Si applica in appello la sanatoria della nullità della citazione introduttiva del giudizio di primo grado?
09 Maggio 2018
Massima
Il regime della sanatoria delle nullità per vizi della cd. vocatio in ius,dettata dall'art. 164, comma 5, c.p.c. per la citazione introduttiva del giudizio di primo grado, si applica anche alla citazione in appello. Il caso
Il soccombente nel giudizio di primo grado propone appello a mezzo di una citazione mancante di un particolare non propriamente trascurabile: l'indicazione dell'udienza di comparizione, indicazione la cui mancanza determina nullità della citazione ai sensi del comma 1 dell'art. 164 c.p.c.. La Corte d'appello dichiara inammissibile l'impugnazione, escludendo che all'atto di citazione in appello possa applicarsi la sanatoria prevista dal comma 2 della stessa disposizione, secondo cui il giudice, rilevata la nullità, dispone la rinnovazione della citazione, rinnovazione che, come il lettore sa, «sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione». La Corte territoriale fonda la propria decisione su un precedente della Corte di cassazione alla luce del quale, in buona sostanza, il congegno della sanatoria previsto dalla menzionata norma non è applicabile in appello, giacché la sentenza di primo grado, in mancanza di una valida e tempestiva impugnazione, passa in giudicato, con la conseguenza che non è possibile la sanatoria ex tunc. La questione
L'interrogativo è presto detto. L'art. 164 c.p.c. è norma dettata per il giudizio di primo grado, ma l'art. 359 c.p.c. stabilisce che nei procedimenti d'appello si applicano in quanto compatibili le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale: allora, il congegno della sanatoria della citazione in primo grado è compatibile con la disciplina del giudizio di appello? Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione cassa la decisione impugnata ed afferma il principio sopra indicato: la sanatoria dei vizi della vocatio in ius si applica anche alla citazione in appello. Non si può dire, tuttavia, che la decisione si diffonda in una approfondita e tetragona motivazione, e ciò nonostante il rilievo della questione fosse stato opportunamente segnalato dal Procuratore Generale, che aveva chiesto la rimessione alle Sezioni Unite, in ragione di un contrasto esistente nella giurisprudenza della Suprema Corte. In breve, il ragionamento svolto nel provvedimento in commento si riassume in ciò, che il precedente tenuto presente dalla Corte d'appello (Cass. civ., 8 settembre 2014, n. 18868), così come un importante arresto dello stesso tenore proveniente dalle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16), sarebbero stati pronunciati in relazione a controversie regolate dal testo previgente dell'art. 164 c.p.c., applicabile alle controversie sorte entro il lontano 3 aprile 1995, mentre, con riguardo al testo vigente, la giurisprudenza della Suprema Corte sarebbe ormai consolidata, «dopo alcune iniziali oscillazioni», delle quali non viene peraltro dato conto, nell'affermare che all'atto introduttivo del giudizio di appello «la suddetta disposizione sia integralmente applicabile». In realtà, però, non è affatto spiegato per quali ragioni la novella del 1990 dell'art. 164 c.p.c. renderebbe inattuale il ragionamento seguito dalla decisione invocata dalla Corte d'appello, e, d'altronde, tale ragionamento non è neppur rammentato, e tantomeno assoggettato a disamina critica, così come non sono sottoposte ad analisi neppure le decisioni poste a sostegno della soluzione accolta, quella della incondizionata applicazione dell'art. 164 c.p.c. anche in appello, giacché, in effetti, tali decisioni, lette per esteso, danno per scontata l'applicabilità in appello della citata norma, ma non spiegano perché essa supererebbe il vaglio di compatibilità richiesto dall'art. 359 c.p.c..
Osservazioni
Generalmente questo portale non si diffonde in note critiche: quello che ci interessa è spiegare agli operatori del diritto, prevalentemente agli avvocati, come fare per ottenere i risultati che si prefiggono; le riflessioni sui massimi sistemi le cercheranno, se vorranno, su altre riviste. Ma ogni tanto qualche osservazione critica è indispensabile. Le sentenze citate nella pronuncia in commento non spiegano il perché della piena applicabilità dell'art. 164 c.p.c. in appello, e non lo spiegano perché non lo possono spiegare; non lo possono spiegare perché, effettivamente, il vaglio di compatibilità non è superabile. L'art. 342 c.p.c. rinvia all'art. 163 c.p.c., ma non al successivo art. 164 c.p.c., che detta il regime della nullità e sanatoria dell'atto di citazione per il giudizio di primo grado, suddividendo i vizi che comportano nullità in due categorie, quelle dei vizi della vocatio in ius, suscettibile di sanatoria ex tunc, e quelli della editio actionis, sanabili ex nunc. Si pone in proposito, come si diceva, il quesito se l'art. 164 c.p.c., non richiamato dall'art. 342 c.p.c., sia nondimeno per intero applicabile alla citazione in appello (non solo nei commi 1 e 4, la cui applicabilità è indiscussa, ma anche nella parte concernente il regime di sanatoria della nullità) per il tramite dell'art. 359 c.p.c., il quale stabilisce che nel giudizio di appello si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale. L'applicabilità dell'art. 164 c.p.c. è stata esclusa dalla fondamentale decisione resa dalle Sezioni Unite, poc'anzi citata, che tratta delle conseguenze della mancanza del requisito di specificità dei motivi d'appello. In quell'occasione la Suprema Corte si è chiesta, se, attraverso l'art. 164 c.p.c., si possa ammettere la sanatoria dei vizi di nullità dell'atto d'appello. Ebbene, si legge lì che l'art. 164 c.p.c. non è «applicabile in tema di appello in virtù del rinvio generale contenuto nell'art. 359 c.p.c., in quanto, al fine