Clausole di prelazione

Cecilia Frangini
10 Maggio 2018

Il codice civile enuncia, quale regola generale per le società di capitali, quella della libera trasferibilità delle azioni e delle partecipazioni, sia per atto tra vivi, che a causa di morte; è quanto emerge dal disposto degli artt. 2355 e 2469, comma 1, c.c., dettati rispettivamente per le s.p.a. e per le s.r.l. Lo stesso codice, tuttavia, oggi più che nel passato, tempera tale principio, prevedendo, agli artt. 2355-bis, comma 2, e 2469, comma 2, c.c., che si possa convenire di circoscriverne o comunque graduarne l'incidenza, sino a giungere all'estremo opposto di escluderne, anche del tutto, l'operatività. A tale riguardo vengono in rilievo le clausole statutarie di prelazione, che, con la loro funzione di evitare l'accesso di terzi estranei nella società e di mantenere tendenzialmente intatti i rapporti tra i soci, impongono al socio, il quale decida di vendere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente agli altri soci (o ad altri soggetti) e di preferirli ai possibili terzi acquirenti.
Inquadramento

Il codice civile enuncia quale regola generale per le società di capitali quella della libera trasferibilità delle azioni e delle partecipazioni, sia per atto tra vivi, che a causa di morte; è quanto emerge dal disposto degli artt. 2355 e 2469, comma 1, c.c., dettati rispettivamente per le s.p.a. e per le s.r.l.

Lo stesso codice, tuttavia, oggi più che nel passato, tempera tale principio, prevedendo, agli artt. 2355-bis, comma 2, e 2469, comma 2, c.c., che si possa convenire di circoscriverne o comunque graduarne l'incidenza, sino a giungere all'estremo opposto di escluderne, anche del tutto, l'operatività.

A tale riguardo vengono in rilievo le clausole statutarie di prelazione, che, con la loro funzione di evitare l'accesso di terzi estranei nella società e di mantenere tendenzialmente intatti i rapporti tra i soci, impongono al socio, il quale decida di vendere la propria partecipazione, di offrirla preventivamente agli altri soci (o ad altri soggetti) e di preferirli ai possibili terzi acquirenti.

Nonostante la estrema diffusione nella prassi (nelle società a responsabilità limitata la presenza della clausola di prelazione in statuto rappresenta un elemento costante, quasi tralatizio), la produzione giurisprudenziale formatasi negli anni appare concentrata su alcuni solo degli aspetti del fenomeno, seppure di massimo rilievo (natura della denuntiatio; effetti della sua mancanza); altre questioni (prima fra tutte la possibilità di concepire un funzionamento della clausola che prescinda dal canone della parità di condizioni tra l'offerta di trasferimento del – o al – terzo e l'offerta di trasferimento ai soci prelazionari) hanno formato oggetto di studio ed elaborazione soprattutto a livello di prassi contrattuale e notarile.

Di tali questioni il presente contributo intende fornire un quadro, che consenta agli operatori di orientarsi rapidamente tra le diverse possibili soluzioni e di cogliere gli assetti vigenti sia dell'elaborazione giurisprudenziale (alla luce delle opinioni provenienti dalla dottrina), sia dell'elaborazione effettuata dalla prassi (contrattuale e notarile).

Nozione

Benché costituisca una delle ipotesi di limitazione alla libera ed incondizionata circolazione delle partecipazioni societarie stesse maggiormente diffusa, il legislatore non si è preoccupato di fornire una definizione, nemmeno sommaria, della clausola di prelazione.

In linea di generali principi, la clausola in esame contiene la previsione che impone al socio, il quale decida di alienare la propria partecipazione in una società, di consentire, a certe condizioni, che l'acquisto venga effettuato da altri soggetti indicati nella clausola stessa: normalmente gli altri soci uti singuli, raramente la stessa società, eccezionalmente soggetti diversi (Stanghellini, art. 2355-bis c.c., Commentario alla riforma delle società, a cura di Marchetti-Bianchi-Ghezzi-Notari, 2008, 574).

È concetto acquisito che la peculiarità del patto in esame risieda nel fatto che esso, essendo normalmente previsto nello statuto, forma parte dell'organizzazione sociale, concorrendo a specificare le modalità attraverso cui “il soggetto si inserisce nella e partecipa all'azione societaria” (Angelici, Della società per azioni. Le azioni, Il codice civile. Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1992, 360).

La clausola di prelazione ha, dunque, la funzione societaria di evitare l'ingresso di elementi nuovi e magari sgraditi alla originaria compagine sociale, perseguendo

(i) per un verso, lo scopo di assicurare una maggior tutela del gruppo in sé, nonché

(ii) per altro verso, lo scopo di assicurare una tutela dell'interesse proprio del singolo socio, costituendo un rimedio che gli consenta, ove lo ritenga, di impedire che i rapporti di forza all'interno della società risultino, per effetto della cessione ad un terzo estraneo alla compagine precedente, alterati.

Tale, del resto, è la ratio alla base delle disposizioni di cui agli artt. 2355-bis e 2469 c.c., rispettivamente in materia di società per azioni e di società a responsabilità limitata, le quali disciplinano i limiti alla circolazione delle partecipazioni societarie e, nel far riferimento a clausole statutarie che pongano condizioni (la prima) o deroghino (la seconda) alla loro libera trasferibilità, risultano evidentemente applicabili anche – e proprio – alla clausola di prelazione: non è infatti discutibile che tali disposizioni siano preordinate al duplice scopo, appunto, di tutelare i soci da tentativi di scalate e di mutamenti della compagine societaria e di circoscrivere la dilatazione incontrollata della base azionaria.

In particolare, la seconda delle esigenze sopra specificate (quella diretta a tutelare l'interesse dei soci originari) spiega in particolare la ragione per la quale, nel caso che la compagine sociale risulti costituita da più di due soci ed il diritto di prelazione spetti a costoro (come solitamente avviene), il socio che intenda alienare ad un terzo la propria partecipazione debba offrire quest'ultima in prelazione agli altri soci, in proporzione alle rispettive quote.

Con riferimento, poi, alla natura giuridica della prelazione statutaria, ancora oggi non v'è uniformità di vedute.

Inizialmente si è tentato di ricondurre il patto nell'alveo del preliminare unilaterale, sottoposto, evidentemente, alla condizione sospensiva potestativa che il socio prelazionario decida di comprare.

