Legittima l'esclusione del compenso al difensore di parte ammessa al gratuito patrocinio in caso di impugnazione inammissibile
08 Maggio 2018
Massima
Non è costituzionalmente illegittimo l'art. 106, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il cui tenore letterale non preclude un'interpretazione che, tenuto conto della ratio legis, consente di distinguere tra le cause di inammissibilità dell'impugnazione e di escludere dal relativo ambito di applicazione le ipotesi di carenza sopravvenuta dell'interesse a ricorrere per ragioni del tutto imprevedibili al momento della proposizione del ricorso.
Il caso
La Corte d'appello di Salerno, sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, comma 2, 24, commi 2 e 3, e 36 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 106 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui prevede che «il compenso al difensore di parte ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato non viene liquidato qualora l'impugnazione venga dichiarata inammissibile, senza distinzione alcuna in merito alla causa d'inammissibilità». Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell'ambito di un giudizio avente ad oggetto il ricorso in opposizione a un decreto di mancato pagamento dei compensi professionali dovuti al difensore per le attività espletate in favore di un imputato ammesso al patrocinio a spese dello Stato. La vicenda trae origine da un ricorso per cassazione proposto dal difensore volto ad ottenere la restituzione nel termine per l'impugnazione di una sentenza di condanna la cui notifica di avviso di deposito e il cui estratto contumaciale risultavano «erronei e contra legem per non aver messo l'imputato in condizione di identificare compiutamente e di conoscere il reale contenuto e le motivazioni della sentenza di condanna. La motivazione della sentenza risultava, infatti, assolutamente illogica ovvero riferibile a fatti del tutto diversi ed inconferenti rispetto ai fatti realmente ad oggetto del procedimento penale». Dopo la proposizione del ricorso per cassazione e «dopo la scadenza del termine per proporlo», la Corte d'appello di Salerno, sezione penale, autonomamente adottava un'ordinanza, con cui rilevava l'erronea formazione degli atti notificati all'imputato e ordinava la rinnovazione di ogni adempimento. Successivamente, la Corte di cassazione – pur rilevando la fondatezza delle deduzioni del ricorrente – dichiarava inammissibile il ricorso proposto per la restituzione nel termine, in ragione della «sopravvenuta mancanza di interesse, preso atto dell'ordinanza medio tempore adottata dalla Corte d'appello di Salerno», sezione penale. A fronte di tale decisione di inammissibilità, la Corte d'appello di Salerno, sezione penale, in applicazione dell'art. 106 del d.P.R. n. 115/2002, rigettava la richiesta del difensore di liquidazione dei compensi per le attività espletate. Il difensore proponeva conseguentemente ricorso in opposizione, chiedendo la liquidazione del compenso ed eccependo, in subordine, l'illegittimità costituzionale del medesimo art. 106 del d.P.R. n. 115/2002, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.. La Corte d'appello di Salerno, accogliendo l'eccezione, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma perché, non distinguendo tra le diverse cause di inammissibilità delle impugnazioni, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, commi 2 e 3, e 36 Cost.. La questione
La questione che il Giudice delle leggi si trova a dover affrontare è la seguente: è conforme a Costituzione l'art. 106, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il cui tenore letterale esclude la liquidazione del compenso al difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato in caso di impugnazione inammissibile? Le soluzioni giuridiche
