Sindacabilità del lodo per errori di diritto: la Consulta pone fine al dibattito sulla disciplina transitoria

Mauro Di Marzio
30 Maggio 2018

La Corte d'appello di Milano ha posto il seguente quesito alla Corte costituzionale: è conforme a Costituzione una norma che impedisce l'applicazione di una regola processuale a processi introdotti dopo che la norma stessa è entrata in vigore, con ulteriore conseguenza che in alcune impugnazione per nullità successive al 2 marzo 2006 il sindacato degli errores in iudicando è ammesso ed in altre no?
Massima

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 829, comma 3, c.p.c., come sostituito dall'art. 24 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, in combinato disposto con l'art. 27, comma 4, del medesimo decreto legislativo, sollevata dalla Corte d'appello di Milano, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.

Il caso

Viene promosso dinanzi alla Corte d'appello di Milano un giudizio di impugnazione per nullità di un lodo rituale, lodo pronunciato all'esito di un arbitrato introdotto con domanda proposta dopo il 2 marzo 2006, ma sulla base di una convenzione di arbitrato stipulata in data precedente.

Sorge, nel giudizio di impugnazione, questione in ordine all'ammissibilità delle censure di violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia. Difatti, quelle censure sarebbero ammissibili alla luce della lettura dell'art. 829, comma 3, c.p.c., data da Cass. civ., Sez. Un., 9 maggio 2016, n. 9284. Quest'ultima importante decisione, difatti, ha affermato che, in tema di arbitrato, l'art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall'art. 24 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, entrato in vigore per l'appunto il 2 marzo 2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 27 dello stesso decreto legislativo, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l'entrata in vigore della novella, ma, per stabilire se sia ammissibile l'impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge, cui l'art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia, va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicché, in caso di convenzione stipulata anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio delle parti deve intendersi ammissibile l'impugnazione del lodo, così disponendo l'art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile.

Secondo la Corte d'appello, però, l'art. 829, comma 3, c.p.c., nella lettura accolta dalle Sezioni Unite, sarebbe incostituzionale sia in relazione all'art. 3 Cost., per violazione del principio di uguaglianza, comportando una disparità di trattamento tra situazioni analoghe, sia per violazione del principio dell'autonomia privata e della libertà contrattuale stabilito dall'art. 41 Cost..

La questione

Per comprendere i termini della questione occorre fare alcuni passi indietro.

Prima della riforma del giudizio arbitrale del 2006 l'art. 829, comma 2, c.p.c., stabiliva che: «L'impugnazione per nullità è altresì ammessa se gli arbitri nel giudicare non hanno osservato le regole di diritto, salvo che le parti li avessero autorizzati a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile». La norma, dunque, attribuiva al silenzio delle parti, al momento della convenzione di arbitrato, un preciso significato: quello di consentire l'impugnazione per errores in iudicando.

Con la riforma, la materia è stata regolata dall'art. 829, comma 3, c.p.c., secondo cui: «L'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge». La norma ha cioè capovolto, rispetto al passato, il significato del silenzio delle parti al momento della convenzione di arbitrato: se essi hanno taciuto l'impugnazione per errores in iudicando non è ammessa, a meno che non sia prevista dalla legge.

La riforma contiene inoltre al riguardo una disposizione di diritto transitorio, art. 27, comma 4, del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ove è stabilito che: «Le disposizioni degli artt. 21, 22, 23, 24 e 25 si applicano ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato é stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto», ossia al 2 marzo 2006. In particolare, poi, la disposizione transitoria richiama anche l'art. 24, che è per l'appunto quello che ha novellato l'art. 829 c.p.c., ivi compreso il terzo comma.

Il dato normativo, dunque, in sé è chiarissimo. Stando al testo di legge, se la convenzione di arbitrato, stipulata prima del 2 marzo 2006, tace sul punto, e l'arbitrato ha inizio dopo la stessa data, l'impugnazione per errores in iudicando non è ammessa.

Il precetto, tuttavia, ha suscitato nella prevalente dottrina sospetti di incostituzionalità: in buona sostanza, se così posso dire, perché cambia ex post le carte in tavola. La soluzione offerta dalla dottrina ha fatto perlopiù leva sulla lettura del citato art. 27, ed è cioè stata diretta a sostenere che la norma transitoria non fosse in realtà riferibile anche al terzo comma dell'art. 829 c.p.c..