Si è però osservato innanzitutto che il soggetto agente si impegna non tanto a concludere un contratto con il preferito, quanto a non concludere con altri, sicché si tratterebbe semmai di un pactum de non contrahendo (Busi, Le clausole di prelazione statutaria nelle S.p.A., in Riv. not., 2005, 3, 453); e, in secondo luogo, che l'evento dedotto in condizione rappresenterebbe una condizione meramente potestativa, con conseguente nullità ex art. 1355 c.c. (Nitti, La prelazione legale e convenzionale, in Lezioni di diritto civile a cura di Gambaro-Morello, Milano, 2013, 132).

È stata pure avanzata la tesi secondo cui il patto di prelazione costituirebbe un'ipotesi di contratto a favore del terzo: in forza dell'accordo concluso fra i soci (promettenti) e la società (stipulante) sorgerebbe in capo ai soci (uti singuli) il diritto di prelazione nell'acquisto della partecipazione sociale che uno di essi intende alienare; il diritto di prelazione diverrebbe pertanto intangibile da parte della maggioranza solo nel momento in cui uno dei soci abbia manifestato l'intenzione di alienare la propria quota di partecipazione e, prima di tale momento, la società (quale stipulante) potrebbe sempre revocare la stipulazione a favore del terzo ex art. 1411, c.c., eliminando il diritto di prelazione (Trib. Verona, 22 marzo 1991, in Giur. It., 1, 240).

A fronte di un panorama così disomogeneo, appare allora totalmente condivisibile l'opinione di chi ha osservato come sia poco produttivo cercare una qualificazione univoca dei patti di prelazione, i quali rappresentano un fenomeno in cui “l'interprete, posto di fronte ai problemi della prelazione pattizia, potrà dire soltanto che le parti possono volere ogni effetto compatibile con l'autonomia negoziale” (Sacco-De Nova, Il contratto, Torino, 2016, 1306 ss.).

Ambito di applicazione della clausola di prelazione

Un primo e fondamentale problema riguarda l'ambito di applicazione delle clausole limitative della libera circolazione delle partecipazioni; ciò sia sotto il profilo oggettivo, con riferimento cioè ai tipi societari rispetto ai quali la clausola sia concepibile; sia sotto il profilo soggettivo, cioè con riferimento alla operatività della clausola nei trasferimenti fra soci.

Sotto il primo profilo, quello oggettivo, vengono in esame innanzitutto le società per azioni, riguardo alle quali, come noto, la riforma del diritto societario del 2003 ha creato una distinzione tra società chiuse e società aperte (o che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio).

Con tale distinzione, si è posto il problema di stabilire se sia possibile inserire nello statuto di una società aperta la clausola in oggetto.

Con riferimento alle società quotate, la relativa circolazione nei mercati regolamentati non può formare oggetto di limitazioni, in forza di previsioni regolamentari esterne al codice civile provenienti da società di gestione dei mercati che impongono la libera trasferibilità (Meli, art. 2355-bis, Società di capitali. Commentario a cura di Niccolini-Stagno D'Alcontres, I, Napoli, 2004, 338; Dimundo, La riforma del diritto societario a cura di Lo Cascio, IV, Milano, 2003, 145; Santosuosso, La riforma del diritto societario, Milano, 2003, 98).

Va comunque ricordato che l'art. 14, comma 1, reg. Banca d'Italia-Consob del 22 febbraio 2008, in tema di immissione degli strumenti finanziari nella gestione accentrata, richiede la libera circolabilità delle azioni, che diversamente vengono comunque immesse nel sistema, ma con separata e specifica evidenza nei conti della società di gestione accentrata e dell'emittente.

Con riferimento al trasferimento di azioni non quotate sui mercati regolamentati ma diffuse tra il pubblico, la risposta sembrerebbe essere prevalentemente positiva, stante la mancanza di un principio posto dall'ordinamento che sancisca la incompatibilità tra l'appello al risparmio diffuso e la limitazione della circolazione delle azioni.

Vero è, in ogni caso, che il principio che regola il funzionamento della clausola di prelazione può porsi in contrasto con la speditezza che caratterizza gli scambi nelle società aperte; tuttavia, tale problema, secondo parte della dottrina, non può essere risolto attraverso una interpretazione forzata della normativa di riferimento (Stanghellini, art. 2355-bis c.c. cit., 568 ss.; Frè-Sbisà, Società per azioni, art. 2325-2409, Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca a cura di Galgano, Bologna-Roma, 341).

Secondo tale impostazione, nell'ipotesi in cui venga inserita una clausola di prelazione nello statuto di una società che faccia ricorso al mercato del capitale di rischio, la sua legittimazione deve essere cercata anche nel disposto dell'art. 2355-bis c.c..

Non mancano però le opinioni difformi, perché vi sarebbe una incompatibilità logica tra azionariato diffuso e limitazioni alla circolazione delle azioni (Pasquariello, art. 2355-bis, Commentario delle società a cura di Grippo, I, Torino, 2009, 366; Meli, art. 2355-bis cit., 340; Blandini, Società quotate e società diffuse. Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato diretto da Perlingieri, XXVI, Napoli, 2005, 142).

In ogni caso, si è osservato come permarrebbero difficoltà di ordine tecnico e giuridico legate anche alla necessità di indicare sul certificato azionario e non solo in statuto le clausole limitative della circolazione delle azioni, in un ambito in cui le azioni sono per definizione prive di supporto materiale (De Luca, Circolazione delle azioni e legittimazione dei soci, Torino, 2007, 374 ss.).

Nessun dubbio sussiste in ordine alla legittimità delle clausole di prelazione nell'ambito delle società a responsabilità limitata, in riferimento alle quali il già richiamato art. 2469 c.c., al suo primo comma, espressamente prevede che la regola della libera trasferibilità delle partecipazioni possa essere derogata statutariamente.

Del resto, se si tengono presenti gli interessi presidiati dalla clausola (tutela del gruppo in sé e tutela del singolo socio, in rapporto alla esigenza di mantenere tendenzialmente uniforme la composizione della compagine societaria ed i rapporti di forza interni), è agevole concludere come il massimo spazio di operatività della pattuizione in esame vada individuato proprio con riferimento alla società a responsabilità limitata, per come essa è emersa dalla riforma del 2003.

Si tratta, come noto, di un modello particolarmente fruibile proprio laddove l'elemento personale, pur calato nel quadro della responsabilità limitata all'investimento effettuato, continua ad avere rilievo primario.

L'ampia autonomia concessa ai soci e l'elasticità della disciplina, che consentono di modellare le clausole dell'atto costitutivo in funzione delle esigenze dei singoli casi concreti, si prestano allora facilmente a venire incontro proprio alle citate esigenze, cui la clausola di prelazione risponde, di controllo degli equilibri interni ad un tipo societario ove l‘elemento personale resta in primo piano sposano facilmente.

