è necessariamente preordinata alla sua cura, l'operatore medico incide sulla salute del paziente; pertanto, un errore commesso in tale momento compromette la posizione giuridica protetta dalla norma costituzionale. Il diritto alla salute, nella protezione riservatagli dall'art. 32 Cost., non può quindi essere confinato soltanto al suo nocciolo duro, ossia alla protezione dell'interesse oppositivo del singolo a non veder negativamente alterata la propria condizione psicofisica; al contrario, il diritto comprende altresì posizioni latamente pretensive volte all'ottenimento il miglior trattamento possibile sul piano sia terapeutico sia diagnostico (Nello stesso senso vedi Trib. Genova, sez. II, 16 ottobre 2009; Cass. civ., sez. III, 24 gennaio 2007, n. 1511, secondo cui «poiché l'intervento del medico riguarda non tanto o non solo la fisicità del soggetto, ma la persona nella sua integrità, è ragionevole ritenere che eventuali errori diagnostici compromettano, oltre alla salute fisica, l'equilibrio psichico della persona, specie se l'errore riguarda la diagnosi di malattie gravi e comunque in grado di pregiudicare grandemente la serenità del paziente per le sue prospettive infauste e quindi ansiogene»).

Nell'ambito del rapporto con la struttura medica incaricata del trattamento, la pretesa a una corretta diagnosi assurge a diritto di credito, suscettibile di valutazione economica ma strumentale al soddisfacimento di un interesse non patrimoniale (art. 1174 c.c.). Con riguardo viceversa al medico operante nella struttura, che non abbia concluso un separato contratto con il paziente, l'errore diagnostico permane nell'area dell'illecito aquiliano. Infatti, la presente accezione latamente pretensiva del diritto alla salute non equivale a fondare un'obbligazione preesistente in capo al medico. Essa sta semplicemente a significare un allargamento del concetto di trattamento sanitario, con la conseguenza che chiunque appresti tale trattamento, laddove erri nella sua esecuzione o anche nella sua programmazione, intacca il diritto di cui all'art. 32 Cost. e deve rispondere del relativo danno. Come noto, la natura extracontrattuale della responsabilità del medico è stata definitivamente chiarita dall'art. 7, comma 3, l. 24/2017, che si pone in continuità con quanto era stato già stabilito con l'art. 3 l. 189/2012 e in discontinuità con la consolidata tesi giurisprudenziale del “contatto sociale” (cfr. Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589). La portata innovativa o qualificatoria di tali disposizioni è incerta, anche se pare lecito osservare come esse non introducano nell'ordinamento un nuovo istituto giuridico, né vadano a modificare posizioni sostanziali, bensì si limitino a ricondurre la responsabilità del medico al modello generale (e certamente preesistente) dell'art. 2043 c.c.. Difficilmente quindi può giustificarsi l'attribuzione ad esse di una portata innovativa.

Una volta riconosciuta l'esistenza di una lesione costituzionalmente rilevante, il carattere onnicomprensivo del risarcimento (di cui si darà meglio conto infra) permette di dare ristoro a tutte le conseguenze dannose che ne derivano, perciò non solo a quelle di carattere biologico, ma anche alle sofferenze emotive e dinamico-relazionali, purché dotate di un certo grado di serietà. In altri termini, l'errata diagnosi può generare il diritto alla tutela risarcitoria anche se non ne sia derivata alcuna invalidità - temporanea o permanente - per il paziente.

Il secondo requisito: la lesione dell'interesse deve essere grave

Individuata la lesione dell'interesse costituzionale, occorre soffermarsi sul secondo requisito individuato dalla Cassazione per il risarcimento del danno non patrimoniale. Sintetizzando il percorso argomentativo delle Sezioni Unite, la lesione dell'interesse deve avere il carattere della gravità, poiché il dovere di solidarietà sociale sancito dall'art. 2 Cost. impone un grado minimo di tolleranza verso le lesioni di interessi costituzionali che non raggiungano una certa soglia di offensività.

Tale principio generale può essere tradotto – nel caso in analisi – nel senso che l'errore diagnostico debba concernere patologie seriamente afflittive. L'analisi va condotta avendo riguardo alla patologia prospettata, poiché è da essa che discendono le conseguenze pregiudizievoli lamentate dal paziente. Il carattere di gravità può essere rinvenuto, ad esempio, in errate diagnosi aventi ad oggetto patologie tumorali e infezioni virali particolarmente aggressive (con riguardo a ipotesi di errate diagnosi di patologie tumorali, si vedano: Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2013, n. 14040; Trib. Milano, sez. I, 8 giugno 2017; Trib. Milano, sez. I, 24 giugno 2014. Per un caso di errata diagnosi di infezione da HIV, si veda Trib. Bologna, sez. III, 4 febbraio 2008).

