Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e violazione dell'obbligo di repechage: i regimi di tutela applicabili
22 Maggio 2018
Massima
“In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel regime di cui al novellato art. 18 St. Lav., la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di collocare altrove il lavoratore.
La “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”. Il caso
Ad una lavoratrice viene intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (da ora anche gmo), dichiarato, dai giudici di merito, illegittimo per violazione dell'obbligo di “repechage”; viene quindi applicata la tutela indennitaria “forte” di cui all'art. 18, comma quinto, St. Lav. (ove è disposto che il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione a vari parametri).
La Cassazione conferma la sentenza del giudice di appello, ma con diversa motivazione, ritenendo che la violazione dell'obbligo di “repechage” possa rientrare nella “manifesta insussistenza del fatto” ove vi sia evidenza probatoria della predetta violazione, nel caso, tuttavia, non ravvisata; ed aggiunge che, in caso di accertata “manifesta insussistenza”, non può venire automaticamente in considerazione la tutela reintegratoria, che il giudice “può” applicare (secondo l'espressione adottata dal legislatore) solo ove non sia “eccessivamente onerosa” per l'azienda. La questione
La questione in esame, non poco articolata, è la seguente: la violazione dell'obbligo di repechage da parte del datore di lavoro può costituire “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo"? Se sì, a quali condizioni? In caso di accertata violazione, l'applicazione della tutela reintegratoria è doverosa per il giudice o discrezionale? Le soluzioni giuridiche
Le risposte contenute nella sentenza in commento - la prima della Suprema Corte sulla questione - possono così sintetizzarsi: a) la violazione dell'obbligo di repechage può integrare “manifesta insussistenza del fatto”, a condizione che, sul piano probatorio, la predetta insussistenza sia evidente e facilmente verificabile; b) l'applicazione della tutela reintegratoria, pur a fronte di una “manifesta insussistenza del fatto”, rientra, comunque, nel potere discrezionale - da esercitarsi secondo determinati criteri (su cui v. infra) - del giudice.
In precedenza, nell'ambito della Sezione lavoro, si era ritenuto, da un lato, che l'obbligo di “repechage” facesse parte della fattispecie di licenziamento per gmo (cfr., tra le altre, Cass. sez. lav., 5 gennaio 2017, n. 160), e, dall'altro, che, in presenza di accertata “manifesta insussistenza del fatto”, il giudice “dovesse” applicare la tutela reintregratoria (v. Cass. sez. lav., 14 luglio 2017, n. 17528).
La sentenza in questione è coerente con il primo principio (laddove afferma che “nella nozione di giustificato motivo oggettivo rientra (…) sia l'esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”), mentre si discosta, esplicitamente, dal secondo (allorquando precisa che “la soluzione esegetica da privilegiare non può prescindere dal tenore lessicale della disposizione, non potendo condividersi interpretazioni … che privino di significato il dato letterale”). Vediamo quindi nel dettaglio i profili problematici della questione. Osservazioni
Secondo la Suprema Corte il concetto di manifesta insussistenza va valutato sul piano probatorio, dovendo riferirsi “ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.
Nel caso concreto è stata confermata la sentenza che, in relazione ad un licenziamento intimato il 26 marzo 2014, aveva ritenuto “insufficientemente assolto l'onere probatorio relativo all'obbligo di repechage in considerazione delle diverse assunzioni effettuate dalla società negli anni 2012-2014”; in particolare, stando a quanto riportato nella pronuncia in commento, il giudice di appello aveva rilevato una “insufficienza probatoria” in ordine alla insussistenza di posti ove potesse essere utilmente collocabile la lavoratrice, essendo “rimaste incerte le circostanze di fondamentale importanza ai fini della ricostruzione dell'organico aziendale, concernenti, in particolare, i livelli di inquadramento e le tipologie contrattuali dei nuovi assunti e le trasformazioni di contratti di apprendistato e a termine (ad orario pieno e part-time) effettuate nel periodo antecedente al recesso”.
In buona sostanza, qui, la Suprema Corte ha ritenuto non integrata la “manifesta insussistenza del fatto” poiché vi sarebbe stata una “insufficienza probatoria” concernente l'adempimento dell'obbligo di repechage. Tuttavia - proprio perché il carattere dell'evidenza va misurato, secondo la Suprema Corte, sul piano della prova - non è del tutto percepibile il perché la “insufficienza probatoria” debba ascriversi alla categoria della “non evidenza” (tanto più che, nel caso, ad essere rimaste incerte erano “circostanze di fondamentale importanza”) piuttosto che a quella della “chiara pretestuosità del recesso”.