Questo spiega la ormai consueta, pressoché costante presenza negli atti costitutivi di società a responsabilità limitata di clausole destinate a disciplinare il diritto di prelazione; con riferimento a tale tipo societario si è anzi osservato un fenomeno di progressiva emersione della pattuizione in esame dal livello, inferiore, di clausola parasociale (contenuta in accordi di sindacato di blocco) al livello, superiore, di clausola statutaria: con tutte le conseguenze, su cui ci si soffermerà più avanti, in termini di efficacia (reale e non solo obbligatoria).

Per quanto concerne, poi, la possibilità di inserire tale clausola nell'atto costitutivo di una società di persone, la giurisprudenza di merito ha recentemente osservato che tale previsione costituisce una deroga alla regola del consenso unanime, stabilita dall'art. 2252 c.c. e ha conseguentemente affermato che: “il diritto di prelazione, previsto dallo statuto di una società di persone, implicitamente deroga alla regola del consenso unanime contemplata nell'art. 2252 c.c.. La clausola di prelazione conferisce la possibilità, ulteriore rispetto alla regola unanimistica espressa dalla norma codicistica, di acquistare la quota sociale. La differenza tra le due opzioni sta nel fatto che, mentre l'art. 2252 c.c. sottopone la vendita della quota al benestare di tutti gli altri soci non alienanti, il diritto di prelazione consente al socio alienante di cedere la propria quota a terzi solo se, e alle medesime condizioni, nessuno degli altri soci ha espresso la volontà di acquistarla. Il legislatore, in occasione della riforma del diritto societario del 2003, ha voluto erodere tale principio, consentendo di modificare, sotto il profilo soggettivo, a maggioranza e non all'unanimità lo statuto di una società di persone. Ne consegue che, in sede interpretativa, bisognerà valutare con sempre maggior favore le clausole che "implicitamente consentono una deroga" alla regola contenuta nell'art. 2253 c.c.” (Trib. Napoli, 2 settembre 2009, Notariato, 2010, 2, 126).

Sotto il profilo soggettivo, la clausola di prelazione può riguardare il trasferimento a qualsiasi terzo, ma può altresì escludere la propria applicazione nel caso di trasferimenti intra soci.

Il problema si pone, quindi, quando nello statuto non vi sia una previsione esplicita diretta a disciplinare tale situazione; in tal caso, la tesi prevalente propende per l'operatività clausola, tenuto conto del fatto lo scopo che i soci perseguono mediante la stessa è anche quello di mantenere inalterati gli assetti interni alla società (in giurisprudenza, sul presupposto della mancanza di una diversa previsione statutaria, si veda Trib. Milano, 24 aprile 2013, Giur. it., 2014, 1437; in dottrina Meli, La clausola di prelazione negli statuti delle società per azioni, Napoli, 1991, 204; Stanghellini, art. 2355-bis c.c. cit., 591)

L'ambito applicativo delle clausole di prelazione può essere analizzato anche con riferimento al tipo di trasferimento cui si riferisce.

Se infatti l'alienazione a titolo oneroso costituisce sicuramente l'ipotesi più frequente, si è discusso se quest'ultima possa essere (i) applicabile a negozi diversi dalla vendita, quale la permuta o anche ai negozi a titolo gratuito; e (ii) ai trasferimenti aventi ad oggetto di diritti reali minori sulle partecipazioni.

Con riferimento al quesito sub (i), sembra darsi ormai risposta positiva, anche se rimane di difficile interpretazione comprendere se, nel silenzio della clausola, questa debba applicarsi a tutte le vicende traslative, anche diverse dalla vendita.

La lettura estensiva è stata avallata e condivisa dalla dottrina, secondo cui la clausola in oggetto “è naturalmente destinata ad operare in occasione di ogni episodio traslativo, quale che sia il tipo negoziale progettato dall'alienante. Sì che il concreto riferimento alle vicende implicanti un trasferimento, o una cessione della partecipazione dovrebbe assicurare, di regola, alla clausola la massima capacità espansiva consentita dal più ampio valore semantico attribuito a dette espressioni” (Cian, Clausola statutaria di prelazione e conferimento di azioni in società interamente posseduta, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, 693).

La giurisprudenza non sembra orientata in tal senso, sposando una lettura restrittiva della clausola e, in tal senso, si ricorda in particolare la posizione del Tribunale di Milano, secondo cui: “il diritto di prelazione azionaria mira, a parità di percezione di danaro (bene fungibile di genere) da parte del socio venditore, a preferire un altro socio quale contraente della compravendita; nessuno spazio per siffatto istituto vi può essere, invece, quando, nel rapporto sinallagmatico contrattuale, alla dazione dei titoli corrisponda non una dazione di danaro, bensì l'attribuzione di un altro bene infungibile, quale un'altra partecipazione sociale” (Trib. Milano, 9 aprile 2008, Giur. it., 2008, 2226).

Tali rigidità hanno conseguentemente portato gli operatori pratici ad elaborare clausole statutarie che dichiaratamente prevedono l'operatività della prelazione anche con riferimento a vicende traslative diverse dalla compravendita, con conseguente necessità di disciplinare anche le modalità di determinazione del prezzo di acquisto della partecipazione da parte del socio prelazionario, qualora il trasferimento programmato dal socio alienante non preveda un corrispettivo in denaro.

Sulla questione si tornerà infra, a proposito della prelazione c.d. impropria.

Quanto, invece, al punto sub (ii) – l'operatività della prelazione in ipotesi di trasferimento di diritti reali minori costituiti sulle partecipazioni – la prassi notarile ammette la prelazione nella cessione di usufrutto, in quanto, negli acquisti a titolo derivativo-traslativo, il cessionario subentra nella stessa posizione giuridica del cedente, a nulla rilevando che l'acquirente che eserciti la prelazione sia un soggetto diverso dall'originario destinatario dell'offerta.

In evidenza: gli orientamenti del Notariato

Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, massima del n. H.I.18: “è legittima l'applicazione della clausola di prelazione anche alla cessione dell'usufrutto sulle azioni.

È altresì legittima la clausola statutaria che, nello stabilire il diritto di prelazione per il trasferimento della titolarità delle azioni, ne preveda l'estensione alle ipotesi di costituzione del diritto di usufrutto.

Nel caso di costituzione di usufrutto, il diritto offerto agli altri soci dovrà avere le stesse caratteristiche di quello che si intende costituire a favore del terzo. Pertanto, se si tratta di usufrutto vitalizio, ai soci sarà offerto un usufrutto a termine commisurato alla vita di detto terzo”.