Per converso, non potrebbe attribuirsi il carattere della gravità alla lesione (pur sempre sussistente) derivante dall'inesatta diagnosi di una banale influenza: in osservanza del dovere di solidarietà sociale, infatti, ciascuno è chiamato a sopportare un errore siffatto, lesivo solo in astratto, ma non anche in concreto, del diritto alla salute.

Il terzo requisito: dalla lesione deve a sua volta discendere un danno non futile

Il terzo e ultimo requisito individuato dalla giurisprudenza attiene al giudizio sul danno, vertente cioè sull'insieme delle conseguenze negative che discendono dalla lesione dell'interesse protetto. Si ricorda che tale giudizio presuppone che sia stata già riscontrata una lesione grave del diritto alla salute (superata ormai la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso -tesi del “danno evento” o del “danno in re ipsa”-, alla lesione deve altresì seguire un “danno conseguenza”, ossia una qualche ripercussione sulla propria persona).

Il danno non deve essere futile, non deve consistere in meri disagi o fastidi, bensì deve manifestarsi con un serio grado di afflittività. Anche questo requisito trova la propria giustificazione nel dovere di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost., da declinarsi nel senso che ciascun consociato è tenuto a tollerare pregiudizi lievi, in quanto fisiologicamente scaturenti dalle interazioni che si generano all'interno della società. Se quindi già sul piano della lesione la tutela risarcitoria postula che sia stata prospettata una malattia grave, ora, sul piano del danno, è necessario che da tale prospettazione siano scaturite conseguenze non banali.

Soffermandosi sull'analisi di tali conseguenze, si è già accennata l'eventualità che all'errore diagnostico seguano danni biologici, ossia pregiudizi all'integrità psicofisica della persona suscettibili di accertamento medico-legale.

Vanno innanzitutto menzionati i pregiudizi che scaturiscono dai trattamenti sanitari inutili.

Si pensi al caso in cui il paziente sia stato sottoposto a terapie demolitive. Un intervento con esito permanentemente invalidante, ad esempio la rimozione di un organo o l'amputazione di un arto, non legittima ad alcuna pretesa risarcitoria se è necessario per curare una patologia esistente (purché chiaramente sia stato approvato consapevolmente dal paziente e sia stato correttamente eseguito). Se però l'intervento è praticato su un soggetto sano in conseguenza dell'errore diagnostico, esso perde il carattere della necessità e quindi, benché perfettamente eseguito, genera un danno ingiusto. La Cassazione (Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2013, n. 14040), si è occupata della vicenda in cui i medici avevano erroneamente ritenuto che un neo presente sulla gamba del paziente costituisse un melanoma, salvo poi avvedersi che si trattava di una innocua cisti seborroica. L'operazione di asportazione del neo, frattanto eseguita, era stata ampiamente distruttiva ed aveva residuato nel soggetto una leggera zoppia, apprezzabile in termini di invalidità permanente e meritevole di risarcimento.

Un trattamento sanitario inutile può poi determinare conseguenze invalidanti di carattere temporaneo, corrispondenti alla durata della terapia e della riabilitazione: anch'esse meritano di essere risarcite proporzionalmente al grado e alla durata dell'invalidità riscontrata. Nel caso deciso da Trib. Milano, sez. I, 24 giugno 2014, cit., ad un soggetto era stata diagnosticata una neoplasia al pancreas in realtà insussistente (a distanza di un anno era stata formulata la corretta diagnosi di pancreatite autoimmune). Il paziente era stato sottoposto a otto cicli di trattamento chemioterapico del tutto inutili, dal quale gli era conseguito un periodo di inabilità temporanea assoluta di 120 giorni, un ulteriore periodo di inabilità temporanea parziale del 50% per 60 giorni e un periodo di inabilità temporanea parziale al 25% per 60 giorni. Tali periodi di invalidità sono stati considerati dal giudicante ai fini della determinazione del risarcimento.

Afferiscono inoltre al danno biologico, in quanto suscettibili di accertamento medico legale, le patologie psichiche che possono svilupparsi in conseguenza della prospettazione della malattia, quali la depressione o i disturbi post-traumatici da stress.

Come osservato da Cass. civ., sez. III, 4 giugno 2013, n. 14040, «non può in linea di principio escludersi che il danno psichico, soprattutto gli stati depressivi, possano assumere un tale rilievo da doversi considerare gravemente invalidanti». Nella stessa prospettiva, il Tribunale di Bologna, con la sentenza del 4 febbraio 2008, ha riconosciuto la spettanza del risarcimento per lo stato di ansia patologica (accertato tramite CTU) derivato all'attore in conseguenza della errata diagnosi di infezione da HIV, atteso che il danno alla salute, nella sua dimensione pluridimensionale, deve considerarsi comprensivo anche delle sofferenze psichiche della persona.

