Estinzione della persona giuridica

Mauro Di Marzio
24 Maggio 2018

Tutti sanno cosa accade nel processo se muore la persona fisica: il processo, se ne ricorrono le condizioni (e cioè, in breve, se l'evento è dichiarato in udienza o notificato alle altre parti), si interrompe, dopodiché può essere riassunto da o nei confronti dell'erede. Ora, l'evento della morte della persona fisica non può evidentemente aver luogo nei confronti della persona giuridica, riguardo alla quale si presentano però situazioni in tutto o in parte assimilabili. Nell'articolo che segue vengono esaminate separatamente le diverse ipotesi che possono presentarsi.
L'estinzione della persona giuridica in generale

Il fenomeno dell'estinzione della persona giuridica ricade, sul piano processuale, sotto la disciplina dell'art. 110 c.p.c., il quale stabilisce che: «Quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto».

Il significato della disposizione è discusso. In breve può dirsi che parte della dottrina guarda alla successione nel processo come al risvolto processuale di una vicenda di natura sostanziale determinata dal venir meno della parte e, in conseguenza di ciò, dal congegno successorio che tale evento normalmente determina; altri autori tengono invece distinto il profilo processuale da quello sostanziale ed assumono, cioè, che la disposizione rechi la disciplina di un fenomeno esclusivamente processuale, non dipendente dai mutamenti verificatisi sul piano sostanziale: soluzione, quest'ultima, la quale si appoggia sull'osservazione, ridotta all'essenziale, che, essendo il processo in corso, non potrebbe configurarsi un fenomeno successorio in ordine alla titolarità di diritti che sono ancora al momento sub iudice.

Nella prima prospettiva (per la quale v. Proto Pisani, Dell'esercizio dell'azione, in Comm. C.p.c. diretto da Allorio, I, 2, Torino 1973, 1211; De Marini, La successione nel diritto controverso, Roma, 1953, 2; Romagnoli, Successione nel processo, in NovissDI, XVIII, Torino, 1971, 691; Andrioli, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1973, 298; Marengo, Successione nel processo, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 1383) l'art. 110 c.p.c. andrebbe letto in simmetria con il successivo art. 111 c.p.c.: l'uno dettato per la successione a titolo universale, l'altro per la successione a titolo particolare.

A fronte di quest'opinione si sostiene da altri, come si diceva, che la disposizione in commento disciplinerebbe un fenomeno esclusivamente processuale quale quello della successione nello status di parte, distinto e non dipendente dai mutamenti verificatisi sul piano sostanziale (Picardi, La successione processuale, Milano, 1964, 194; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, I, Milano, 2007, 96; Redenti, Diritto processuale civile, I, 3ª ed., Milano, 1980, 197), allo scopo — viene da altri ricordato — «squisitamente processuale, di ricostituire la necessaria bilateralità del processo, ove questa venga a mancare per la scomparsa di una parte» (Luiso, Artt. 110-111, in Vaccarella-Verde, Codice di procedura civile commentato, I, orino 1997, 779).

La Suprema Corte, poi, afferma in alcune pronunce che, ove nel corso del giudizio muoia una delle parti, la legittimazione attiva e passiva si trasmette agli eredi indipendentemente dalla successione nel diritto controverso: secondo quest'impostazione, dunque, l'operatività dell'art. 110 c.p.c. appare scollegata dal sostrato sostanziale della vicenda (v. in varie fattispecie Cass. civ. 14 maggio 1984, n. 2931; Cass. civ.15 luglio 1985, n. 4141; Cass. civ. 25 agosto 1986, n. 5169; Cass. civ. 2 agosto 1995, n. 8452; Cass. civ. 25 gennaio 1997, n. 779; Cass. civ. 18 maggio 2000, n. 6480; Cass. civ. 17 aprile 2001, n. 5603; Cass. civ. 6 febbraio 2004, n. 2292; Cass. civ. 25 marzo 2005, n. 6469; Cass. civ. 30 gennaio 2006, n. 1887; Cass. civ. 19 gennaio 2007, n. 1202).

A fronte di questa impostazione, altre pronunce ritengono applicabile l'art. 110 soltanto in caso di successione dell'erede nel rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, sicché la disposizione non mirerebbe a ricostituire la bilateralità del processo, ma sarebbe diretta ad individuare i soggetti che hanno il potere di contraddire sul piano del diritto sostanziale (in tal senso v. in particolare Cass. civ. 19 giugno 1996, n. 5664; Cass. civ. 25 giugno 2003, n. 10065).