La c.d. parità di condizioni e la prelazione impropria nelle S.p.A. e nelle S.r.l.

L'elemento che tradizionalmente caratterizza la clausola di prelazione è la perfetta coincidenza che deve esservi fra (i) l'offerta che il socio che programma il trasferimento della propria partecipazione fa al (o riceve dal) terzo che ne programma l'acquisto e (ii) l'offerta che il socio alienante deve fare agli altri soci, titolari del diritto di prelazione.

La c.d. parità di condizioni tra tali due offerte costituisce elemento naturale (ma, come si vedrà tra un attimo, non essenziale) della pattuizione in esame e concorre a definire la c.d. prelazione propria o pura, ove la prestazione del terzo e quella del socio prelazionario che abbia inteso esercitare il diritto che gli è concesso, è identica; la legittimità di tale genere di prelazione è fuori discussione (Cass., 12 gennaio 1989, n. 93, Giur. it., 1989, I, 1, 1340, nonché Giust. civ., 1989, I, 1378 e Società, 1989, 804; Stanghellini, I limiti statutari alla circolazione delle azioni, Milano, 1997, 50; Frè-Sbisà, op. cit., 360; Santosuosso, Il principio di libera trasferibilità delle azioni, Milano, 1993, 287).

Tuttavia, l'elemento della parità di condizioni a cui l'offerta va – normalmente, cioè naturalmente –presentata dall'alienante ai soci prelazionari, viene meno nelle clausole di prelazione c.d. impropria o impura, nelle quali cioè il prezzo offerto al socio prelazionario non è identico a quello offerto dal (o al) terzo, ma è quello che risulta determinato o determinabile sulla base di elementi diversi, indicati nella stessa clausola, in genere all'esito dell'intervento di un terzo che operi come arbitratore (Stanghellini, art. 2355-bis c.c. cit., 585).

Dubbi circa la legittimità di tale tipo di clausola si erano posti ante riforma e venivano fondati principalmente sul rilievo che la denuntiatio che il socio alienante deve effettuare ai soci prelazionari, per essere valida, deve indicare (come si vedrà) tutti gli elementi del programmato trasferimento, primo tra tutti, quindi, il prezzo: elemento quest'ultimo che, invece, nella prelazione c.d. impropria, risulta sacrificato, proprio perché si prevede che l'acquisto da parte del socio prelazionario potrà essere effettuato per un corrispettivo difforme da quello oggetto dell'offerta del (o al) terzo.

Una parte, seppur minoritaria, della giurisprudenza aveva inoltre ritenuto nulla la clausola di prelazione impropria, in quanto, attraverso essa, si sarebbe introdotto un criterio suscettibile di sacrificare il diritto del socio ad alienare la propria partecipazione al miglior prezzo (cfr. Trib. Trieste, 19 dicembre 1993, in Giur. comm.,1995, 431).

La dottrina prevalente (Stanghellini, I limiti statutari cit., 382 ss.; Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto della società, Torino, 2015, 236; Lolli, Diritto di prelazione e trasferimento di pacchetti azionari, Giur. comm., 1997, I, 547; Frè-Sbisà, op. cit., 360; Meli, La clausola di prelazione cit., 127 ss.) e altra parte della giurisprudenza, già ne avevano invece affermata la legittimità (Trib. Napoli, 29 giugno 1990, in Riv. dir. imp., 1990, 521), talvolta sottolineando la necessità di alcuni accorgimenti per evitare la possibilità di abusi (Trib. Alba, 14 gennaio 1998, Società, 1998, 1055, la quale aveva subordinato il giudizio di legittimità di una clausola di prelazione impropria, ove la determinazione del prezzo demandata ad un organo arbitratore poteva essere anche inferiore a quello di mercato risultante da una libera negoziazione, alla condizione che venisse indicato un conveniente limite di tempo entro il quale l'organo collegiale avrebbe dovuto pronunciarsi e che la limitazione del potere di alienare rispondesse ad un apprezzabile interesse di una delle parti).

Con la riforma del diritto societario lo scenario è radicalmente cambiato e la clausola in esame sembra aver trovato definitivo accoglimento (si veda, ad esempio, Trib. Verona, 4 ottobre 2010, Società, 2011, 386, secondo cui, a seguito della riforma del diritto societario, deve essere ribadita la generale liceità della clausola statutaria di c.d. prelazione impropria, soprattutto laddove la rimessione della determinazione del prezzo della cessione ad un collegio di arbitratori sia funzionale al superamento del conflitto di interessi in capo ai soci cedenti nella loro contemporanea qualità di componenti dell'organo amministrativo della cessionaria).

D'altra parte, il già citato art. 2355-bis c.c. – applicabile, come si è detto, anche alle clausole di prelazione – prevede che, quanto meno, “il corrispettivo dell'acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati secondo le modalità e nella misura previste dall'articolo 2437-ter”; in tal modo dunque sembra ammettersi, indirettamente ma inequivocabilmente, che l'acquisto del socio prelazionario possa avvenire anche non esattamente alle medesime condizioni dell'acquisto che effettuerebbe il terzo, purché nel rispetto del sacrificio massimo che il socio può sopportare nell'operazione di valorizzazione della partecipazione effettuata in relazione all'exit conseguente all'esercizio del recesso.

In ogni caso, già prima della riforma, la prassi aveva elaborato una ampia serie di formule statutarie destinate a disciplinare i meccanismi di funzionamento di clausole di prelazione c.d. impropria, perché costruite con riferimento a situazioni in cui, già a priori, il criterio della parità di condizioni appariva non pertinente o, comunque, non in grado di operare.

Lo scopo di tali formule era – ed è ancora oggi – evidentemente quello di evitare possibili aggiramenti del diritto di prelazione: il caso più evidente (e più semplice) è quello in cui il trasferimento programmato dal socio avvenga non a titolo di compravendita della partecipazione, ma a titolo di permuta con altri beni in titolarità del terzo acquirente, ove evidentemente – e salvo casi marginalissimi – il canone della parità di condizioni tra le offerte non potrebbe operare; o il caso di una offerta simulata proveniente da un terzo a prezzi esagerati, diretta a forzare la mano agli altri soci.

Tra le formule più utilizzate si riscontra sicuramente il ricorso ad un terzo arbitratore a cui è deferito l'incarico di determinare il prezzo della partecipazione da trasferire, seguendo il meccanismo delineato nell'art. 1349 c.c.; ricorso cui occorre fare riferimento anche nei casi in cui il trasferimento al terzo della partecipazione avvenga senza corrispettivo o per un corrispettivo non espresso in danaro o comunque a fronte di un corrispettivo infungibile.