Come già osservato, non è detto che l'errata diagnosi sfoci in menomazioni fisiche o psichiche clinicamente apprezzabili. Ciò non di meno, essa può essere la causa di altri tipi di sofferenze che, ove dotate di un certo grado di serietà, meritano comunque di essere risarcite.

Secondo l'insegnamento della Suprema Corte, infatti, il risarcimento del danno alla persona deve essere onnicomprensivo, quindi dare ristoro a tutte le conseguenze pregiudizievoli derivate dall'evento dannoso, nessuna esclusa, con due soli limiti:

  • non si possono attribuire nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo a molteplici liquidazioni;
  • il pregiudizio deve superare una soglia minima di apprezzabilità.

Il carattere onnicomprensivo del risarcimento, affermato già dalle Sezioni Unite nel 2008 (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974, 26975,, è stato a più riprese oggetto di analisi da parte della Suprema Corte, che recentemente ne ha chiarito l'esatto significato (Cass., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901; Cass. civ., sez. III, 7 marzo 2016, n. 4379).

Il risarcimento deve includere pertanto non solo i pregiudizi biologici, ma anche le sofferenze che si manifestino quali conseguenze omogenee dell'unica lesione del diritto costituzionale alla salute. Recentemente la Corte di Cassazione si è espressa in maniera definitivamente chiarificatrice sul tema, osservando che tali sofferenze possono avere una duplice proiezione, interiore ed esteriore. In particolare Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2018, n. 901, ha avuto modo di precisare che il giudice, «dopo aver identificato l'indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale», deve effettuare «una rigorosa analisi ed una conseguentemente rigorosa valutazione, sul piano della prova, tanto dell'aspetto interiore del danno (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sè, la malinconia, la tristezza,) quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno cd. esistenziale, in tali sensi rettamente interpretato il troppe volte male inteso sintagma, ovvero, se si preferisca un lessico meno equivoco, il danno alla vita di relazione)… Restano così efficacemente scolpiti i due aspetti essenziali della sofferenza: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana. Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se, e solo se, provati caso per caso, con tutti i mezzi di prova normativamente previsti (tra cui il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni) al di là di sommarie quanto impredicabili generalizzazioni».

Sul piano della proiezione intimistica della sofferenza, è lecito aspettarsi che la prospettazione di una grave malattia conduca a sentimenti di dolore, di tristezza e di paura. È opportuno menzionare quanto statuito da Trib. Genova, sez. II, 16 ottobre 2009, cit., con riguardo a un caso di tardiva diagnosi di un tumore prostatico che tuttavia non aveva aggravato la situazione patologica, ma aveva avuto solamente dei riflessi di carattere emotivo. Il giudice ha affermato che «la sussistenza di una violazione di diritto di rango costituzionale (il diritto all'integrità fisica), priva di ulteriori conseguenze dannose risarcibili (nel caso di specie, errore diagnostico), è uno dei casi tipici in cui l'art. 2059 c.c. autorizza il risarcimento di tale danno, svolgendo la funzione di assicurare una "reazione minima" dell'ordinamento ad una fattispecie che la costituzione stessa qualifica come illecita. Nel caso di specie, lo stato di sofferenza, pur privo di caratteri patologi, consistente in un pensiero negativo e prevalente, e tuttavia non irrazionale alla luce del rischio corso, si configura quale un danno non patrimoniale risarcibile, assimilabile ad un danno morale e liquidabile in via equitativa».

In base a una massima di esperienza da tenere in considerazione ai fini della quantificazione del danno, tali sofferenze hanno una intensità maggiore nel periodo immediatamente successivo alla notizia della diagnosi, quando l'impatto destabilizzante è massimo, salvo poi scemare nel tempo, in considerazione della presa di coscienza e dell'elaborazione mentale della malattia (Per un'applicazione pratica di tale massima d'esperienza, si veda Trib. Milano, sez. I, 24 giugno 2014, cit.).

Si può inoltre dare conto di possibili proiezioni esteriori della sofferenza. L'errata diagnosi di una infezione virale, ad esempio, può condurre il soggetto ad adottare quotidiane precauzioni per impedire la veicolazione della malattia, a ridurre le uscite in pubblico e a modificare le proprie abitudini sessuali. Anche la prospettazione di malattie gravemente invalidanti, come i tumori o le malattie degenerative, possono incidere sull'assetto di vita della persona, compromettendone le relazioni private e sociali nel periodo in cui essa è erroneamente convinta di essere malata.