In definitiva, la fattispecie prevista dall'articolo 110 c.p.c. consta di due elementi: i) il venir meno di una delle parti «per morte o per altra causa»; ii) il verificarsi di una successione a titolo universale. Con la precisazione, tuttavia, che tale successione è talora intesa come successione «nel diritto», secondo l'espressione adottata dalla sentenza da ultimo citata. Resta fermo che, in mancanza di uno dei menzionati elementi si è al di fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 110 c.p.c..

Fusione

Occorre soffermarsi anzitutto sulla fusione societaria nelle sue ricadute sul processo.

In passato, sulla scia della dottrina prevalente (v. i cit. Andrioli, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1973, 365; Proto Pisani, Dell'esercizio dell'azione, in Comm. C.p.c. diretto da Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1213), la Suprema Corte affermava che l'incorporazione di una società realizzasse una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale e producesse gli effetti, tra loro indipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa, del nuovo ente: pertanto, se tale estinzione si fosse verificata nel corso del giudizio di primo grado, ancorché non dichiarata o notificata, il difensore della società incorporata non avrebbe potuto proporre impugnazione a nome della società incorporante, in difetto di espresso mandato di quest'ultima, avvalendosi della procura conferita dalla società estinta (Cass. civ. 2 agosto 2001, n. 10595; Cass. civ. 6 dicembre 2004, n. 22877; Cass. civ. 9 maggio 2008, n. 11532): la qual cosa è in se stessa evidente, giacché — se si parte dalla premessa che la fusione determina soluzione di continuità tra l'uno e l'altro soggetto — non è pensabile che la procura rilasciata dalla società «defunta» abiliti il difensore a svolgere il suo incarico in nome non già della conferente, ma di un terzo, la società incorporante. In caso, invece, di dichiarazione o notificazione dell'evento, si determinava l'interruzione del processo, che doveva quindi essere riassunto dall'incorporante o nei suoi confronti.

La soluzione così riassunta, in breve, guardava al fenomeno della fusione per incorporazione come ad un evento interruttivo (p. es. Cass. civ. 7 luglio 2008, n. 18615) parificabile in tutto alla morte della persona fisica (in questo senso, espressamente, p. es. Cass. civ. 10 dicembre 2008, n. 28989).

Sulla materia, in seguito, è intervenuto l'art. 2504-bis c.c. introdotto dalla riforma del diritto societario di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il quale ha stabilito, al primo comma, sotto la rubrica «Effetti della fusione», che: «La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione».

Nell'interpretare il significato della nuova disposizione, le Sezioni Unite hanno affermato che la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l'estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell'ipotesi di fusione paritaria, ma attua l'unificazione mediante l'integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo: deve pertanto escludersi che la fusione per incorporazione determini l'interruzione del processo ai sensi dell'art. 300 c.p.c. (Cass. civ., Sez. Un., 8 febbraio 2006, n. 2637; nello stesso senso Cass. civ. 28 febbraio 2007, n. 4661; Cass. civ. 3 maggio 2010, n. 10653).

Le stesse Sezioni Unite hanno confermato che la fusione mediante incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario realizzava una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale, con quanto ne conseguiva in tema di applicazione delle regole dell'interruzione del processo (Cass. civ., Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183).

Il quadro così delineato — riassumibile in ciò, che la fusione per incorporazione costituiva evento interruttivo fino alla riforma del diritto societario (Cass. civ. 25 febbraio 2011, n. 4740; Cass. civ. 22 marzo 2010, n. 6845), mentre non è più tale successivamente ad essa — si è ulteriormente modificato a seguito di un successivo arresto, ancora una volta delle Sezioni Unite, che hanno confermato la lettura della nuova norma, ma hanno riconsiderato la situazione pregressa. È stato cioè affermato che, pur avendo l'art. 2504-bis c.c. natura innovativa e non interpretativa, sicché la fusione non può essere considerata, quanto al passato, come vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, le fusioni verificatesi anteriormente al 1° gennaio 2004, pur dando luogo ad un fenomeno successorio, si diversificavano dalla successione mortis causa perché la modificazione dell'organizzazione societaria dipendeva esclusivamente dalla volontà delle società partecipanti, con la conseguenza che quella che veniva meno non era pregiudicata dalla continuazione di un processo del quale era perfettamente a conoscenza, così come nessun pregiudizio subiva la incorporante, che poteva intervenire nel processo ed impugnare la decisione sfavorevole: in tal modo le Sezioni Unite hanno escluso l'applicazione della disciplina dell'interruzione di cui agli artt. 299 ss. c.p.c. anche in relazione al periodo antecedente al 1° gennaio 2004 (Cass. civ., Sez. Un., 17 settembre 2010, n. 19698; nello stesso senso, da ult. Cass. civ. 26 gennaio 2016, n. 1376).