È tuttavia innegabile che la scelta di introdurre in statuto una clausola di prelazione con arbitraggio sul prezzo, se da un lato presenta l'evidente vantaggio di evitare l'aggiramento della clausola, dall'altro lato vincola i soci al valore così determinato, facendo perdere all'alienante l'eventuale maggior prezzo che un terzo sarebbe stato disposto a pagare.

È stata quindi sottolineata la necessità che la clausola preveda l'obbligo per l'arbitratore di ancorarsi ai criteri di valutazione prescritti dall'art. 2437-ter c.c., in modo da assicurare un corrispettivo equo (Busi, La clausola di prelazione statutaria nella S.p.A., in Riv. not., 2005, 453; Dimundo, op. cit., 158; Massima Notarile Milano, n. 85);

Il citato art. 2437-ter c.c. pone, come si è già rilevato, il limite massimo del sacrificio per il socio che intenda disinvestire e che veda il proprio exit impedito dall'esercizio di un potere discrezionale.

Limite, questo, applicabile anche alla determinazione del prezzo effettuata da un arbitratore (Stanghellini, 2355-bis c.c. cit., 585), tanto che si è sostenuta l'efficacia della clausola di prelazione impropria a condizione che l'acquisto, seppure ad un prezzo inferiore rispetto a quello offerto da un terzo, sia tuttavia pari almeno a quello determinato ai sensi dell'art. 2437-ter c.c.; diversamente, la clausola dovrebbe comunque assicurare al socio che intende alienare il diritto di recesso (Stanghellini, I limiti statutari cit., 382; Massima Notarile Milano n. 85 e n. 86).

In ogni caso, se non contenesse i correttivi indicati dall'art. 2355-bis, comma 2 c.c., la limitazione derivante dalla clausola di prelazione non potrebbe avere efficacia superiore al quinquennio, risolvendosi, in ultima istanza, in una pattuizione assimilabile ad un effettivo divieto assoluto di trasferimento (Abriani, Le azioni e gli altri strumenti finanziari, Trattato di diritto commerciale diretto da Cottino, IV, 1, Padova, 2010, 381; Consiglio Nazionale del Notariato, Studio 158-2012/I).

In evidenza: gli orientamenti del notariato

Consiglio Notarile di Milano, massima n. 85: “devono ritenersi inefficaci (salvo che sia espressamente previsto il diritto di recesso) le clausole di prelazione contenute in statuti di S.p.A. che attribuiscano il diritto di esercitare la prelazione, al di là dei limiti temporali di cui all'art. 2355-bis, comma 1, c.c., per un corrispettivo, diverso da quello proposto dall'alienante, determinato con criteri tali da quantificarlo in un ammontare significativamente inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri di calcolo previsti in caso di recesso”.

Consiglio Notarile di Milano, massima n. 86: “sono efficaci le clausole di prelazione contenute in atti costitutivi di S.r.l. che, con riferimento alla circolazione delle quote, attribuiscano il diritto di esercitare la prelazione, per un corrispettivo, diverso da quello proposto dall'alienante, determinato con criteri tali da quantificarlo in un ammontare anche significativamente inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri di calcolo previsti in caso di recesso. In tale ipotesi, al socio che dovrebbe subire tale decurtazione spetta, ai sensi dell'art. 2469, 2° co., c.c., il diritto di recesso”.

Il funzionamento della clausola di prelazione; in particolare, la natura della denuntiatio

I meccanismi applicativi della clausola di prelazione si incentrano innanzitutto sulla denuntiatio, l'atto cioè con il quale il titolare delle partecipazioni di cui viene programmato il trasferimento rende noto ai beneficiari – cioè ai soci prelazionari – la sua intenzione di alienarle, informandoli altresì sia dell'identità del terzo intenzionato all'acquisto, sia, come si è anticipato, delle condizioni da questo – o a questo – offerte.

Sulla natura giuridica di tale dichiarazione, che si sostanzia, come si è detto, nella comunicazione della intenzione di alienare – si riscontrano in dottrina e giurisprudenza orientamenti divergenti.

Secondo l'indirizzo ormai prevalente, la dichiarazione ha natura di una vera e propria proposta contrattuale, con la conseguenza che, nella stessa, dovranno essere precisati, ai sensi dell'art. 1325 c.c., tutti gli elementi essenziali del contratto che si intende concludere con il terzo: non solo il prezzo, ma anche le modalità ed i tempi di pagamento, le garanzie eventualmente richieste.

Si tratta, infatti, di elementi che concorrono, sia singolarmente sia nel loro complesso, a costituire quella proposta contrattuale che rilevante ai fini del rispetto del canone della parità di condizioni alle quali il socio prelazionario può esercitare il proprio diritto.

Ulteriore conseguenza derivante da tale ricostruzione è, peraltro, il fatto che il perfezionamento del contratto di trasferimento delle partecipazioni a favore del destinatario dell'offerta finisce col realizzarsi con la semplice accettazione da parte di quest'ultimo, nel momento in cui essa giunga a conoscenza della controparte (in questo senso, in giurisprudenza: Cass. 12 giugno 2001, n. 7879, Notariato, 2 2002, 160; Trib. Avellino, 13 ottobre 2005, in Riv. not., 6, 2006, 553; Trib. Torino, ord. 27 marzo 2014, Il nuovo diritto delle società, 15, 2015, 82. In dottrina, Santoro-Passarelli, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, pp. 697 ss.; Infante, Cessione di quote e prelazione nelle S.r.l., Dir. e giust., 2006, 23; Stanghellini, art. 2355-bis c.c. cit.; 587; Riganti, Per una breve riflessione in tema di denuntiatio e prelazione societaria, nota a commento a Trib. Torino, ord. 27 marzo 2014cit., Il nuovo diritto delle società, 15, 2015, 82. Nei medesimi termini si veda anche Orientamenti del Comitato Triveneto dei notai in materia di atti societari, massima n. 14, Riv. not., 3, 2005, 206).

