Bancarotta documentale. Sulla sussistenza dell’obbligo di consegna delle scritture contabili in capo all'ex amministratore

Francesco Rubino
Roberta Francia
Roberta Francia
17 Maggio 2018

La pronuncia qui in commento concerne un episodio di bancarotta fraudolenta. Ai tre imputati venivano contestati i reati di cui agli artt. 110 c.p., 216, 223, 219 r.d. 267/1942: il primo in qualità di liquidatore dal 17 marzo 2008 ...
Massima

In caso di reato di bancarotta documentale, non sussiste l'obbligo di consegna delle scritture contabili al curatore, in capo all'ex amministratore effettivamente cessato dalla carica. Inoltre, perché il liquidatore risponda del reato in questione, è necessaria la prova dell'intenzionalità di quest'ultimo di omettere la consegna della contabilità al curatore.

Il caso

La pronuncia qui in commento concerne un episodio di bancarotta fraudolenta. Ai tre imputati venivano contestati i reati di cui agli artt. 110 c.p., 216, 223, 219 r.d. 267/1942: il primo in qualità di liquidatore dal 17 marzo 2008 fino alla dichiarazione di fallimento; il secondo in qualità di consigliere delegato, liquidatore fino al 17 marzo 2008 e comunque amministratore di fatto; l'ultima in qualità di socia nonché di amministratore di fatto dalla costituzione al fallimento. Secondo l'accusa gli imputati – in concorso fra loro – avrebbero sottratto e distrutto tutti i libri sociali e le scritture contabili con lo scopo di arrecare danno ai creditori sociali; distratto a proprio vantaggio la partecipazione in una società; e, in ultimo, aggravato il dissesto della società violando l'art. 2633 c.c. ovvero attraverso la ripartizione indebita a proprio vantaggio dell'attivo risultante dal bilancio finale di liquidazione.

Perché la vicenda oggetto della pronuncia sia di più facile comprensione, risulta opportuno specificare quanto segue:

  1. la società era stata messa in liquidazione volontaria a partire dal 24 novembre 2006, momento dal quale il consigliere delegato aveva assunto la qualifica di liquidatore.
  2. Durante tale fase, era stata proposta istanza di fallimento da parte di un creditore, che aveva poi condotto alla dichiarazione di fallimento pronunciata il 28 maggio 2009 dal Tribunale di Milano.
  3. Il 17 marzo 2008 era stato nominato, in sostituzione del precedente, un altro liquidatore, rimasto in carica fino alla dichiarazione di fallimento e, in qualità di rappresentante legale della società al momento della menzionata dichiarazione, risultava anch'egli fra gli indagati.
La questione

La questione in esame concerne l'identificazione delle responsabilità dell'amministratore cessato dalla carica in relazione agli adempimenti da porre in essere verso il curatore a seguito della sentenza di fallimento della società.

Le soluzioni giuridiche

L'ex amministratore della società: amministratore di fatto o extraneus in concorso con l'intraneus? Relativamente al reato di bancarotta documentale, si prenda in esame la posizione del primo imputato, consigliere delegato poi liquidatore fino al 17 marzo 2008. Al momento della dichiarazione di fallimento del 28 maggio 2009, pertanto, tale imputato assume la qualifica di terzo rispetto alla società.

Secondo costante giurisprudenza, richiamata anche dalla pronuncia oggetto di analisi – essendo la bancarotta un reato c.d. proprio – per poter ritenere sussistente una responsabilità per bancarotta documentale in capo a colui che ha formalmente rivestito la condotta di amministratore in una fase precedente alla dichiarazione di fallimento è necessario provare che egli abbia avuto un ruolo attivo nella gestione della società, sebbene in assenza di specifiche qualifiche formali. Tale circostanza può derivare o dalla contestazione e successiva prova che lo stesso fosse anche amministratore di fatto nell'ultima fase di vita della società o che abbia concorso, in qualità di extraneus, nel fatto dell'intraneus.

Relativamente alla prima delle due possibilità enunciate, si ritiene opportuno solo sottolineare che ormai unanime giurisprudenza equipara la posizione dell'amministratore di diritto a colui che, nonostante formalmente non ricopra tale veste, ne assuma di fatto il ruolo, in quanto si ritiene che quest'ultimo, titolare effettivo della gestione sociale, si trovi nella condizione di porre in essere la condotta tipica della bancarotta fraudolenta. La prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare – il quale costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Cass. pen., Sez. V, 15 settembre 2017, n. 55409).

Quanto alla seconda possibilità enunciata, la giurisprudenza sostiene che per affermare la responsabilità del concorrente extraneus nella condotta di bancarotta patrimoniale dell'intraneus, è sufficiente la presenza del solo dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ma al contempo il giudice deve dare adeguatamente conto in motivazione del fatto che il terzo sapeva di contribuire, con il suo comportamento, a dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell'impresa e di compiere atti che cagionino, o possano cagionare, danno ai creditori (Cass. pen., Sez. V, 10 luglio 2017, n. 48203).

Diversamente da quanto accadeva nel caso deciso dalla Corte di cassazione (Cass. pen. Sez. V, 5 maggio 2017, n. 21818), al quale il giudice de quo rinvia, ove il fatto era stato inquadrato nell'ambito della responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio, qui – come visto – la contestazione del reato in capo all'imputato viene costruita sulla base della qualifica di amministratore di fatto che questo avrebbe continuato a rivestire. Il regime probatorio che ne deriva, come afferma anche la Corte di cassazione nella pronuncia richiamata, risulta certamente più sfavorevole, essendo ben più pregnanti gli obblighi di tenuta e conservazione delle scritture contabili in capo all'amministratore di fatto piuttosto che al concorrente esterno privo di tale qualifica.