In sintesi, nell'ipotesi della fusione per incorporazione, la disciplina dell'interruzione non opera affatto: sicché il difensore della società incorporata può proseguire nello svolgimento del suo incarico, entro i limiti in cui la procura lo consente, come se nulla fosse accaduto.

Trasformazione

La dottrina è poi concorde nel ritenere che i fenomeni di trasformazione delle persone giuridiche — ed a maggior ragione quelli di semplice mutamento di denominazione — non comportano l'applicazione della disciplina dettata dall'art. 110 c.p.c., dal momento che la trasformazione non dà luogo all'estinzione del soggetto, ma, per l'appunto, semplicemente ad una sua modificazione senza soluzione di continuità (Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 1, Padova, 2001, 559; Dalfino, La successione tra enti nel processo, Torino, 2002, 357). Il che è quanto del resto stabilisce l'art. 2498 c.c., secondo il quale: «Con la trasformazione l'ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell'ente che ha effettuato la trasformazione».

Sulla base di tale disposizione si trova in giurisprudenza affermato che la trasformazione di una società da uno ad altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell'estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di un altro, in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale non incide sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno capo (Cass. civ. 13 settembre 2002, n. 13434; Cass. civ. 9 febbraio 2005, n. 2636; Cass. civ. 14 dicembre 2006, n. 26826; Cass. civ. 10 febbraio 2009, n. 3269; Cass. civ. 20 giugno 2011, n. 13467).

Questa impostazione si precisa in ciò, che la continuità delle società si mantiene anche a seguito della trasformazione di una società in accomandita semplice in società irregolare, ferma restando l'identità dell'impresa (Cass. civ. 26 gennaio 2000, n. 851). Ed ancora, la trasformazione di una ditta individuale in società, ancorché non dotata di personalità giuridica, implica il trasferimento delle situazioni soggettive attive e passive inerenti all'esercizio dell'impresa, in precedenza imputate al titolare della medesima, al nuovo centro di imputazione rappresentato dalla nuova società, dando luogo, per l'effetto, ad una successione a titolo particolare che, verificatasi in corso di giudizio, rientra nelle previsioni dell'art. 111 c.p.c. (Cass. civ. 24 settembre 2002, n. 13856). Non dà luogo a successione titolo universale la cessione d'azienda, la quale comporta invece successione a titolo particolare, sia pure inerente ad un complesso di beni e rapporti, con conseguente applicazione dell'art. 111 c.p.c. (Cass. civ. 28 dicembre 1989, n. 5803).

Nel processo, in caso di contestazione, spetta alla società trasformata, ovvero che abbia mutato denominazione, dimostrare che essa si pone in continuità con il precedente soggetto (Cass. civ. 29 luglio 1994, n. 7131; Cass. civ. 3 gennaio 2002, n. 26).

Scissione

Con riguardo alla scissione societaria, la Suprema Corte, sulla linea della dottrina prevalente (Dalfino, op. loc. cit.; Magri, Natura ed effetti delle scissioni societarie: profili civilistici, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 40; contra Oppo, Fusione e scissione delle società secondo il d.lgs. n. 22/1991. Profili generali, in Riv. dir. civ., 1991, II, 507), aveva sostenuto, nel vigore della normativa precedente, che la scissione totalitaria, a differenza di quella parziale, determinasse l'estinzione del soggetto e, dunque, comportasse l'applicazione dell'art. 110 c.p.c. (Cass. civ. 27 aprile 2001, n. 6143).

La disciplina della scissione è stata in seguito disciplinata dall'art. 2506 c.c.. Diversamente da quanto stabilito in precedenza, la nuova norma prevede che con la scissione una società «assegna» l'intero suo patrimonio, o parte dello stesso, a più società, preesistenti o di nuova costituzione. Alcuni autori, ponendo l'accento sull'adozione del termine «assegna», hanno dunque ritenuto che la scissione non produca un effetto traslativo, ma determini soltanto un mutamento organizzativo della società (Cagnasso, Commento all'art. 2506, in Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti (a cura di), Il nuovo diritto societario, Bologna, 2004, 2355). Altri hanno affermato che l'espressione «assegna» non si presta ad essere intesa come volta ad escludere il trasferimento del patrimonio societario (Spitaleri, Commento all'art. 2506, in Sandulli-Santoro (a cura di), La riforma delle società. La società a responsabilità limitata. Liquidazione. Gruppi. Trasformazione. Fusione. Scissione. Commentario del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, Torino, 2003, 489).