All'interno di tale (maggioritaria) tesi, vi è poi una suddivisione “in due filoni, il primo dei quali considera tale proposta [contrattuale] revocabile e il secondo – minoritario – che invece parla di irrevocabilità della medesima” (a favore della tesi della revocabilità, si veda Marena, Brevi note sulla clausola di prelazione statutaria, in Notariato, 2, 2014, 172; Colombo, Violazione di clausole statutarie di prelazione e tutela cautelare, Società, 2015, 1010; Santoro-Passarelli, op. cit., 704; Di Febo, Clausola statutaria di prelazione e trasferimento a titolo gratuito delle partecipazioni sociali, Riv. dir. comm., 2006, I, 450, secondo cui, in caso di cessione a titolo gratuito, l'offerta sarebbe revocabile anche dopo la dichiarazione di esercizio della prelazione da parte dei titolari, trattandosi dell'unica tutela concessa al socio al fine di evitare il sacrificio dell'intento di liberalità che lo aveva originariamente indotto alla stipulazione; sul fronte opposto e dunque a favore della irrevocabilità, si veda invece Sartore, Prelazione societaria e indicazione del terzo offerente nella denuntiatio, in Notariato, 2, 2002 166, in particolare nota 22, ove si richiama Cass., 25 ottobre 1975, n. 3557, resa tuttavia in tema di prelazione ereditaria).

Secondo una tesi oggi nettamente minoritaria, la denuntiatio si qualificherebbe, invece, quale “atto non negoziale di partecipazione delle condizioni” alle quali un terzo è disposto a contrarre (Sartore, op. cit., 163 ss. e, in particolare, 167).

In altri termini, secondo tale orientamento la denuntiatio, anziché a proposta contrattuale, sarebbe riconducibile ad un invito a offrire, ossia ad una mera dichiarazione della intenzione a vendere a un terzo, volta a innescare un'eventuale proposta di acquisto da parte dell'oblato alle medesime condizioni dichiarate nella denuntiatio (in questo senso, cfr. Trib. Milano, 23 aprile 2013, Notariato, 2, 2014, 166; Trib. Venezia, 17 novembre 2014, Società, 10, 2015, 1124).

In realtà, tale conclusione sembra doversi principalmente rapportare al peculiare contenuto delle comunicazioni sottoposte all'esame dei giudici, giacché la loro inidoneità a rappresentare vere e proprie proposte contrattuali è stata affermata in ragione dell'assenza, riscontrata in quei casi, degli elementi essenziali del contratto.

In particolare, la pronuncia del Tribunale di Milano del 23 aprile 2013 aderisce sì all'orientamento minoritario qui in esame, ma ha pure specificato che la denuntiatio ben potrebbe anche assumere valenza di vera e propria proposta contrattuale (i) qualora la clausola statutaria regolasse esplicitamente il meccanismo della prelazione, ovvero (ii) nell'ipotesi in cui il tenore della stessa deponesse espressamente “nel senso della formulazione di una vera e propria proposta negoziale”.

Altra parte della giurisprudenza, con riferimento alla necessità della indicazione delle generalità del terzo acquirente, sembra propendere, non a caso con riferimento ad una società a responsabilità limitata, per una soluzione che guardi alla rilevanza dell'intuitus personae (Trib. Boma, 8 luglio 2005, Riv. not., 2006, 553)

In evidenza: gli orientamenti del Notariato

Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie, massima n. H.I.14: “l'offerta di prelazione è valida quando ricorrono tutti gli elementi per informare in modo completo i soci o la società sui termini del contratto che si vuole offrire, e quindi contenere l'indicazione del prezzo delle azioni, le modalità di pagamento dello stesso, nonché le eventuali ulteriori indicazioni richieste dallo statuto”.

Sempre con riferimento ai contenuti della denuntiatio, altra questione che ha interessato gli interpreti è costituita dalla necessità di indicare il nominativo del terzo acquirente.

La giurisprudenza di legittimità risponde in modo affermativo, avendo statuito: “la denuntiatio deve contenere anche l'indicazione del nome del terzo offerente, trattandosi di tutelare, in relazione al riscontro di una volontà delle parti che assegni rilevanza all'intuitus personae, non soltanto uno specifico interesse a conservare una particolare omogeneità (anche familiare) della compagine sociale, ma anche l'esigenza di permettere una completa valutazione circa l'opportunità di esercitare o meno la prelazione, atteso che la serietà e congruità dell'offerta possono dipendere anche dalla persona dell'offerente, e dovendosi d'altra parte consentire ai soci titolari del diritto di prelazione la valutazione circa l'ingresso nella società di nuovi soci” (Cass., 12 giugno 2001, n. 7879, Giur. comm., 2002, II, 588, nonché Giust. civ., 2002, I, 139, Società, 2002, 42 e Notariato, 2002, 2, 160).

Violazione della clausola di prelazione: conseguenze e tutele esperibili

Le considerazioni appena svolte circa il ruolo della denuntiatio introducono il tema delle conseguenze derivanti dalla violazione degli obblighi nascenti dalla clausola di prelazione: nel caso cioè in cui il socio trasferisca le proprie partecipazioni senza prima offrirle ai soci prelazionari.

Si tratta del problema più rilevante inerente il tema della prelazione statutaria, ancor oggi fortemente controverso sia in dottrina che in giurisprudenza.

In via preliminare, per un corretto inquadramento della questione, appare opportuno distinguere a seconda che la clausola in esame sia inserita o meno nell'atto costitutivo o nello statuto.

Qualora la clausola non risulti inserita né nell'atto costitutivo né nello statuto, è fuor di dubbio che le relative pattuizioni hanno carattere meramente obbligatorio, con la conseguente inopponibilità delle stesse ai terzi.

Ci si troverebbe infatti dinanzi ad una convenzione dotata dei connotati tipici di un patto parasociale (nella specie, di un sindacato di blocco), la cui violazione darebbe origine, come è pacifico, ad una tutela esclusivamente risarcitoria.

Nella diversa ipotesi in cui la clausola sia inserita nell'atto costitutivo o nello statuto, questa assumerebbe, secondo l'orientamento prevalente, carattere reale.

Occorre sottolineare, tuttavia come all'espressione efficacia reale siano stati in realtà attribuiti i significati più diversi; con la conseguenza che la violazione della clausola di prelazione assume connotati diversi a seconda dell'orientamento che si intende seguire.

Infatti, accanto ad un più risalente orientamento, secondo il quale la cessione effettuata in violazione del patto di prelazione sarebbe addirittura nulla (ex multis, Trib. Milano, 27 febbraio 1989, Giur. comm., 1990, 564) o comunque inefficace anche tra le stesse parti (Cass., 30 settembre 2005, Giur. it., 2006, 968), si è più recentemente consolidata l'opinione secondo la quale alla violazione della clausola conseguirebbero effetti differenti a seconda dell'interesse preso in considerazione e ritenuto, in quella situazione, meritevole di tutela.

In tali sensi, torna a rilevare la duplice valenza, già sottolineata, della clausola in esame.