Tuttavia, nel caso di specie, come ricostruito nel dispositivo, dalle prove documentali e testimoniali acquisite in dibattimento, non risulta provato il ruolo di amministratore di fatto rivestito dall'imputato nell'ultima fase di vita della società. Ne deriva – pertanto – che il suddetto ricopriva a tutti gli effetti la qualifica di terzo, rispetto alla società.

Alla luce di quanto detto, quindi, non essendo stata raggiunta la prova di una sua partecipazione sostanziale nella gestione dell'ultima fase di vita della società, e non potendosi nemmeno travalicare i confini del capo di imputazione che, come detto, costruisce il reato sulla base della qualifica di amministratore di fatto dell'imputato, il giudice lo assolve per non aver commesso il fatto, in quanto – si legge nel dispositivo – «non è ravvisabile alcun obbligo di consegna al curatore delle scritture contabili in capo all'ex amministratore della società».

Pertanto in capo all'amministratore di una società che sia effettivamente cessato da tale carica non grava alcun dovere di conservazione della documentazione contabile né un obbligo di consegna della stessa al curatore, in quanto la relativa posizione di garanzia incombe – in via esclusiva – sul soggetto che rivesta la carica di amministratore o di liquidatore al momento della dichiarazione di fallimento.

Il liquidatore: necessità della prova del dolo specifico. Relativamente alla posizione del secondo imputato, si precisa che quest'ultimo rivestiva la qualifica di liquidatore al momento della dichiarazione di fallimento. A questo proposito occorre sottolineare che l'art. 223 r.d. 267/1942 estende l'applicazione dell'art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite. Ne deriva che il reato di bancarotta fraudolenta può essere commesso oltre che dall'imprenditore dichiarato fallito (c.d bancarotta propria) anche dai soggetti sopra riportati (c.d. bancarotta impropria).

Secondo quanto appena illustrato, anche colui che ricopre la qualifica di liquidatore al momento della dichiarazione di fallimento può essere soggetto attivo del reato di bancarotta, in quanto riveste la posizione di rappresentante legale della società.

Se ciò risulta pacifico dalla lettura delle norme citate, occorre soffermarsi più nel dettaglio sull'elemento soggettivo che deve aver mosso il soggetto attivo nel compimento della condotta tipica. L'art. 216, comma 1, n. 2 r.d. 267/1942 (bancarotta documentale) non risulta di immediata comprensione. Tale norma richiede, ai fini della configurabilità del reato, che il soggetto attivo abbia sottratto, distrutto, falsificato i libri o le altre scritture contabili con il preciso scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, o che li abbia tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. Si distinguono, quindi, le condotte di sottrazione, distruzione e falsificazione, le quali devono essere sorrette da un dolo specifico alternativo; dalla condotta di irregolare tenuta di scritture contabili per la quale è richiesto il dolo generico, perché la finalità dell'agente è riferita ad un elemento costitutivo della stessa fattispecie oggettiva – l'impossibilità di ricostruire il patrimonio e gli affari dell'impresa – anziché a un elemento ulteriore, non necessario per la consumazione del reato, quale è il pregiudizio per i creditori (Cass. pen. Sez. V, 15 maggio 2017, n. 45289).

Ciò chiarito, stando al capo di imputazione - come già detto - all'imputato venivano contestate le condotte di sottrazione e/o distruzione di tutti i libri sociali e le scritture contabili “con lo scopo di arrecare danno ai creditori sociali”. Tuttavia, secondo il giudice di prime cure la prova circa l'elemento soggettivo del dolo specifico non risulta raggiunta e, pertanto, assolve l'imputato perché il fatto non costituisce reato. Più nel dettaglio, come emerge dal dispositivo, il Tribunale di Milano, pur avendo accertato che il liquidatore avesse ricevuto almeno in parte la documentazione contabile della società, ha ritenuto del tutto insussistente la prova del dolo specifico, in quanto assente la prova che il medesimo fosse animato dall'intenzione di nascondere la contabilità al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. E ciò per una pluralità di circostanze: non era emerso nel corso del dibattimento che il liquidatore avesse intrattenuto rapporti con la società fallita prima della sua nomina a liquidatore, la quale interviene, e in ciò sta la seconda ragione, in un momento in cui la liquidazione era ormai pressoché completata. Risultava evidente – quindi – che il liquidatore non potesse aver avuto alcun interesse a non consegnare a ad occultare i documenti contabili.

Osservazioni

La pronuncia in esame assume interesse per quanto concerne la posizione del liquidatore. Infatti, se da un lato risulta ormai cosa nota che in capo all'ex amministratore della società fallita, che abbia effettivamente cessato ogni carica, non possa configurarsi un obbligo di consegna delle scritture contabili al curatore, in quanto terzo rispetto alla società stessa, dall'altro la pronuncia afferma che il liquidatore, pur avendo omesso in tutto la consegna della contabilità, non risponde se tale condotta non sia sorretta dal dolo specifico.

Quest'ultimo elemento soggettivo, la cui prova grava sull'accusa, può ritenersi integrato unicamente qualora si pervenga alla dimostrazione che il liquidatore non si sia limitato ad operare nella fase terminale di chiusura della società ma che, avendo interessi personali o di terzi da tutelare, si sia ingerito da tempo nella gestione della società.

In conclusione, si afferma che, alla luce di tutto quanto considerato, perché un soggetto sia ritenuto penalmente responsabile del reato di cui all'art. 216, comma 1, n. 2 r.d. 267/1942, non è sufficiente che esso ricopra la mera posizione di legale rappresentante della società all'atto del fallimento, essendo necessario un quid pluris consistente nella prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, che quest'ultimo abbia agito con l'intento di attuare una condotta volta a ledere gli interessi dei creditori o a nascondere propri o altrui vantaggi.