La giurisprudenza della Cassazione si è inizialmente divisa, una parte nel senso di ammettere, nella situazione in considerazione, il sindacato degli errores in iudicando, l'altra parte nel senso di negarlo. Sicché sono intervenute le Sezioni Unite, affermando il principio poc'anzi citato. L'operazione compiuta è stata in effetti ardita, ma necessitata dall'impossibilità di lavorare sull'art. 27, data la sua inequivocità, con conseguente insussistenza di spazi per un'interpretazione correttiva, costituzionalmente orientata. Le Sezioni Unite, allora, hanno risolto il problema valorizzando l'inciso «dalla legge», contenuto nel terzo comma dell'art. 829: e cioè hanno affermato che la legge cui la disposizione rinvia è, anche, per le convenzioni di arbitrato stipulate prima del 2 marzo 2006, il previgente art. 829, comma 2, c.p.c., norma che, come abbiamo visto, dava al silenzio delle parti un significato di sindacabilità del lodo, nel successivo giudizio di impugnazione per nullità, per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia.

Si intende finalmente il quesito posto dalla Corte d'appello di Milano: è conforme a Costituzione una norma che impedisce l'applicazione di una regola processuale, quella che esclude la menzionata sindacabilità, a processi introdotti dopo che la norma stessa è entrata in vigore, con ulteriore conseguenza che in alcune impugnazione per nullità successive al 2 marzo 2006 il sindacato degli errores in iudicando è ammesso ed in altre no?

Le soluzioni giuridiche

La Corte costituzionale spezza una lancia a favore della soluzione accolta dalle Sezioni Unite, alla quale riconosce il rilievo del «diritto vivente».

Nello scrutinare la censura fondata sull'art. 3 Cost., ossia sulla violazione del principio di uguaglianza, la Corte costituzionale evidenzia che, in realtà, le situazioni comparate dalla Corte milanese non sono affatto omogenee: coloro che hanno stipulato una clausola compromissoria nella vigenza del vecchio testo dell'art. 829, comma 2, c.p.c., si trovano cioè in una situazione diversa rispetto ai contraenti che, dopo il 2 marzo del 2006, vigente la nuova regola, debbono esprimere una specifica volontà per realizzare il medesimo obiettivo dell'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto. Il punto di riferimento ai fini della valutazione sulla identità delle fattispecie non può — sottolinea la Consulta — essere individuato solo nella data di proposizione dell'arbitrato, in quanto così facendo si astrarrebbe la domanda dal suo contesto, trascurando il quadro normativo in cui la volontà delle parti si è formata e il ruolo che questa assume nell'arbitrato, come suo indefettibile fondamento. In buona sostanza, ciò che riceve il pieno riconoscimento è l'affermazione già svolta dalle Sezioni Unite secondo cui: «Non è possibile che una norma sopravvenuta ascriva al silenzio delle parti un significato convenzionale che le vincoli per il futuro in termini diversi da quelli definiti dalla legge vigente al momento della conclusione del contratto». Il ragionamento si completa con il (necessario, per rendere saldo il ragionamento) riconoscimento della natura sostanziale e non meramente processuale della regola posta dal novellato art. 829, comma 3, c.p.c., nonché con l'esclusione della violazione del principio tempus regit processum.

È agevole poi il rigetto della questione di costituzionalità svolta in riferimento all'art. 41. Osserva la Corte costituzionale che anche nel regime precedente alla riforma del 2006, l'autonomia negoziale si poneva come momento fondamentale della disciplina dell'arbitrato, in quanto la legge consentiva l'impugnazione del lodo, per violazione delle regole di diritto, salva diversa volontà delle parti. Il mutamento di disciplina, che restringe i motivi di impugnazione del lodo arbitrale non può, quindi, essere considerato come fondato sulla scelta di attribuire un maggiore rilievo all'autonomia delle stesse parti, visto che essa era pienamente salvaguardata anche nel vigore della precedente normativa.

Osservazioni

La decisione della Corte costituzionale pone definitivamente termine ad una querelle su una questione processuale e, come tale, è perciò stesso senz'altro benvenuta.

Devo dire che la tesi svolta dalla dottrina in ordine all'incostituzionalità della disposizione transitoria recata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 non mi ha mai del tutto persuaso, per molti motivi che ormai non c'è più ragione di indicare: tanto che la lettura, come è stato detto, «sindacalista» del citato art. 27, accolta in un primo tempo dalla Corte di cassazione, è nata proprio dalla cassazione con rinvio di una mia sentenza in cui mi era sembrato di poter escludere la reale sussistenza di dubbi di costituzionalità. Ed ammetto che, mentre non ravvisavo alcuno spazio per compiere operazioni ermeneutiche antiletterali sull'art. 27, l'idea di lavorare sull'inciso «dalla legge», ha valorizzato dalle Sezioni Unite, non mi aveva proprio sfiorato.

Queste ultime hanno difatti seguito una linea interpretativa che, in effetti, non era venuta in mente a nessuno, una soluzione, frutto di una mente acuta, quale quella dell'estensore, come si suol dire «ardita», «audace». Oggi quella soluzione trova la piena condivisione della Corte costituzionale. Non solo la fortuna, anche la Corte costituzionale alle volte aiuta gli audaci.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.