Per un verso, la portata organizzativa della clausola, rispondente all'interesse sociale, certamente le attribuisce, per l'appunto, valore sociale, sicché, una volta che la stessa sia stata inserita nello statuto, l'osservanza della stessa risponde ad un interesse della società, la cui violazione comporta l'opponibilità del contenuto della clausola violata al terzo acquirente e, correlativamente, l'inefficacia dell'atto di trasferimento in senso assoluto: vale a dire verso i soci pretermessi e verso la società.

In tali sensi si esprime la giurisprudenza oggi maggioritaria: non essendo il trasferimento efficace verso la società ed i soci prelazionari pretermessi, non sarebbe possibile procedere all'iscrizione a libro soci (Cass., 2 dicembre 2015, n. 24559, Giur. it., 2016, 1922 e Società, 2016, 366; Cass., 3 giugno 2014, n. 12370, Foro it., 2014, 1, 2826 e Società, 2015, 543; Trib. Napoli, 5 marzo 2014, in Società, 2016, 477; Trib. Cagliari, 28 agosto 2006, Riv. giur. sarda, 2008, 2, 323; Trib. Brindisi, 17 marzo 2006, Società, 2007, 1513; Trib. Milano, 10 marzo 2006, ivi, 2007, 165; Trib. Roma, 8 luglio 2005, in Riv. not., 2006, 553 cit.; Trib. Roma, 4 maggio 1998, Società, 1998, 1188; Trib. Roma, 23 ottobre 1991, ivi, 1992, 357; Trib. Milano, 23 settembre 1991, ibidem); tale inefficacia sarebbe poi opponibile al terzo senza tempo (Così Cass., 10 dicembre 1994, n. 10570, Società, 1995, 510; in senso contrario, però, Cass., 5 novembre 1992, n. 11973, che ha affermato la esistenza di una prescrizione quinquennale).

Altra parte della giurisprudenza ha affermato invece che l'inefficacia opererebbe in senso relativo, cioè solo verso la società (Trib. Catania, 20 novembre 2002, Giur. comm., 2003, II, 761; Trib. Milano, 6 febbraio 2002, Giur. it., 2002, 1220. Sembra porsi nell'ottica della inefficacia relativa anche Cass., 25 giugno 2008, n. 17328, Società, 2009, 1403).

In ogni caso, sotto opposto profilo, rispondendo la clausola anche ad esigenze di regolamentazione degli interessi dei soci uti singuli, l'atto di trasferimento compiuto in violazione della prelazione, pur inefficace verso la società ed i soci pretermessi, si rivela invece valido inter partes e darà luogo soltanto ad una tutela obbligatoria a favore del soggetto che ha acquistato la partecipazione, senza poter poi esercitare alcuna prerogativa in ambito societario; tutela che si dispiegherà attraverso l'azione risarcitoria o la richiesta della risoluzione della compravendita per mancanza di qualità essenziali o, in via alternativa o cumulativa, la domanda di risoluzione per dazione di aliud pro alio con condanna del venditore alla restituzione del corrispettivo (Abriani, Le azioni e gli altri strumenti finanziari cit., 390 ss.).

Se invece l'efficacia del contratto di cessione fosse condizionato alla successiva iscrizione al libro soci dell'acquirente, quest'ultimo potrà limitarsi a chiedere l'accertamento della inefficacia del negozio traslativo ed il ripristino dello status quo ante (Stanghellini, art. 2555-bis c.c. cit., 616).

Si comprende agevolmente che la sanzione dell'inefficacia consente, a differenza della nullità, successive integrazioni della fattispecie viziata o mancante, idonee a rendere pienamente produttivo di effetti il contratto di trasferimento della partecipazione a favore del terzo: ad esempio, attraverso la rinunzia del socio prelazionario, che sia a conoscenza di tutte le condizioni della cessione (così Trib. Roma, 8 luglio 2005, Riv. not., 2006, II, 541; Meli, La clausola di prelazione cit., 169 ss.).

Il tema della prelazione violata porta ad esaminare l'ulteriore questione della sussistenza di un diritto, per il soggetto pretermesso, di riscattare la partecipazione trasferita in violazione della clausola.

Su tale tema, la giurisprudenza è costante nel negare siffatto diritto al socio pretermesso, al quale quindi spetta solo una tutela di tipo obbligatorio (Cass., 2 dicembre 2015, n. 24559 cit.; Cass., 3 giugno 2014, n. 12370 cit.).

E ciò “poiché il diritto di riscatto costituisce un così intenso limite all'autonomia contrattuale ed al principio generale di cui all'art. 1379 c.c. che non può ravvisarsi in ipotesi diverse da quelle di prelazione legale in tal senso espressamente regolate dalla legge”; proprio sotto tale ultimo profilo, è stato infatti osservato che si tratta di un diritto di prelazione consentito dalla legge, ma non di una prelazione legale (da ultimo, Trib. Milano, 13 novembre 2015 e Trib. Roma, 29 settembre 2015, entrambe in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 26 febbraio 2015, Società, 2015, 1006).

Tuttavia, è bene sottolineare che, per quanto il diritto di riscatto non sia naturale conseguenza della violazione della clausola di prelazione, nulla esclude che lo statuto possa prevedere forme sanzionatorie volontarie a fronte della violazione dei limiti statutari alla circolazione delle azioni (in tali sensi, Dentamaro, art. 2355-bis c.c., in Codice delle società diretto da Abriani, Torino, 2016, 755. Si veda anche la Massima n. 99 del Consiglio Notarile di Milano, secondo la quale: “(…) la stessa riscattabilità può inoltre essere prevista quale condizione in cui qualsiasi azione può incorrere, al verificarsi di particolari eventi (ad esempio, a seguito del mancato rispetto del diritto di prelazione o di altro vincolo statutario alla circolazione ovvero per il superamento di un predeterminato limite di possesso, sia verso l'alto che verso il basso) […]).

Tale orientamento è puntualmente condiviso dalla giurisprudenza, la quale ha appunto specificato che anche in caso di clausola di prelazione contenuta in statuto e come tale dotata di efficacia erga omnes, la violazione della stessa “(…) non comporta l'insorgere di un diritto di riscattare la partecipazione oggetto della cessione, salvo che tale diritto sia stato espressamente previsto dallo statuto”; con l'ulteriore conseguenza, sul piano processuale, che “nel caso di violazione di clausola statutaria di prelazione, laddove lo statuto sociale di società per azioni non preveda un diritto di riscatto a favore del socio pretermesso, non sussistono i presupposti per la concessione del sequestro giudiziario, mancando una controversia tra le parti sulla proprietà o il possesso delle azioni oggetto di cessione” (Trib. Milano, 26 febbraio 2015, cit.).