La questione, come è intuitivo, è complessa, e - al di là del rilievo, sempre relativo, attribuibile a formule descrittive -, può essere affrontata con alcuni esempi (senza, ovviamente, pretesa di esaustività, essendo la possibile casistica non compiutamente immaginabile).
Vi è in primo luogo il caso in cui il datore non deduca prova circa l'adempimento dell'obbligo di “repechage” (cui è equiparabile quello in cui la prova non sia stata ammessa in quanto tardivamente dedotta, oppure irrilevante, e così via): qui non sembrano esservi dubbi circa la ricorrenza della “manifesta insussistenza”.
Vi è poi quello in cui il fatto da provare sia lineare - ad esempio, il lavoratore non poteva essere adibito all'ufficio “x” -, ma viene dimostrato in giudizio che il lavoratore medesimo poteva essere impiegato nel vicino ufficio y con mansioni equivalenti: anche qui non sembrano esservi dubbi circa la ricorrenza della “manifesta insussistenza”.
Vi è il caso ulteriore del datore che intenda provare che il lavoratore non poteva essere collocato né nell'ufficio “x”, né in quello “y”, né in quello “z” (distante, questo, centinaia di chilometri dalla sede di originaria assegnazione); qui, ove il datore abbia dato dimostrazione dell'adempimento dell'obbligo con riferimento alle prime due sedi, ma non della terza, potrebbe sostenersi che, complessivamente, l'inadempimento non è stato così evidente (anche sull'ipotetico rilievo che l'ultima sede era così distante che l'impiego del lavoratore non poteva considerarsi una valida alternativa, con conseguente attenuazione dell'effetto pregiudizievole per il lavoratore medesimo); ma potrebbe obiettarsi che, dovendo l'obbligo riguardare tutte le sedi, anche la violazione di esso con riferimento ad una sola sia espressione di “manifesta insussistenza”.
Vi è ancora il caso dell'acquisizione in giudizio di una prova in parte fornita dal datore ma non tale da essere considerata risolutiva per il giudice; qui il difetto di “manifesta insussistenza” potrebbe discendere dalla constatazione che il difetto di prova non è “pieno” (il che, si badi bene, non equivale all'espressione “prova insufficiente”, che si attaglia anche ad un difetto totale – sul piano quantitativo o qualitativo - di prova); ma anche in tal caso vi è buon spazio per le repliche, prima fra tutte quella per cui non è ravvisabile alcuna utilità nella valutazione isolata del “principio di prova”, dovendo aversi riguardo al complesso delle risultanze, anche provenienti dal lavoratore o dall'attività ufficiosa del giudice, che, prevalendo su quel “principio di prova”, ne annullano ogni valore, facendo sì che esso è come se non ci fosse.
Insomma, il tema è delicato, e non mancheranno in futuro delucidazioni della giurisprudenza. Così come non mancheranno in relazione alla delicata questione di cui alla lett. b). Ed infatti, all'affermazione che il dato letterale (imperniato, per come visto, sulla parola “può”) dell'art. 18, comma settimo, St. Lav. conduca a ravvisare un potere discrezionale-vincolato del giudice, potrebbe replicarsi che, non di rado, il legislatore usa il termine “può” come sinonimo di “deve”; si veda, ad esempio, l'art. 1421 c.c., ove è previsto che la nullità del contratto “può” essere rilevata d'ufficio dal giudice, nessuno dubitando che il “può” vada letto come “deve” (cfr. Cass., Sez. Un., n. 26242/2014: “La rilevazione <<ex officio>> delle nullità negoziali - sotto qualsiasi profilo, anche diverso da quello allegato dalla parte, ed altresì per le ipotesi di nullità speciali o <<di protezione>> - è sempre obbligatoria”).
Peraltro lo stesso dato letterale della previsione di cui all'art. 18, comma settimo, St. Lav., sembra precludere l'applicazione della tutela indennitaria di cui al comma quinto ove sia stata accertata la “manifesta insussistenza” del fatto. Ed infatti la norma recita: “Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotersi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”.