La Corte giunge alla conclusione affermativa, dopo aver posto in luce la ratio della norma censurata, che è, in generale, quella del contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia e, in particolare, quella di evitare che i costi di attività difensive superflue (come, nel caso di specie, le impugnazioni la cui declaratoria di inammissibilità risulti ex ante prevedibile) siano posti a carico della collettività. A tal riguardo, la Corte non manca di far richiamo alla giurisprudenza propria (da ultimo, sentenza n. 178/2017) e di legittimità (in particolare, ex multis, Cass. pen., sez. IV, sent., 13 agosto 2003, n. 34190) nella quale è frequente il riferimento al generale obbiettivo di limitare le spese giudiziali, ed è sottolineato il particolare scopo di contenere tali spese soprattutto nei confronti delle parti private, scoraggiando la proposizione, a spese dello Stato, di impugnazioni del tutto superflue, meramente dilatorie o improduttive di effetti a favore della parte, il cui esito di inammissibilità sia largamente prevedibile o addirittura previsto prima della presentazione del ricorso. Non è secondario, poi, ad avviso della Corte, che il comma 2 dello stesso art. 106 del d.P.R. n. 115/2002 stabilisca che non possono essere liquidate le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte che, all'atto del conferimento dell'incarico, apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova. Alla luce di questa ricostruzione, la Corte ha osservato che il rimettente, pur avendo operato un corretto riferimento alla ratio della disposizione censurata (laddove ha riconosciuto che essa è diretta a impedire che vengano posti a carico della collettività i costi dei compensi per attività difensive superflue o irrilevanti), tuttavia, non ha tratto da tale riferimento le dovute conseguenze. Il rimettente, infatti, ha ritenuto insuperabile il tenore letterale della disposizione, non interpretandola, quindi, alla luce della sua (pur evocata) ratio. Ed invece - afferma la Corte - il tenore letterale dell'art. 106, comma 1, del d.P.R. n. 115/2002 non preclude affatto un'interpretazione che consenta di distinguere tra le cause che determinano l'inammissibilità dell'impugnazione, tenendo conto della ricordata ratio legis. Del resto, l'interpretazione letterale è solo il primo momento dell'attività interpretativa, che si completa con la ricerca e la verifica delle ragioni e dello scopo per cui la disposizione è stata posta (art. 12, comma 1, disp. prel. c.c.). E l'interpretazione basata sulla ratio legis conduce alla conclusione che l'art. 106, comma 1, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 non ricomprende i casi in cui, come accade nel giudizio a quo, la ragione dell'inammissibilità risiede in una carenza d'interesse a ricorrere, sopravvenuta per ragioni del tutto imprevedibili al momento della proposizione del ricorso. In definitiva, il risultato che il rimettente chiede di raggiungere attraverso una sentenza di accoglimento, è già consentito dalla disposizione censurata, se interpretata attraverso il ricorso agli ordinari criteri ermeneutici, e in particolare alla ratio legis, che permette di dare della disposizione una lettura non in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., sotto i profili evocati.
Osservazioni
La sentenza in rassegna è una sentenza di rigetto, nella quale la Corte fornisce una chiara interpretazione della norma censurata, alla stregua della quale l'art. 106, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 non ricomprende quei casi in cui la ragione dell'inammissibilità risiede in una carenza d'interesse a ricorrere, sopravvenuta per ragioni del tutto imprevedibili al momento della proposizione del ricorso. Come ha puntualmente evidenziato la Corte, la norma in esame è inserita nella parte III del Testo Unico sulle spese di giustizia e, in particolare, nel capo V del titolo II, ove sono contenute disposizioni particolari sul processo penale. Non esiste una norma corrispondente valevole per il processo civile. E, tuttavia, si deve ritenere che alle medesime conclusioni si possa pervenire in ambito civile facendo applicazione del più generale principio posto dall'art. 136, comma 2, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. In tal senso, si veda App. Catanzaro 16 dicembre 2016 (inedita) che, decidendo in una fattispecie nella quale il difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato chiedeva la liquidazione del compenso per l'attività svolta davanti alla Cassazione in un giudizio promosso con ricorso dichiarato inammissibile, ha ritenuto di qualificare come colpa grave la condotta della parte ed ha conseguentemente revocato l'ammissione al beneficio, rigettando la domanda di liquidazione del compenso. Infatti, il ricorso era stato dichiarato inammissibile in quanto teso ad ottenere dalla Corte di legittimità la nuova e diversa valutazione delle prove emerse in atti, prospettando, dunque, questioni di puro merito.
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