Ciò posto, il riconoscimento astratto del diritto a esser tutelati rispetto agli errori diagnostici non deve essere foriero di automatismi risarcitori.

In primo luogo, qualunque pretesa giudiziaria deve essere supportata da specifica allegazione e prova. Non è certo sufficiente, ai fini della tutela risarcitoria, dedurre di aver subito un generico malessere in conseguenza di una errata diagnosi, ma occorre individuare le caratteristiche e le ragioni delle sofferenze patite nonché allegare e dimostrare in che termini l'errore medico abbia impattato sul proprio stile di vita. Diversamente dai danni biologici, ove la prova è raggiungibile tramite accertamenti medico-legali, è difficile offrire prove rappresentative degli stati di sofferenza, soprattutto di carattere intimistico. In quest'ambito, dunque, il ricorso alle presunzioni è ammesso, ma esso non può sopperire alla mancanza o alla genericità delle affermazioni del paziente. Si tenga conto, inoltre, che il valore probatorio delle presunzioni è direttamente proporzionale all'entità della lesione, nel senso che, più grave è la malattia erroneamente diagnosticata, più è lecito presumere che la stessa abbia impattato sul danneggiato.

In secondo luogo, tutti i pregiudizi allegati devono essere seri e perciò oltrepassare la soglia della normale tollerabilità. Ai fini del giudizio di serietà del danno, si terrà conto di vari fattori. È importante considerare, ad esempio, il tipo di patologia prospettata e l'incisione che la notizia diagnostica ha avuto sull'assetto di vita del danneggiato. Altro aspetto rilevante è il tempo intercorso tra l'errata diagnosi e il ravvedimento dei medici: come osservato innanzi, il passare del tempo determina un fisiologico decremento del turbamento emotivo conseguente alla comunicazione della diagnosi; tuttavia, affinché siffatto turbamento possa considerarsi serio, è necessario che l'errore sia perdurato per un lasso di tempo sufficiente a impattare emotivamente sulla persona procurandole dolore; inoltre, maggiore è il tempo in cui la persona è erroneamente convinta di essere malata, maggiori sono i riflessi di carattere relazionale che ne conseguono. Senza alcuna pretesa di esaustività, si consideri che anche le cure preannunciate dai medici e la probabilità di sopravvivenza da questi prospettata concorrono a fondare il giudizio di serietà del danno. Per una concreta applicazione del giudizio in ordine alla serietà del pregiudizio “morale” ed “esistenziale” subito da una persona cui era stata erroneamente diagnosticata una neoplasia, vedasi Trib. Milano, sez. I, 8 giugno 2017, cit.. Alla luce dell'istruttoria processuale, non era stato riscontrato alcun danno alla salute ma, in conseguenza dell'errore di diagnosi, al paziente era stato prospettato un intervento chirurgico demolitivo incidente anche sull'aspetto estetico, cicli di chemioterapia e radioterapia, nonché un lungo percorso riabilitativo. Tali elementi, unitamente all'incertezza psicologica circa le chance di sopravvivenza, hanno indotto il giudice a ritenere serio, e quindi meritevole di ristoro, il danno non patrimoniale allegato.

In conclusione

Dall'analisi dell'art. 32 Cost. si ricava che l'errore prettamente diagnostico – al pari dell'errore terapeutico - intacca il diritto costituzionale alla salute, con piena operatività della tutela risarcitoria. Il carattere onnicomprensivo del risarcimento impone di assicurare ristoro a tutti i pregiudizi che ne derivano, anche se questi incidano sul piano unicamente emotivo e relazionale. Tale eventualità è piuttosto comune in quest'ambito, ove l'errore medico è perpetrato nella fase valutativa della malattia. La consulenza tecnica medico-legale non è in grado di offrire idoneo supporto per l'accertamento di questo tipo di pregiudizi, con la conseguenza che la prova del danno è spesso rimessa alle presunzioni. La fisiologica elasticità della prova presuntiva potrebbe essere sfruttata in via strumentale, per incardinare pretese fondate su stati di malessere non circostanziati. Inoltre, proprio in settori come questo, in cui la prova assume confini più labili, facilmente possono annidarsi liti bagatellari, che il dovere di tolleranza connaturato alla convivenza civile impone di schermare. È pertanto essenziale che il giudice svolga una rigorosa analisi del supporto probatorio nonché dei requisiti della gravità della lesione e della serietà del danno, affinché la spettanza astratta della tutela non costituisca il grimaldello per la proliferazione di azioni infondate, legate a pregiudizi insussistenti o ragionevolmente tollerabili.

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