dell'applicabilità delle norme dettate per il procedimento di primo grado, è necessario che tali norme superino il giudizio di compatibilità con le disposizioni del capo II del Libro II del codice di rito. Questo giudizio di compatibilità non è superato dall'art. 164, comma 2, c.p.c.. Scopo dell'atto di citazione di primo grado è quello di costituire il rapporto giuridico processuale. Scopi dell'atto di appello sono, oltre quello della costituzione del rapporto giuridico processuale di impugnazione, quello di evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, attraverso la denuncia della sua pretesa ingiustizia. La costituzione del convenuto, nel giudizio di primo grado, sana i vizi dell'atto di citazione, perché consente il raggiungimento dello scopo dell'atto. La costituzione dell'appellato, nel giudizio di appello, idoneo a raggiungere uno dei suoi scopi (costituzione del rapporto giuridico processuale), è inidoneo a raggiungere l'altro (impedimento del passaggio in giudicato della sentenza impugnata), che si consegue solo con il comportamento dell'appellante conforme alle previsioni di cui all'art. 342 c.p.c.». Ciascun lettore è ovviamente libero di pensare ciò che vuole dell'affermazione che precede: ma un dato è certo ed è incontestabile, ossia che tale affermazione non è neppure lontanamente sfiorata dalla circostanza che il testo del comma 2 dell'art. 164 c.p.c. sia stato oggetto, poco meno di una trentina d'anni fa, di novellazione: le Sezioni Unite dicono che la sanatoria della nullità dell'atto di citazione in primo grado non si applica all'atto d'appello perché è incompatibile, il che è indifferente al fatto che il legislatore abbia modificato, dilatandolo, il regime della sanatoria. Sulla base di tale assunto — sintetizzabile in ciò, che scopo dell'atto d'appello è (anche) impedire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, sicché nessuna sanatoria può configurarsi quando il passaggio in giudicato abbia avuto luogo per effetto dello spirare del relativo termine — la Suprema Corte ha ritenuto che la nullità della citazione in appello (si trattava della mancata indicazione dell'udienza di comparizione, come nel nostro caso,) comportasse automaticamente l'inammissibilità dell'impugnazione (Cass. civ., 25 febbraio 2004, n. 3809): e questa pronuncia, chiaramente riferita al testo vigente dell'art. 164 c.p.c., non è stata considerata dalla pronuncia in commento forse, chissà, perché ricondotta al numero delle «iniziali oscillazioni». Fatto sta che tale decisione è stata, come prevedibile, severamente criticata dalla dottrina (non di rado affetta da una sorta di riflesso condizionato che la induce ad invocare la Giustizia, con la G maiuscola, al fine di ottenere indulgenza per violazioni di precetti formali, che ben potrebbero essere evitate a priori con un minimo sforzo di diligenza, piuttosto che neutralizzate a posteriori, con i costi che ciò comporta in termini di durata del giudizio e di carico del sistema giudiziario nel suo complesso, in nome dell'esigenza che il processo giunga ad una decisione di merito), che l'ha definita «sconcertante» e, ça va sans dire, foriera di denegata giustizia. La giurisprudenza successiva, in effetti, riconosce per lo più l'applicabilità dell'art. 164, comma 2, in appello: ma, per quanto a me risulta, lo fa senza cimentarsi con il giudizio di compatibilità già formulato in termini negativi dalle Sezioni Unite. Ora, nella giurisprudenza della Corte di cassazione c'è, negli ultimi tempi, un'evidente tendenza, per conto mio totalmente fuori bersaglio, ad ampliare le maglie dell'ammissibilità dell'appello: basti considerare la recente Cass. civ., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199, sull'interpretazione dell'vigente art. 342 c.p.c., a leggere la quale sembrerebbe di capire che il legislatore non l'abbia nemmeno riformato. Questa è la temperie in cui si inquadra la decisione in commento. Ma quest'atteggiamento va in controtendenza rispetto all'indirizzo del legislatore, e produce una disfunzione grave del sistema della giustizia civile. Può piacere o non piacere, ma il disegno del legislatore è nel complesso chiaro, e non sarebbe male che i giudici ne tenessero conto. Ciò che il sistema può offrire è un primo grado a cognizione piena: regolato sì da un sistema di preclusioni e decadenze, ma complessivamente tale da offrire all'attore ampia possibilità di pervenire ad una pronuncia di merito. Dopodiché l'appello può servire soltanto a correggere individuati errori della sentenza di primo grado che l'appellante abbia con esattezza denunciato, con la precisazione che, se l'appello non ha una ragionevole probabilità di accoglimento, va rapidamente cestinato. Il ricorso per cassazione, poi, non può essere impiegato per denunciare vizi di congruità della motivazione troppo spesso impiegati per far rientrare dalla finestra quel giudizio di fatto che la disciplina del processo di cassazione espelle dalla porta. Il senso del congegno è che la legge tende a favorire il sollecito passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, nell'ottica di realizzare un equilibrato compromesso tra effettività della tutela giurisdizionale concernente il merito della controversia e contenimento della durata del processo. Ovviamente, in questa prospettiva, non vale invocare, a suffragio della decisione accolta nella ordinanza in esame, l'osservazione che il processo civile deve tendere ad una decisione di merito e non di rito: in primo grado, infatti, ove mancasse la previsione della sanatoria dei vizi della vocatio in ius, il rilievo di essi condurrebbe ineluttabilmente ad una pronuncia di mero rito; in grado d'appello, invece, la pronuncia d'inammissibilità dell'impugnazione va di pari passo, per l'appunto, con il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. |