Dalla lettura della disposizione emerge, linearmente, che le “altre ipotesi” in cui il giudice applica la tutela indennitaria forte sono “diverse” da quella della “manifesta insussistenza del fatto” (ovvero si tratta delle ipotesi in cui il fatto è sì insussistente, ma non manifestamente); onde dovrebbe concludersi che, ricorrendo quest'ultima, il giudice può solo applicare la tutela reintegratoria.
Del resto, allorquando il legislatore ha voluto conferire al giudice un potere discrezionale, ha egli stesso fissato i criteri per il relativo esercizio (basti considerare tutte le fattispecie, proprio nel settore lavoristico, in cui il giudice si trova a dover liquidare indennità varie - in caso di licenziamento illegittimo o di contratto a termine nullo – sulla base di parametri predeterminati dal legislatore). Onde è plausibile ipotizzare che ove quei criteri non esistano – come nel caso –, il legislatore non abbia delegato il giudice all'esercizio di alcun potere. D'altra parte, anche sull'avvenuta opera di fissazione dei criteri, ad opera della Suprema Corte, mutuati dal diritto civile, possono formularsi alcune riflessioni. L'art. 2058 c.c. – richiamato nella sentenza in commento quale espressione di un principio generale - prevede che il giudice possa disporre che il risarcimento “avvenga solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”; il che presuppone, ovviamente, che il ristoro monetario sia “equivalente” a quello in forma specifica, avuto riguardo ad un danno “istantaneo” (può portarsi l'esempio del bene distrutto dal danneggiante non agevolmente reperibile sul mercato, onde il giudice accorda al danneggiato l'equivalente in denaro del valore del bene).
Ma, in materia di licenziamento sanzionato con tutela reale, l'indennità non è un bene equivalente al posto di lavoro (tant'è che il danno è permanente fin quando il lavoratore non venga reintegrato); la tutela indennitaria, infatti, è qualcosa di meno di quella reale. Solo il lavoratore può decidere, nell'ambito del sistema, se il posto possa essere monetizzato (ove egli eserciti l'opzione per il conseguimento dell'indennità sostitutiva).
Anche il richiamo al potere di riduzione della penale merita qualche considerazione, perché, in quel caso, l'intervento correttivo del giudice consegue ad una liquidazione del danno da inadempimento compiuta dalle parti, quindi, in ipotesi, in modo errato per eccesso. Mentre, in via generale, al giudice non è consentito “ridurre” una posta risarcitoria se non è previsto in modo chiaro dalla legge sulla base di determinati criteri.
Occorre infine considerare che il parametro indicato dalla Suprema Corte, ossia quello della “struttura organizzativa” assunta dall'impresa, oltre ad essere non poco elastico, determina un (ulteriore) aggravamento nella gestione della controversia, poiché il giudice dovrebbe, in definitiva, valutare: 1) se il licenziamento è illegittimo; 2) in caso positivo se vi è “manifesta insussistenza del fatto”; 3) in caso ancora positivo, se la reintegra non è eccessivamente onerosa, avuto riguardo alla “struttura organizzativa dell'azienda” al “momento di adozione del provvedimento giudiziale”.
Conseguendone i seguenti interrogativi: a) cosa significa in concreto che la struttura organizzativa aziendale non consente la reintegra?; b) l'onerosità del rimedio è o no rilevabile di ufficio dal giudice?; c) se sì, come sembra ragionevole, fino a quale momento del processo?; d) il giudice è tenuto o no, ove rilevi l'impedimento alla reintegra, a segnalare la questione alle parti perché discutano al riguardo?; e) la predetta onerosità è rilevabile in appello?; f) se sì, anche tenendo conto della situazione aziendale a quel momento?; g) ove in appello la situazione aziendale torni ad essere florida, il giudice del gravame può di ufficio ribaltare la sentenza di primo grado che abbia respinto la reintegra, o sulla questione deve esserci l'impugnazione del lavoratore?
In conclusione, non può escludersi che l'opzione di fondo perseguita nell'occasione dalla Suprema Corte, imperniata sulla non obbligatorietà della reintegra in presenza di “manifesta insussistenza del fatto” - in consapevole contrasto con altra recente pronuncia (la citata Cass. sez. lav., 14 luglio 2017, n. 17528) -, possa condurre ad un intervento delle Sezioni Unite, sinora esonerate, nella nota e delicata fase di progressiva rimodulazione della fattispecie di licenziamento per gmo, dal compito di fornire proprie indicazioni in materia. |