In evidenza: la giurisprudenza

Cass., 2 dicembre 2015, n. 24559: “La violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l'inopponibilità nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione - stante la menzionata "efficacia reale" del patto inserito nello statuto sociale - della cessione della partecipazione societaria, che resta valida tra le parti stipulanti, nonché l'obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull'inadempimento delle obbligazioni. Per contro, siffatta violazione non comporta anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell'acquirente, atteso che il c.d. retratto non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettanti ai relativi titolari”.

Introduzione o soppressione della clausola statutaria

Altro profilo problematico concerne, infine, le modalità di introduzione della clausola di prelazione in statuto: si tratta infatti di comprendere quali siano, nella disciplina riformata, i quorum necessari per introdurla o per rimuoverla.

Al riguardo, si deve distinguere a seconda del tipo societario.

Con riferimento alle società per azioni, infatti, la riforma ha precisato che i vincoli alla circolazione delle azioni possono essere introdotti o rimossi nel corso della vita della società con delibera dell'assemblea straordinaria; ai sensi dell'art. 2437, comma 2, lett. b) c.c., se lo statuto non dispone diversamente, è riconosciuto il diritto di recesso ai soci che non hanno concorso all'approvazione della delibera.

Da tale premessa, la dottrina estende l'applicazione di tale previsione a qualsiasi clausola limitativa della circolazione delle azioni e, quindi, anche quella di prelazione; con la conseguenza che la modifica statutaria avente ad oggetto la clausola di prelazione può essere adottata a maggioranza e prevedere anche la possibilità del recesso per il socio dissenziente (Meli, art. 2355-bis cit., 345; Trib. Milano, 10 marzo 2006, Foro it., I, 2939).

Si ricorda comunque che, con riferimento a vicende sottoposte alla disciplina anteriore alla Riforma del 2003, la giurisprudenza aveva affermato che: “L'introduzione della clausola di prelazione nello statuto sociale modifica il regime di libera circolazione delle azioni, ponendo un limite al potere dispositivo dell'azionista, e deve necessariamente essere acconsentita da tutti gli azionisti” (Appello Genova, 14 maggio 2004, in Società, 2005, 183); impostazione, questa, fondata su un presunto diritto individuale del socio alla libera trasferibilità della propria partecipazione, come tale intangibile senza il suo consenso.

Con riferimento alle S.r.l., il tema è stato altrettanto discusso, data la natura di società di capitali ma comunque connotata da elementi spiccatamente personalistici.

Per un verso, alcuni autori hanno affermato la necessità di una delibera totalitaria, a causa dell'assenza, nelle società a responsabilità limitata, di una causa di recesso analogamente a quanto invece stabilito per le società per azioni dal citato art. 2437, comma 2, lett. b) c.c. ed in rapporto alla rilevanza che l'elemento personalistico continua ad avere (Busani, Società a responsabilità limitata. Il nuovo ordinamento dopo il D.Lgs. 6/2003, Milano, 2003, 274, almeno con riferimento alla introduzione della clausola di prelazione; Solinas, art. 2466 c.c., Commentario delle società a cura di Grippo, Torino, 2009, 1019); altri autori hanno affermato l'applicabilità in via analogica della medesima regola stabilita per le società per azioni (Zanarone, Della società a responsabilità limitata, Il codice civile. Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 2010, 569; Magliulo, AA.VV., La riforma delle società a responsabilità limitata, Torino, 2007, 269); secondo altra parte della dottrina, infine, l'introduzione o la soppressione delle clausole limitative della circolazione potrebbe avvenire a maggioranza, senza il riconoscimento di alcun diritto di recesso, dal momento che lo stesso è eventuale anche nelle società per azioni (Maltoni, art. 2469, Il nuovo diritto delle società diretto da Maffei Alberti, III, Padova, 2005, 1850; Revigliono, art. 2469 c.c., Il nuovo diritto societario. Commentario diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, Bologna, 2004, 1823; Rainelli, Il trasferimento della partecipazione, Le nuove S.r.l. diretto da Sarale, Bologna, 2008, 315; Riganti, art. 2469, comma 2, c.c., Codice della società a responsabilità limitata diretto da Cagnasso-Mambriani, 2015, Roma, 342).

Tale impostazione è peraltro supportata oggi (i) dalla prassi notarile, secondo cui: “La clausola statutaria che limita ovvero impedisce il trasferimento di partecipazioni di s.r.l. può essere introdotta o rimossa, se lo statuto non prevede diversamente, con il quorum deliberativo che lo statuto stesso - ovvero, in mancanza, la legge - genericamente dispone per le modifiche statutarie” (Massima n. 31 del Consiglio Notarile di Milano); e (ii) dalla recente giurisprudenza di merito che da ultimo ha affermato: “La clausola statutaria di prelazione è modificabile con deliberazione assunta con le normali maggioranze previste in tema di modifica dello statuto di S.r.l.” (Trib. Milano 22 dicembre 2014, in Società, 2015, 955).

Nel commento a tale decisione, la dottrina ha osservato come, nel sistema attuale, il modello capitalistico imponga la prevalenza dell'esigenza di perseguimento dell'oggetto sociale rispetto all'interesse particolare del socio, al quale è, come si è visto, riconosciuto comunque un ampio diritto di recesso; sicché sembra possibile concludere per una generale applicabilità del principio maggioritario, anche in considerazione del fatto che, laddove il legislatore ha inteso prescrivere la regola dell'unanimità, lo ha fatto espressamente e, soprattutto, con riguardo a modifiche inerenti particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili (Negri Clementi-Perricone, Modifiche statutarie e clausole di circolazione della partecipazione: una questione di quorum o di equa valorizzazione?, in Società, 2015, 955).

Riferimenti

Normativi:

  • Art. 2355-bis, comma 2, c.c.;
  • Art. 2469, comma 2, c.c.

Prassi:

  • Massima n. 85 del Consiglio Notarile di Milano;
  • Massima n. 86 del Consiglio Notarile di Milano;
  • Massima del Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie n. H.I.14;
  • Massima del Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie n. H.I.18;
  • Massima n. 99 del Consiglio Notarile di Milano

Giurisprudenza:

  • Cass., 2 dicembre 2015, n. 24559;
  • Trib. Milano 22 ottobre 2015;
  • Trib. Milano, 26 febbraio 2015;
  • Trib. Milano, 19 gennaio 2015
  • Trib. Milano 22 dicembre 2014;
  • Trib. Milano, 9 aprile 2008.
Sommario