Anche su questa materia è intervenuta la Suprema Corte, la quale ha affermato che la scissione societaria, secondo la nuova disciplina, con effetti dal 1° gennaio 2004, consistendo nel trasferimento del patrimonio ad una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l'assegnazione di azioni o di quote delle stesse ai soci della società scissa, produce effetti traslativi, che, sul piano processuale, non determinano l'estinzione di quest'ultima ed il subingresso di quella o di quelle risultanti dalla scissione nella totalità dei rapporti giuridici della prima, ma una successione a titolo particolare nel diritto controverso, che, ove intervenga nel corso del giudizio, comporta l'applicazione della disciplina di cui all'art. 111 c.p.c. (Cass. civ., Sez. Un., 15 novembre 2016, n. 23225).

Scioglimento

Lo scioglimento delle società era in passato disciplinato dall'art. 2448 c.c., il quale nulla stabiliva in ordine agli effetti della medesima sul processo eventualmente in corso. Nel quadro di applicazione di tale disposizione la Suprema Corte era ferma nel ritenere che la legittimazione processuale della società permanesse, nonostante la cancellazione, fin tanto che non fossero esauriti i rapporti giuridici ad essa relativi (Cass. civ. 1° luglio 2000, n. 8842; Cass. civ. 22 giugno 2001, n. 8536; Cass. civ. 24 maggio 2004, n. 9917; Cass. civ. 25 ottobre 2004, n. 20720; Cass. civ. 2 marzo 2006, n. 4652).

La materia è oggi regolata dall'art. 2484 c.c., che prende posizione sugli effetti dello scioglimento, chiarendo che gli stessi, nelle ipotesi elencate, si producono con l'iscrizione presso il registro delle imprese. La citata disposizione va poi letta in combinato disposto con l'art. 2495 c.c., dettato in tema di cancellazione delle società, il quale, diversamente dal previgente art. 2456 c.c., attribuisce espressamente efficacia estintiva alla cancellazione della persona giuridica dal registro delle imprese. Il congegno estintivo della società per effetto della cancellazione, con il ribaltamento del precedente indirizzo secondo cui il permanere di rapporti giuridici facenti capo alla società impediva la sua estinzione, è recepito nella giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che la cancellazione dal registro delle imprese determina l'immediata estinzione della società, indipendentemente dall'esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo, ove tale adempimento abbia avuto luogo in data successiva all'entrata in vigore dell'art. 4 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ossia al 1° gennaio 2004 (Cass. civ., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4060).

In seguito si è ulteriormente chiarito che la cancellazione dà sul piano sostanziale luogo ad un fenomeno di tipo successorio e, sul piano processuale, costituisce evento interruttivo, con tutto quanto ne consegue, per i fini dello svolgimento del giudizio di appello, alla stregua dei principi riassunti nel precedente paragrafo.

È stato difatti affermato (Cass. civ., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6070) che:

- dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6/2003, qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l'obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo;

- la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l'estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall'art. 10 legge fall.); pertanto, qualora l'estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell'art. 110 c.p.c.; qualora l'evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l'evento estintivo è occorso.

Successivamente a questa decisione — che sembra aver ricevuto l'indiretto sostegno della Corte costituzionale (Corte cost. 18 marzo 2016, n. 53) — diverse pronunce della Suprema Corte hanno fatto pedissequa applicazione dei principi da essa formulati, ivi compreso quello secondo cui, in caso di mancata dichiarazione o notificazione dell'evento interruttivo, l'impugnazione dovrebbe in ogni caso provenire o essere proposta nei confronti dei soci «atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l'evento estintivo è occorso» (v. p. es. Cass. civ. 4 agosto 2017, n. 19580; Cass. civ. 9 ottobre 2017, n. 23563). Tale applicazione non sembra corretta. La pronuncia delle Sezioni Unite sul congegno successorio derivante dalla cancellazione della società (ossia la già citata Cass. civ., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6070) ha avuto luogo prima del revirement in tema di ultrattività del mandato (ossia la nota Cass. civ., Sez. Un., 25 marzo 2014, n. 15295), ed ha fatto proprio l'inquadramento al momento accolto, secondo cui l'impugnazione andava in ogni caso proposta nei confronti della «giusta parte», indipendentemente dalla circostanza che l'evento interruttivo fosse stato dichiarato o notificato (così Cass. civ., Sez. Un., 16 dicembre 2009, n. 26279). Ma, dopo che la Suprema Corte è tornata ad affermare il principio dell'ultrattività del mandato, non v'è ragione di ometterne l'applicazione in caso di cancellazione delle società (per la corretta applicazione del principio dell'ultrattività, in caso di cancellazione della società, v. p. es. Cass. civ. 27 luglio 2015, n. 15724).

Resta da aggiungere che grava sul creditore l'onere della prova circa la distribuzione dell'attivo sociale e la riscossione di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio (Cass. civ. 22 giugno 2017, n. 15474).

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